Due ragazze di 15 anni hanno apostrofato un ragazzo di 12 anni in modo agghiacciante: “Stai zitto, sei un ebreo, devi morire nei forni”. Per poi aggredirlo con sputi, pugni e calci. Questo episodio, accaduto a Livorno, è il più grave di una serie di attacchi vandalici e di apologie del nazismo farneticanti e il più preoccupante. Dà chiara testimonianza del fatto che il virus dell’antisemitismo, sempre in circolazione, torna a manifestarsi nella quotidianità, nella vita dei ragazzi -che lasciati a se stessi imitano il peggio degli adulti e, diventando come loro, se ne difendono. Il virus di nuovo attivo (e da parecchio) cova tra gli adulti in modo molto più diffuso di quanto appare. I contagiati asintomatici sono molti di più dei sintomatici (che a loro volta sono molto più numerosi degli ammalati seriamente). Similmente a tutte le infezioni “psichiche”, il contagio dell’antisemitismo corre, per identificazione, sotto la superficie, come adesione mentale e emotiva a assunti identitari rigidi e quando si estrinseca nella sua forma più letale la diffusione della malattia può esplodere come incendio, attraverso la comunicazione sotterranea precedentemente stabilita, se le circostanze la favoriscono. È accaduto quasi un secolo fa e può riaccadere.
A Livorno è andata in scena non semplicemente una violenza adolescenziale, ma una forma di aggressione verbale che, inaspettata nel contesto in cui è stata usata, è foriera di cupi presagi. L’antisemitismo non è stato mai debellato ed è stato sempre presente: a lungo “addormentato” non si è mai estinto. Gradualmente sta risvegliandosi. È un veleno dell’anima (la distruzione dell’“altro” che siamo) che abbiamo cercato di eliminare nel modo sbagliato. Puntando sulla denuncia e sulla condanna dell’atto disumano. La memoria dello sterminio degli ebrei serve come ammonizione eterna sulla nostra distruttività e autodistruttività. Tuttavia nessun ricordo, nessuna documentazione, nessuna narrazione potrà mai afferrare e significare il “buco nero” che il nazismo ha aperto nell’essere umano e nella sua storia. Questo buco deve essere colmato dalla vita e ciò può avvenire solo attraverso l’elaborazione del lutto.
Quale è l’oggetto di questo lutto? Non può essere la nostra disumanità (l’evidenza che, se le condizioni oggettive dell’esistenza prendono il sopravvento sulla nostra soggettività, ognuno di noi può disumanizzarsi). È la nostra umanità perduta. Questa umanità, che è fatta di desideri, sentimenti, pensieri, ricordi e prospettive che legandoci tra di noi ci fanno scoprire e amare la vita, sente la mancanza degli ebrei? La perdita mai sanata? Si pensa forse che la costituzione di Israele o il massiccio espatrio degli ebrei negli Stati Uniti abbia risolto il problema, abbia sanato la ferita aperta nel cuore della civiltà e nella vita quotidiana di tutta l’Europa? Non si potrebbe pensare, invece, che per noi europei questa fuoriuscita ulteriore dei sopravvissuti sia stata un’altra catastrofe?
Far rivivere dentro di noi la disperazione, il dolore, l’amore per la vita dei morti e dei sopravvissuti, fa parte del lutto. Ma il lutto non si completa se l’oggetto perduto non diventa parte attiva del nostro mondo interno che ci interroga, mettendoci in movimento e, al tempo stesso, se non è cercato e trovato, scoperto in forme nuove nel mondo esterno. La stragrande maggioranza di noi è nata orfana degli Ebrei nei caffè, nei teatri, nei cinema, nelle scuole, nell’Università, nei musei, nelle piazze, nei parchi, nelle spiagge, nei sentieri delle campagne e delle montagne. Orfani di una dimensione transculturale che ha illuminato il nostro sguardo sulla vita e ha reso ospitali i nostri gesti. Finché l’Europa non avrà riconosciuto e elaborato la sua orfanilità, e la sua responsabilità nel tradimento della sua eredità, la sua memoria sarà corta e il suo posto e destino nel mondo incerto
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