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IN TEMA DI CONTENZIONE MECCANICA. Pensieri sparsi.

20 Ago 19

A cura di Paolo F. Peloso

Quando sono entrato per la prima volta da medico nei servizi ospedalieri della (nuova) psichiatria nel 1989, ho sbattuto subito la faccia nella contenzione meccanica – farla o non farla, ed eventualmente come farla, quanto farla durare e quanto farla spesso, scriverla o no – e ho avuto immediatamente la sensazione che essa non fosse “uno” dei problemi della psichiatria, ma avesse tra di essi una posizione centrale, basica. E’ il nodo intorno al quale con più chiarezza un gruppo di lavoro definisce le sue caratteristiche, e le caratteristiche della sua relazione con il paziente. Con sorpresa, negli anni ho scoperto che di questa questione si discuteva da un secolo e mezzo, scoprii il lavoro di John Conolly, con il suo libro pubblicato nel 1856 e proposto in Italia da Agostino Pirella nel 1976, e la relazione tenuta da Ernesto Belmondo nel 1904 al XII Congresso della Società Freniatrica: abolire i mezzi di contenzione nei manicomi italiani, con gli argomenti e le obiezioni che in molti casi sono esattamente gli stessi che si sentono oggi circolare, come se in oltre 100 anni su questo tema il dibattito non avesse mosso un passo. Così, il 21 gennaio 1995 proponevo all’Accademia patavina di scienze, lettere ed arti (nella città dove Belmondo aveva operato e lasciato tracce profonde e durature) uno scritto basato su questi precedenti storici, sul dibattito di allora sulla letteratura internazionale e su quello sulla allora scarsissima letteratura italiana, nonché sui miei primi impatti col problema. Vi sostenevo idee che oggi potranno apparire timide, ma rispetto a quella che era allora la realtà in cui operavo erano invece decisamente avanzate, dirompenti. Lo stesso anno il Forum per la salute mentale dava il via alla sua campagna contro la contenzione, che è ancora in atto e ha il merito di tenere accesa la luce sulla questione anche quando non sono tragici eventi di cronaca a farlo.
Il mio scritto è piaciuto ad Antonio Maria Ferro, che mi ha coinvolto a Savona in un lavoro volto alla minimizzazione della contenzione in SPDC della quale era appena divenuto responsabile; e lo stesso obiettivo ho perseguito quando, molti anni dopo, ho assunto io stesso per un anno la direzione di un SPDC a Genova. Quello che queste esperienze mi hanno insegnato è che contando il numero e la durata degli episodi di contenzione, dando la massima importanza all'obiettivo di evitarli, analizzandone criticamente caso per caso la ragione,  è possibile abbassarne notevolmente numero e durata. Scoprire che in molti casi, in cui lì per lì sembrava l'unica soluzione, se ne può fare a meno. Fino a zero? Chissà, comunque notevolmente; e mi pare già importante. Nel frattempo non avevo smesso di interessarmi del tema, e quando ho assunto la guida della SIP nella mia regione l’evento più importante del quinquennio, realizzato nel 2004, ha avuto per tema la contenzione, e la ricerca che lo ha accompagnato ha indagato i vissuti di pazienti e operatori rispetto ad essa; alcuni interventi e la ricerca sono stati poi raccolti in un libro, curato con Catanesi e Ferrannini, e pubblicato da Giuffré nel 2006 con prefazione di Bandini. Poi abbiamo ottenuto dal Comune che una piazza cittadina fosse dedicata al genovese Belmondo (l’attenzione per il tema poi è sfumata, e questo non giova alla qualità culturale e umana dell’assistenza psichiatrica). E così, credo sia stato proprio la costanza di questo mio interesse per la contenzione a spingere, nel 2008, Giovanna Del Giudice a invitarmi a Cagliari, in un momento che per quel gruppo di lavoro era particolarmente difficile, a discuterne con lei e con i colleghi; la ricordo come una giornata di grande qualità emotiva ed umana. Forse per lo stesso motivo poi, quando si è trattato di varare un documento sulla contenzione, la SIP mi ha identificato in entrambe le occasioni come coordinatore del gruppo; ne sono nati due documenti, entrambi disponibili sul sito SIP e raggiungibili da qui attraverso i rispettivi link, del 2009 e del 2014. Negli anni, mi è capitato anche di discutere con colleghi che sostenevano che la contenzione può far bene, nel senso proprio di essere “terapeutica”, invocando ragioni di ordine psicodinamico o neurobiologico; e lo ricordo perché è sempre bene tener presente quanto la realtà psichiatrica italiana possa essere variegata e sia possibile a volte anche imbattersi nelle posizioni più sorprendenti. In anni più recenti, poi, ho continuato a seguire l’argomento, e vi ho fatto riferimento anche su questa rubrica, rimandando anche ad alcuni testi e documenti più recenti, per l’incontro genovese di presentazione del volume Slegalo!. E così anche adesso, che il discorso ritorna sulla contenzione meccanica negli SPDC italiani, non ho resistito alla tentazione di ritornarvi anch’io, per riprendere concetti  già espressi in tante occasioni e contribuire così, spero forse con qualche spunto utile, a una riflessione comune.
