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IL VERO IL FALSO E IL BELLO

1 Gen 17

A cura di Sarantis Thanopulos

Silvio Perrella ha scritto, riferendosi all albero di Natale nel lungomare di Napoli, che abbiamo perso la capacità di distinguere tra vero e falso e tra brutto e bello.
Nel suo libro “Addii, fischi nel buio, cenni” parla delle immagini, “inestricabili, ma intime”, che si formano sulla nostra “retina culturale” quando leggiamo. Non ben definite sono conservate in un “arsenale di sinapsi”.  Nel tempo possono riattivarsi e rimare tra di loro e con la consistenza delle immagini che provengono dal mondo fenomenico.
La riflessione di Perrella mantiene la sua validità anche capovolgendone la direzione. Le immagini provenienti dal mondo esterno generano idee e interpretazioni che restano sfumate e imprecise  nella nostra mente, in stretta associazione con gli stati emotivi e affettivi di cui sono parte. Sono la fonte di ogni nostro discorso autentico, che ci impegna come soggetti, il luogo di quel “non so che”, che ci permette di dare senso alle cose in eccesso alla nostra capacità di significarle in modo chiaro e coerente. Le cose che affermiamo non sono vere, dotate di un senso reale, perché le esponiamo in modo logico e coerente, questo serve piuttosto a costruire un mondo prevedibile e un alloggio oggettivo della nostra esistenza. La verità delle nostre affermazioni precede la loro formulazione logica e ha il suo fondamento in quelle rappresentazioni ideative/affettive dei fenomeni sensibili che mantengono il loro rimare allo stato potenziale, insaturo e aperto a diverse configurazioni. Queste rappresentazioni sono le più adatte ad accogliere e trasformare, trasformandosi, l’impronta che i fenomeni lasciano in noi: costituiscono la pellicola “viva” che registra, rendendoli espressivi e creativi, i nostri processi trasformativi.
Il declino del “non so che” -la rinuncia alla definizione satura, chiusa delle interpretazioni che ci impegna realmente con la vita- ci rende incapaci di distinguere il falso dal vero. Ci priva dell’“idea”: non di una verità immutabile soggiacente a ogni apparenza, ma della trasformazione del nostro assetto mentale e emotivo che rende interpretabili gli oggetti sensibili che catturano il nostro sguardo. Rischiamo di smarrire l’interpretabilità stessa della nostra esperienza, la ricezione reale delle impronte profonde attraverso le quali il mondo “comunica” con noi, e quindi anche la capacità di riconoscere l’illusione difensiva, il posticcio e l’inganno.
Nella funzione di mediazione tra il pensiero  e la cosa sensibile, l’artefatto percettivo -la produzione di una percezione allucinatoria della realtà- si sostituisce all’idea –la collocazione della cosa in una dimensione potenziale, sperimentale, ma impegnante, della nostra attività di rappresentazione. Ne deriva una perenne produzione di falsità che colpisce la verità nel suo punto critico della distinzione tra bello e brutto.
Ad Atene del quinto secolo a.c hanno la loro origine due idee diverse ma complementari della bellezza che tuttora difendono la nostra capacità di discriminare  tra ciò che ci apre alla vita e ciò che ci fa ritirare da essa. Il bello come armonia espressiva che permane al di là della caducità dell’esperienza (la persistenza del gesto umano oltre la morte del suo autore) e il bello “tragico”, il piacere del vivere derivante dallo sconvolgimento della nostra struttura psicocorporea che ci spinge a gettarsi nel mondo.
La verità è la bellezza del vivere, che persiste attraverso le sue trasformazioni. La nostra capacità di differenziare il vivo -il piacere profondo che non ignora il dolore-dal morto -l’ottundimento dei sensi che inganna l’emozione e il pensiero.

 

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