Pensare sistemico è un'impresa sostanzialmente dialogica e cooperativa.
Ci siamo formati sui metaloghi batesoniani, scritti deliziosi dal significato non sempre trasparente ed immediato, in cui il contenuto emergeva dall'interazione fra la saggezza del padre e la ragionevole concretezza della figlia intorno a temi apparentemente semplici. Abbiamo imparato a lavorare in équipe, al di qua e al di là dello specchio unidirezionale, convinti che la realtà, nella sua complessità, si colga meglio attraverso una rete di punti di vista anziché uno solo (e d'altra parte abbiamo imparato a chiedere la stessa cosa alle famiglie che vengono in terapia: accettare che, più che decidere chi abbia ragione, è utile confrontare e accogliere ragioni). Perché non sono tanto i dati e le "cose" che ci danno informazioni, quanto le differenze fra quelle cose e fra i diversi modi di descriverle.
Tuttavia, va bene privilegiare la relazione sulle cose, il processo sul risultato e il viaggio sul traguardo, ma è anche vero che a un certo punto quelle idee bisogna usarle (che viaggiamo a fare, sennò? E in quale direzione?). Senza considerare che, quando le voci e i punti di vista aumentano, verba (e persino scripta) volant e il disordine, a un certo punto, rischia di paralizzare anche i pensieri più utili.
Insomma, arriva il momento che bisogna arrivare: provvisoriamente, ma arrivare.
Così un blog è uno strumento formidabile perché ti permette di dare una forma e una stabilità ai pensieri, ma al contempo li sottopone all'intervento di chi li legge: e dunque apre nel momento in cui chiude, e virtualizza proprio mentre attualizza. Pare un contenitore straordinariamente accogliente per un sapere che ha bisogno di riflettere su sé stesso senza reificarsi, ma insieme anche di essere maneggiato senza svanire tutte le volte fra le mani.
Allora ci proviamo. In questo spazio vedrò di approfittare di spunti forniti dalla mia attività (quella clinica, quella della formazione al Centro Milanese di Terapia della Famiglia dove sono docente), o da letture o da chissà cos'altro, per conversare in cerca di differenze. Quando sarà possibile ingaggiando amici e colleghi, altre volte saranno conversazioni fra me e me: contando naturalmente non solo sulla polifonia delle voci di quei colleghi che mi accompagna anche quando lavoro da solo, ma anche sull'intervento di chi mi leggerà.
A presto.
Ciao Massimo.
Senti, se tu
Ciao Massimo.
Senti, se tu fai una proposta con un discorso e io ti rispondo con questo:
https://vimeo.com/68054179
che differenza si crea?
“In cerca di differenze”:
“In cerca di differenze”: espressione che riassume e condensa efficacemente cosa significa il pensare sistemico, l’agire sistemico. Pur non essendo,io, un “sistemico”, posso dire che le oramai numerose volte in cui ho interagito con i “sistemici” – intervenendo a seminari, a convegni, a Padova, a Milano, a Trieste – ho avuto modo di verificare felicemente l’appropriatezza di questa espressione riattivata dall’amico Massimo in relazione alle attivitá e e al pensiero del suo gruppo di riferimento. Quando la valorizzazione delle differenze diventa l’habitus di un gruppo di lavoro, gli scambi diventano, automaticamente, fertili e produttivi. Una cosa mi sembra essenziale: questa valorizzazione delle differenze non è solo una linea di pensiero e un fondamento delle pratiche, ma anche una intelaiatura, una struttura portante dei processi di FORMAZIONE. La maggior parte – non tutte, ma la maggior parte – delle scuole di specializzazione (quelle quadriennali approvate e “consacrate” dal Ministero, dove il sottoscritto ha spesso svolto attivitá di docenza), sono MONOPARADIGMATICHE: un orientamento che ostacola la crescita e la maturazione degli psicologi clinici in formazione; un orientamento che sistemici come Massimo Giuliani, come Pietro Barbetta, come Luca Casadio – per non citare che loro – contrastano e delegittimano. L’idea di presentare la mia ultima uscita – RIVOLTE DEL PENSIERO. DOPO FOUCAULT, PER RIAPRIRE IL TEMPO (Bollati-Boringhieri, in .ibreria domani 13 giugno) – tra i sistemici, a cominciare dal Centro Milanese e dal Seminario BDF di Bergamo, mi riempie di gioia: so che per un autore la possibilità di discutere i propri lavori in contesti simili rappresenta una preziosa opportunitá di crescita e di maturazione.
Ehi, ma guarda che bella
Ehi, ma guarda che bella gente viene già a trovarmi 🙂 Una partenza così mi spinge a prendere maledettamente sul serio questo impegno!
Massimo Schinco e Mario Galzigna mi riportano a due modi possibili di pensare alla differenza.