  1. Innanzitutto non mi hanno mai incantato le sirene della dicotomia: “è possibile abolire totalmente la contenzione” / “la contenzione non può essere abolita totalmente”; e so che scrivendo questo deludo l’una e l’altra parte. Credo infatti che entrambe queste proposizioni pregiudiziali portino con sé il rischio di uno scivolamento: nel primo caso, verso la reazione “no, abolirla è impossibile,  e quindi non vale neppure la pena di impegnarsi a ridurla, va fatta e semmai va nascosta”. Discutendone con psichiatri e infermieri sui luoghi di lavoro, ho visto che a molti il pensiero astratto di rinunciare a priori del tutto alle cinghie fa proprio paura; e mi sembra perciò più facile che quegli stessi, imparando caso per caso a non utilizzarle, scoprano poi nel concreto di averne potuto fare a meno. Del resto, mi pare che basti scorrere quanto prevedono in tema di contenzione i Codici deontologici di medici e infermieri, per rendersi conto di quanto l'uno e l'altro concordino sulla necessità di ridurre il più possibile il ricorso al provvedimento, ma siano distanti dall'immaginare la possibilità di una generale abolizione. Nel secondo caso, lo scivolamento rischia di essere verso la risposta: “quindi, se è impossibile abolirla, si è sempre giustificati a metterla in atto”: purché il medico in scienza e coscienza la prescriva e si rispettino i protocolli, il che non considera che affrontare l’agitazione nella sua fisicità non è solo questione di protocolli e strumenti tecnico-scientifici, perché qui sono in ballo anche i diritti umani e le emozioni. Così, mentre la riduzione è in linea di principio auspicata, è anche rimandata a un domani fatto di tempi migliori che non vengono mai. Ed entrambe queste posizioni così, io credo, rischiano di determinare contenzione; dire “contenzione zero, oppure niente” e dire “la contenzione zero è impossibile” finisce per avere lo stesso effetto: spaventare gli operatori, i gruppi di lavoro in un caso, demotivarli nell’altro, comunque, temo, distoglierli dall’impegnarsi a non legare.
  2. Al posto dell’una e dell’altra di queste proposizioni, mi piacerebbe vederne emergere una terza: quella di una percezione diffusa che la contenzione è un atto, comunque sia, pesante, importante, compiuto contro l’habeas corpus sul quale si fonda la convivenza civile, e contro il soggetto perché lede la sua libertà, lede la sua dignità e può essere rischiosa per il suo corpo. Che ogni episodio di contenzione è quindi un fatto pesante, grave, mai banale; e se lo si evita anche in un solo caso, questo è già in sé un risultato straordinario. La contenzione è, dal punto di vista giuridico, un reato, che in quanto tale può essere commesso impunemente dallo psichiatra e dal gruppo di lavoro soltanto in presenza di un reale e attuale stato di necessità. Il che non è una trita litania che tutto giustifica, ma è un criterio molto restrittivo che comporta tre precisi ed essenziali requisiti. Il primo è che esista una  reale necessità, cioé che davvero non sia possibile fare altrimenti. Poi quello di essere una circostanza eccezionale, che non può configurarsi quindi come routinaria all’interno di una organizzazione (il che significa cosa, che non può accadere più di 10, 20, 50, 100, 200 volte l’anno in un SPDC senza farci sobbalzare? Non saprei dare un numero, ma è evidente che è importante che gli episodi vengano contati a livello locale, aziendale, regionale, che i numeri siano confrontati, e che intanto si cominci col cercare di comprendere perché il numero di episodi e le durate varino tanto da un SPDC all’altro, come in genere si riscontra). Il terzo requisito è che il concetto di stato di necessità implica in genere breve durata (è cioè strettamente limitato al momento in cui il rischio è reale e attuale, incombente; non mi pare possibile, quindi ad esempio come mi è capitato di sentire sostenere ancora recentemente, che la contenzione prosegua dopo che il soggetto si è addormentato!).
