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IL SENSO DELLA VITA, E DEI FIANCHI

15 Apr 22

A cura di annalisapiergallini

Dicono che un autore scriva sempre lo stesso libro. Non vale per tutti, ma per alcuni sì. Si scrive sempre la stessa storia se non si è sicuri della propria storia e chi può esserne sicuro? Forse quando è finita. Ma allora importa ancora? Ho sentito che Mark Twain ha detto qualcosa come: sono stato morto per millenni prima di nascere e la cosa non mi ha creato nessun problema.
A volere essere riduttivi a Occidente siamo ossessionati dalla vita eterna e a Oriente dall’arrivare alla fine, che le reincarnazioni cessino.
L’idea cristiana del paradiso non è poi un granché, peggio ancora quello dei mussulmani, almeno se sei una donna, o un uomo che si rispetti, un femminista, qualcuno che non sia così incatenato alle vecchie idee del patriarcato o della sessualità puramente fallica, che è, nel migliore dei casi, deludente.
Occorre avere a che fare con l’Altro barrato, come lo chiama Lacan, con il suo gusto dei matemi. L’Altro che manca di un significante e questo voleva dire quando diceva ‘la donna non esiste’. L’Altro barrato è l’insieme dei significanti che manca di uno. Non è tutto, non è completo. Da quel buco là si desidera e a volte anche si ama. Si ama perché mancanti. Si gode, per lo stesso motivo. Ecco perché è altamente improbabile, come diceva Di Ciaccia nel 1991, che una macchina si metta a godere, non può mancare di un significante. Un robot non sarà mai umano e falliscono tutti i tentativi di immaginare una macchina che sia davvero umana.
I film sugli androidi non fanno che raccontare di come gli androidi tentino di diventare umani. Mi viene in mente la splendida protagonista di Blade runner, titolo e film riduttivo per Anche gli androidi sognano pecore elettriche? di quel genio di Dick.
Sono gli uomini a sognare di essere davvero umani, tramite il mito del robot. La scena più bella di 2001 Odissea nello spazio è quella del computer Hall che muore e muore alla maniera degli uomini, cantando Girogirotondo casca il mondo casca la terra tutti giù per terra!
La voce di Hall 9000 che si fa distorta e lenta, sempre più lenta e incomprensibile. È la nostra morte a essere messa in scena e così, senza Dio, si cerca, come si può, con l’arte, di tessere un velo sulla fine della vita, un velo profetico sull’umanità a venire ma anche del tempo in cui il film è stato girato: il 1968. Nello stesso periodo Lacan diceva che, con la religione monoteistica, la gente dimostrava di avere almeno un’idea in più nella testa. Dio è morto, ma non ci sono idee sul rimpiazzo.
Il nostro paradiso quando ero bambina a volte m’inquietava un po’. Ero religiosa per identificazione, insomma per amore di nonna Ninetta, quella figura buona che mi aveva riscaldato l’infanzia, ma anche un po’ per ribellione, visto che i miei a messa non ci andavano mai. C’è stato un periodo che ci andavo tutti i giorni e anche la domenica al cimitero. Le mie amiche mi seguivano, ci siamo sentite anche qualche rosario, in confronto era parecchio divertente cambiare i fiori spostando quelle alte scale con le rotelle.
La fede andava a braccetto con le mie idee rivoluzionarie, in realtà poche e confuse tranne una: fare la rivoluzione appunto e, sebbene non me l’avesse mai detto, sentivo che Dio era con me. Almeno fino a un certo giorno, ma questa è un’altra storia.
Allora, Dio e la rivoluzione andavano a braccetto, ma alcune questioni mi creavano qualche dubbio, come Darwin per esempio, ma non era un grosso problema, perché anche la scienza andava a braccetto con la religione, visto che era essenzialmente mistica.
Un problema più grosso derivava da questo paradiso. Una contemplazione eterna di Dio. L’immagine mi richiamava inevitabilmente la sala di un supercinema. Insomma un’eternità seduti!!?
La questione dell’estasi nella contemplazione di Dio, una volta capita grazie alla vita e all’analisi, mi crea ancora più problemi. L’estasi: ti auguri che duri in eterno solo se non ti è capitato di sperimentarla in vita. Il paradiso m’uccide si diceva in un bel film di un regista napoletano e si parlava di estasi erotica, amorosa.
Ma anche l’estasi mistica, per come la conosco io, non vorrei che durasse in eterno. Magari ogni tanto, che ne so il giovedì sera, oppure anche qualche istante, perché è qualcosa di così eterno anche se dura un’istante. Mi bastano piccoli brividi di estasi mistica. Insomma venire ma non sessualmente, un po’ come ora. La scrittura a volte, inaspettatamente, ma ricercatamente, mi regala lampi di quell’estasi senza però lasciare la mia vita, il mio sentire ‘normale’.