Il primo oltre ad essere il codirettore del Centro Milanese, da anni è un esploratore di quel territorio che sta fra la metafora, l’arte e il sogno. Gli devo un paio di pensieri decisivi per comprendere le cose della metafora al di là di quello che si dice di solito: che cioè la metafora sia una cosa che significa un’altra cosa e che passare dall’una all’altra sia un’operazione di traduzione.
Così, Massimo, se tu mi rispondi col tuo minuetto, io potrei risponderti con questo: http://youtu.be/6Zt9mlP-NkM
Oppure con questo: http://youtu.be/4p8BLamRHXc e sarebbe un’altra differenza. (Possono essere molto differenti, le differenze!)
Mario, grazie di quello che dici. I miei maestri inventarono questo modo di lavorare e di pensare venendo dalla psicoanalisi: pensando per differenze. Così io e altri ci troviamo a percorrere e ripercorrere in un senso e nell’altro quella distanza, nella speranza non dico di guardare le cose coi loro occhi, ma almeno di vederci più chiaro. Anche perché, arrivati dopo di loro, sappiamo una cosa che loro hanno imparato sulla propria pelle: che un’idea nuova non scaccia via le idee di prima. Non le sostituisce: entra in dialogo con esse. Così guardare alle differenze non è più peccato. Noi siamo quelle differenze.
Ci vediamo presto al Centro Milanese col tuo libro, che leggerò presto!
Allora, il mio post era a
Allora, il mio post era a base di violino … anche nei brani musicali che tu porti ad esempio trovo dei violini. Tutti questi violini con la loro bella musica generano (o fanno parte di) mondi molto diversi tra loro. Quindi c’è diversità ma anche comunanza, e probabilmente un gioco misterioso che tiene in relazione l’una con l’altra.
Il violino è dunque uno strumento potente! Consideriamo peraltro che ci sono voluti secoli per far evolvere il violino nella magnifica forma con cui lo conosciamo ora.
A me piacerebbe che i nostri strumenti di cura, quale che sia il linguaggio utilizzato, fossero come questi violini, per cui non mi spavento se ci vogliono secoli per generarli e cerco – un po’ faticosamente, a dire il vero – di tenere a freno l’impazienza del curante.
Massimo, torno da una lezione
Massimo, torno da una lezione nella quale abbiamo ragionato su vecchie registrazioni del lavoro dei maestri Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin.
Stimolati a provare a descrivere le differenze fra i due, gli allievi hanno fatto ricorso per lo più a metafore musicali. Definendo, ad esempio, in termini di “ritmo” i due modi di condurre la conversazione terapeutica. Curioso: esiste qualche ragione oggettiva per cui arriva il momento che parlando di terapia si parla di musica o siamo noi che, dalli e dalli, li abbiamo condizionati?
A un certo punto, per esemplificare un certo modo cecchiniano di “ridurre all’osso” le narrazioni familiari, ho fatto riferimento a “Nebraska” di Bruce Springsteen e, ci crederesti?, non lo conosceva nessuno!
E poi facevamo confronti con i diversi periodi del loro lavoro (per esempio fra “Paradosso e controparadosso” e gli anni Ottanta), e su come quando un clinico costruisce una teoria e un modello non sfugga alla tentazione di considerarli un punto di arrivo: e invece le cose cambiano, i contesti e le sensibilità evolvono e quello che sembrava un traguardo definitivo è un momento di una lunga evoluzione.
Ma ha senso pensarlo e forse è anche utile. D’altra parte, quando – secoli e secoli fa – suonavano la fidula, a chi veniva in mente di dire “uff, ma quanto tempo ci vorrà per avere il violino?”.
Da quando ho incrociato il
Da quando ho incrociato il pensiero sistemico, mi sembra di non cercare più solamente una profondità di sguardo, come in una prospettiva con un fuoco al centro, ma di potermi muovere lateralmente, magari incorrendo in qualche strabismo; che, peraltro, anatomicamente, mi rispecchia!
Curioso di leggere ciò che verrà…
Siamo piuttosto abituati a
Siamo piuttosto abituati a considerare più “nobili” le metafore “verticali”: quelle di “profondità” e di “altezza”. Rivalutiamo l’orizzontalità (e lo strabismo)!
Ciao, Tito!
Già, abbiamo mitizzato la
Già, abbiamo mitizzato la profondità con metafore archeologiche come “scavare”, “andare a fondo della questione”, “penetrare”, eccetera. Il punto che differenzia, a me pare, il muoversi orizzontalmente destra-sinistra rispetto alla verticalità alto-basso è che nel primo caso si pensa di ri-velare di senso quanto si va comprendendo, mentre nel secondo si ha l’idea di rivelare, togliendo o squarciando qualche velo di Maya. Ha senso? 🙂
Impiegare il pensiero
Impiegare il pensiero laterale e rivalutare l’orizzontalità mi aiuta a cercare i nessi, le somiglianze, le differenze da com-porre. la ricompensa è la bellezza come ricorda Jhon Keats “Bellezza e verità, verità e bellezza: questo solo sulla terra sapete, ed è quanto basta”