  3. Anziché in sterili discussioni sulla “possibilità/impossibilità” della contenzione zero, mi parrebbe più utile impegnarci tutti a diffondere la consapevolezza – tra operatori, pazienti, società ecc. –  che una buona psichiatria è una psichiatria che non lega. Non legare dovrebbe diventare perciò un obiettivo centrale, prioritario, per tutti (se era o no realizzabile, si vedrà semmai a posteriori). Una psichiatria può disporre delle migliori psicoterapie, la migliore riabilitazione, i farmaci più moderni, ma se affronta l’agitazione legando, ha i piedi di argilla. I più bravi e più fortunati arriveranno davvero – in alcuni casi sappiamo che sono già arrivati, ed è interessante studiare e discutere come – ad azzerare la contenzione. I meno fortunati e quelli che sono partiti più tardi o affrontano situazioni più complesse potranno essere soddisfatti di essersi solo avvicinati all’obiettivo, ma comunque anche loro avranno legato meno di prima e potranno ancora migliorare. E anche il loro sforzo è importante!
  4. Dobbiamo essere chiari, io credo, nell’ammettere che gestire una crisi di agitazione legando è più facile e più comodo. La ragione principale dello scivolamento verso la contenzione è molto semplice da individuare: è questa. Legare la follia viene spontaneo perché fa paura, fa disordine, a volte può anche far male; non per niente, il linguaggio comune parla del “matto da legare”. Per questo, se lasciamo che le cose vadano come vanno, la psichiatria è un piano inclinato lungo il quale le cose di per sé vanno verso la contenzione, e poi verso il prolungamento della contenzione. Per ribaltare quel piano, il gruppo di lavoro deve fare uno sforzo, metterci impegno, mettere pensiero e mettere cuore, orgoglio nelle cose che fa; deve essere consapevole che non legare non viene da sé, di per sé si è portati a legare, e per non farlo occorrono attenzione e lavoro. Anzi, occorre molto lavoro su se stessi e sul gruppo e può essere faticosissimo. Il gruppo non deve nasconderselo, ma deve convincersi che, anche se è più faticoso e difficile, però, ne vale la pena perché gestire la crisi senza legare è più bello e più giusto. Il che comporta due conseguenze. La prima, è che anche il lavoro di minimizzazione della contenzione nel quale tanti gruppi di lavoro possono impegnarsi senza arrivare allo zero, deve trovare rispetto, valorizzazione, incoraggiamento. La seconda, che in questo campo i professionisti della salute mentale non bastano a valutare se stessi ed è necessario che giornalisti, garanti, cittadinanza oltre a pazienti e familiari associati e no, ci aiutino a monitorare, con uno sguardo terzo, se l’impegno che profondiamo contro la contenzione è sufficiente (noi non dobbiamo mai restare soli con i nostri pazienti, perché la differenza di potere che esiste tra noi e loro ci rende pericolosi per loro, e ha fatto danni enormi nella storia). E sono convinto che i dati relativi alla contenzione dovrebbero essere monitorati ovunque, senza zone buie, anche perché ciò ha di per sé un effetto minimizzante; mi chiedo se questo della trasparenza, del portare alla luce ovunque il fenomeno su tutto il territorio nazionale senza lasciare opacità e così conoscerne la reale entità e prenderne coscienza, non potrebbe essere un primo concreto obiettivo politico, che veda – almeno questo – tutti concordi nel perseguirlo. Ma è possibile che oggi non sia disponibile il dato di quanti episodi di contenzione si verificano annualmente in Italia, se il trend è in salita o discesa, ecc.?
