Dialogo tra Sarantis Thanopulos e Franco Borgogno
Sarantis Thanopulos: “Caro Franco nel tuo ben libro “Una vita cura una vita” (Bollati Boringhieri) ripercorri il tuo percorso di analista con grande chiarezza, passione che non ignora la discrezione e sincerità. L’esperienza personale si intreccia in modo originale con un’accurata disamina e interrogazione della prassi e della teoria psicoanalitica. Già il titolo anticipa la tua prospettiva: nella relazione analitica sono due vite che si incontrano (piuttosto che due “persone”) e anche in psicoanalisi, al di là dell’asimmetria delle posizioni e della necessaria centralità del paziente, non si può prendere cura di una vita senza prendere cura della propria e viceversa.
Una cosa che mi ha particolarmente colpito nel tuo libro è la definizione del trauma che tu fai, riprendendo, in modo essenziale, Ferenczi (il geniale allievo di Freud). Un evento non è traumatico psichicamente perché è accaduto, ma perché non ha trovato un ambiente in grado di riconoscerlo, significarlo e offrire il suo aiuto. Il trauma sarebbe dunque, secondo l’espressione che usi, un’“omissione di soccorso”.Qualcosa che sarebbe dovuto accadere nello sviluppo fisiologico, ma non è accaduto. Penso che la vita sia, fin dall’inizio, estroversione, esposizione, sbilanciamento che rende l’esperienza di sé e del mondo possibile, e senza il sostegno fisico e affettivo di chi ne prende cura, il bambino rischia di essere ferito proprio da ciò che crea il suo piacere di vivere. La ferita colpisce l’esperienza nel punto dell’incontro del godimento con l’apprendere.”
Franco Borgogno: “Caro Sarantis, non sono un “cuor di leone”, uno che si lancia senza paura in grandi imprese. Ho anche imparato presto che, se la battaglia è inutile, è d’uopo ritirarsi attendendo il momento per uscire allo scoperto e sostenere la propria via e le proprie percezioni, anche quando queste sarebbero state ostacolate dalla morale e dai pregiudizi correnti, che ho invero sempre combattuto con coraggio come ho sempre combattuto le ipocrisie, gli inganni e i dinieghi di chi non vuole essere disturbato. Non mi sono mai sentito forte, ma fragile e mancante di qualcosa che non avevo avuto, benché pronto a cercare qualcuno che mi avrebbe ridato l’attenzione che desideravo. Quando per esempio al ginnasio-liceo dovetti accettare il collegio impostomi dai miei perché “noiosavo” mia sorella (speravo così di trovare in lei quel supporto non ricevuto dai miei, visto che per loro spesso ero un peso e un obbligo), mi rassegnai al “carcere” rimandando progetti e desideri a quando ne sarei uscito. Partendo da me come è mio uso, Sarantis, ti sto descrivendo uno spoilt child, il bambino deprivato a cui è stato sottratto quanto fisiologicamente dovutogli e con forza impiantato un quid non suo. Allorché presentai il concetto tratto da Ferenczi e da una recensione di Paula Heimann di un libro di Masud Khan io ero del tutto convinto dell’“omissione di soccorso” che tu sottolinei ma a quel punto quella che per me è una realtà lampante non era agli altri visibile (si voltavano dall’altra parte per comodità? non la vedevano perché voleva dire vedersi anche in parte deprivati e identificati con quelli che li avevano deprivati di cui non volevano affatto intaccare l’identificazione che ne avevano fatto?). Quando presentai il concetto fui pertanto davvero un po’“cuor di leone” perché sia alla Clinica Neuropsichiatrica di Torino che al Centro Milanese di Psicoanalisi si scatenò a causa mia un putiferio.”
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