Ma chi vorrebbe godere eternamente? No, vogliamo tornare umani, piccoli, insicuri, coraggiosi e spaventati insieme, fare dell’umorismo, ridere delle nostre stupidate, e sì anche delle nostre miserie. Vivere un tempo fatto anche di ticchettii e non solo della tastiera, ma anche dell’orologio, vogliamo essere castrati, perché solo lì siamo felici. Nell’alternanza di notte e giorno, di vicinanze e allontanamenti. Aneliamo a vivere davvero. Spock è il personaggio perno di Star Trek e i momenti più belli sono quando lui si accosta ai sentimenti, per sfotterli col sopracciglio alzato, ma anche per provarli, lì quando smette di sapere tutto, perché non è nel sapere la risposta. Per fortuna Spock è vulcaniano e non cerca di capire le emozioni, sa che non c’è sapere che tenga per quelle. I momenti più divertenti sono quando subisce le battute di Kirk e di McCoy o quando le fa, addirittura, le battute. Ci sono scene carine in proposito anche in BigBug come quelle in cui i robot di casa si riuniscono per tentare, tanto per cambiare, di diventare umani, ma la risposta che si danno è abbastanza originale: gli esseri umani si distinguono da loro essenzialmente per una cosa: il senso dell’umorismo e così si mettono a studiare l’argomento. La loro barzelletta preferita è: suonano alla porta, che è? (Invece di: chi è?)
Spock che tenta di essere umano, gli innumerevoli film sugli autistici, sui folli, Pinocchio, la Sirenetta, il principe-ranocchio: vogliono tutti diventare umani. E tutti li guardano sperando di imparare come si diventa davvero umani. Escludiamo l’autistico, l’iperattivo, l’ossessivo, l’ipocondriaco, la sociopatica, l’anoressico-bulimica, il narcisista, il narcisista patologico e così via, all’infinito… Ne resterà solo uno, l’highlander, senza diagnosi e lui non cercherà comunque di diventare umano?
I film sui robot mettono in scena il dramma di un uomo che si appella alla scienza per trovare un senso, mentre il senso della vita sta proprio da un’altra parte, anzi non sta proprio dal lato del senso. Tutto quello che vale la pena come prettamente umano, l’umorismo, il desiderio, l’amore vanno piuttosto sul non-senso, ma un tipo particolare di non-senso che dà senso a quello che un senso non ce l’ha. Questa l’hai proprio azzeccata, vecchio Vasco. Uno che sa invecchiare è innegabile. Anche David Bowie ha saputo invecchiare, anche malato, ha scritto quel pezzo bellissimo che è Black star, dove, struggente, passa il testimone. Nel video di Lazarus si mostra malato, quasi allettato, che si alza dal letto per andare a scrivere alla scrivania. Ma il segreto non è nello scrivere, è nell’alzarsi.
Una delle donne intervistate in Linfa, un documentario sulle artiste della scena romana underground di Roma Est, dice di avere imparato al Pigneto a fare delle cose per il gusto di farle, anche se non è detto che poi se ne faccia qualcosa.
È bello il documentario, perché mostra un posto in cui non ci si sente troppo soli. Non è l’unico e gli esseri umani trovano infinite strade per fare legame, nonostante tutto. Quel tutto della società del post-capitalismo selvaggio e mostruoso che mostra continuamente sempre più sfacciatamente la sua faccia dell’orrore. E spesso le persone sono sole, di una solitudine sconosciuta nei tempi andati, una solitudine che chiamerei di mercato. Una solitudine che spinge a consumare, a consumare soli sempre più soli, ma fino a un certo punto, perché oltre una certa soglia, non si consuma più niente.
Essere umani conta, trovare il modo di incontrarsi, vedersi, fare delle cose insieme, in vario modo, amare, questo ci rende umani, insieme all’umorismo.
Nel libro tibetano dei morti ci sono pagine bellissime che parlano dell’aspirazione alla buddhità, la fine di tutte le reincarnazioni. Ogni porta corrisponde a un colore, a un punto del corpo, a un ‘difetto’, a una nuova reincarnazione. Bianco di dei orgogliosi, verde di antidei invidiosi, giallo degli umani vittime di attaccamento, blu per gli artisti schiavi dell’illusione, rosso per gli avidi spiriti tormentati e nero degli infernali.
“Non appena moriamo e cominciamo a trasmigrare,
In quel preciso momento, quando albeggiano le visioni dello stato intermedio della realtà,
E noi vaghiamo (soli) nell’esistenza ciclica (trascinati) dalle radicate tendenze abituali
Possano i tre saggi dei più alti regni guidarci (…)
…e così (circondati) possiamo essere salvati
Dalle frivole vie dei sei stati impuri (dell’esistenza)
Ed essere scortati fino al livello di un buddha del tutto perfetto.”
E quando non avremo né orgoglio, né invidia, né malvagità, né avidità, ma neanche illusioni e attaccamenti, allora forse finalmente somiglieremo ad androidi, che però vorranno essere umani.
Solo una battuta fa la differenza, ammesso che ci sia qualcuno a riderne. Indimenticabile la scena di Guida galattica per autostoppisti, quando il computer risponde alla domanda sul senso della vita, fa tutti i calcoli sulla questione e dice: 42.
Umorismo a parte, essere umani vuol dire essere donne. Dice una delle protagoniste di Linfa che il transfemminismo è l’upgrade. Tanto solo dalla posizione femminile, dal lato del significante mancante, si fa l’analista, l’artista, si crea, si ama, si condivide.

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