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IL SUICIDIO NEGLI ATLETI

30 Apr 17

A cura di Leano Cetrullo

Nessuno può predire con certezza il suicidio di un paziente ma tutti possiamo ridurne l’incidenza. Il comportamento suicidario può essere messo in atto lungo tutto il continuum dell’esistenza di un individuo, con una età approssimativa di partenza di 6 anni. Sappiamo grazie alla letteratura che circa il 30% delle persone che falliscono nell’atto suicidario, cercheranno poi di mettere in atto ulteriori tentativi del gesto estremo. Come ogni psicopatologia le variabili in gioco sono molte, forse troppe, e si differenziano da paziente a paziente, come la frequenza, la modalità e la letalità dei tentativi. Anche la cultura di appartenenza è correlata alla dinamicità delle manifestazioni dei comportamenti suicidari. Oltre a tutte queste variabili l’assunto fondamentale è che un tentativo di suicidio rispecchia sempre almeno una palese intenzionalità di morire. Essendo ogni patologia multifattoriale ed eterogenea anche la visione del suicidio deve essere osservata nella dimensione bio-psico-sociale. Perché se la genetica predispone, l’assetto psichico e patologico può aiutare o danneggiare, è sicuramente l’ambiente che scatena l’atto suicidario. La perdita di un parente stretto, una condizione medica grave ed improvvisa come il cancro, la perdita del lavoro o la morte del partner sono tutti fattori scatenanti, ambientali e frequenti, in cui il clinico dovrebbe porre molta attenzione nella gestione del paziente suicidario. Probabilmente stiamo entrando nell’era del suicidio perché oggi i caregivers falliscono sempre più spesso le dinamiche di accudimento precoci, sviluppando attaccamenti disorganizzati che scatenano psicopatologie di difficile trattamento come i pazienti borderline. La minaccia di comportamenti suicidari ed autodistruttivi sono gli aspetti più forti nel trattamento di pazienti borderline che obbligano il clinico a modificare sistematicamente lo “schema” ed il ruolo terapeutico. Il contratto è fondamentale per limitare quelle azioni estreme che spesso sono attuate solo a scopo manipolativo e di controllo sul terapeuta. Se per esempio a breve distanza dall’inizio del trattamento emerge materiale suicidario, probabilmente il paziente sta testando il terapeuta, per capire fino a che livello il ruolo del clinico è aderente a quello del contratto. Ogni ideazione suicidaria deve essere parte fondamentale del processo esplorativo dove sicuramente emergeranno significati e significanti importanti.

Essendo io anche un giocatore professionista ormai da molti anni mi voglio soffermare oggi sulla correlazione tra incidenza di suicidio ed atleti. Il National Collegiate Athletic Association (NCAA) ha recentemente fatto uno studio della durata di 9 anni dove ha cercato di misurare concretamente l’incidenza di suicidio tra gli atleti dell’NCAA. Hanno analizzato in questo studio retrospettivo, durato dal 2004 al 2009, i suicidi correlati in base all’età, il sesso, l’etnia e lo sport.
In questi nove anni hanno valutato un totale 3,773,309 atleti dove il 57,1% erano uomini e il 42,9% donne. La maggior parte erano bianchi (72,9%), seguiti dagli Afro-Americani (15,2%) e gli Ispanici (3,9%). Sono morti un totale di 477 atleti con una incidenza di 12.6/100000 di individui all’anno. Ma solo 35 sono stati i casi di suicidio identificati con una incidenza di 0.93/100000 individui all’anno, dove il metodo più utilizzato è stato un colpo d’arma da fuoco. Il suicidio rappresentava il 7.3% delle morti totali (35/477), trovandosi al quarto posto dopo gli incidenti traumatici, morti cardiovascolari ed omicidi. Il profilo statistico e probabilistico più rilevante è composto dai seguenti punti: l’età media era di 20 anni, la maggior parte degli individui erano di sesso maschile (82.9%), nel 68.5% dei casi gli atleti erano bianchi e lo sport con maggior incidenza è stato il football (n=13).

Tutte le grandi moli di dati sono stati comparati ovviamente con il gruppo di controllo di non atleti. È eccezionale notare come lo sport sia un fattore protettivo e quindi preventivo verso il comportamento suicidario. Gli “studenti-atleti” rispetto al gruppo di controllo di “studenti-non atleti” sono stati meno soggetti all’atto suicidario probabilmente perché più intrisi in un mondo sportivo dove trovano quotidianamente supporto sociale, mutuo aiuto, obiettivi, riconoscimenti con aumento dell’autostima e protezione dall’isolamento. Ma l’incidenza aumenta se ci sono infortuni, fallimenti nelle competizioni o predisposizione alla depressione maggiore.

La prevenzione del suicidio è fondamentale ed ha bisogno di un approccio sicuramente multidisciplinare ed evidence-based. Le ricerche future dovrebbero orientarsi verso la sempre più attuale chiave eziologica e di sviluppo bio-psico-sociale delle malattie, accettando la multifattorialità e l’eterogeneità delle psicopatologie che si fondono e mutano attraverso fattori protettivi e di rischio.

Lo psichiatra Prof. Leonardo Tondo (Lecturer in Psychiatry, Harvard Medical School) aggiunge:

“1. L'incidenza è più bassa negli atleti rispetto alla popolazione generale americana anche se di poco e questo sembra positivo. 2. La quarta causa di morte per suicidio significa però che gli atleti, così come i giovani, non muoiono per altre cause. 3. Gli atleti, proprio perché in generale in buona salute psico-fisica, sono in qualche modo autoselezionati come persone a minore rischio di suicidio. 4. il contratto terapeutico è un'arma a doppio taglio che può essere utilizzata in modo contrario da particolari persone. Le indagini specifiche non mostrano un suo effetto preventivo.” (Prof. Leonardo Tondo)
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/bibliography/tondo-leonardo/

"Il suicidio è l’estremo tentativo di migliorare la propria vita".
(Michelangelo)

 

Dr Leano Cetrullo

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