  5. Abolire la contenzione, farne proprio a meno, è sicuramente l’obiettivo – non può non essere l’obiettivo – di ogni psichiatria che voglia essere una buona psichiatria, una psichiatria democratica (cioè in sintonia con i valori della comunità democratica nella quale si inscrive). L’obiettivo da perseguire non come istanza generale, astratta, ideale, ma nel concreto del nostro lavoro, della nostra pratica, caso per caso, momento per momento. Cioè, mentre ci poniamo il problema concreto di come affrontare l’agitazione, la violenza di Gino, Luigi, Filippo, Maria – ciascuno con il suo volto e la sua storia – e i rischi che essa comporta. Ma il perseguimento sempre, senza tregua, di questo obiettivo non deve distoglierci dal fatto che anche quando la necessità ci costringa alla contenzione, non tutto deve essere considerato perduto, i giochi non devono essere dati per fatti. Anche nella contenzione, mi sento di dire, esiste contenzione e contenzione. E nel momento drammatico della presa sul corpo o addirittura della contenzione dell’altro dovremmo darci sempre una triplice regola: farlo solo nel caso, farlo per il tempo, farlo nel modo con cui vorremmo fosse fatto con noi, se fossimo al suo posto. Mai come in questo caso è indispensabile metterci emotivamente al posto dell’altro. Perciò avere per obiettivo l’abolizione non può andare disgiunto dal preoccuparci anche della cornice che, anche quando a quest’obiettivo veniamo meno, deve essere comunque garantita. Abolizione e garanzie; uno stridente ossimoro nel quale, però, considerato quanto ancora oggi si lega nella realtà italiana, siamo per ora costretti dai fatti. Occorre puntare all’abolizione senza trascurare le garanzie; e occorre preoccuparci delle garanzie senza che queste diventino un alibi (“la contenzione sicura e ben fatta”) per rinunciare a non utilizzarla, che rimane comunque l’obiettivo cui tendere. E le garanzie riguardano innanzitutto il tempo. Non conta solo l’avere o non l’avere legato: conta anche quanto dura la contenzione, e dobbiamo avere presente che ogni secondo strappato alla contenzione è prezioso. La contenzione va contrastata sempre, momento per momento; non si può mai dargliela vinta, neppure quando, apparentemente, ci ha vinto. E poi la sicurezza e la dignità: perché va da sé che il corpo dell’altro del quale la psichiatria lo ha temporaneamente espropriato, è un corpo da proteggere; perché non può più proteggersi da solo.  E poi, ancora, il vissuto: perché essere legato, essere totalmente nel potere dell’altro e non sapere quando si deciderà a scioglierci, è un’esperienze dolorosa, frustrante. E anche in quest’esperienza violenta che noi stessi per necessità – necessitati a nostra volta dalla necessità mi verrebbe da dire (cfr. in questa rubrica: La coazione va sempre evitata…), e solo se e finché realmente necessitati – gli stiamo infliggendo, dobbiamo accompagnarlo, con la presenza rispettosa e, se la accetta, con la parola. Prima, durante e dopo, non dobbiamo trascurare di esporre rispettosamente sia le ragioni che le garanzie alle quali avrà, comunque, diritto; perché esporgli le nostre ragioni e tranquillizzarlo sulle garanzie cambia le cose e significa, anche nel momento in cui lo oggettiviamo in uno degli atti più faticosi e contraddittori che il nostro lavoro può comportare, riconoscerlo come interlocutore e come soggetto. E non è che, tanto, legato per legato è lo stesso…   Non è lo stesso!
  6. Certo, l’alternativa contenzione/non contenzione in ambito psichiatrico non è solo questione di buona volontà o di capacità di un gruppo di lavoro. Lo discutevano gli psichiatri intorno alla relazione Belmondo nel 1904, e il tema ritorna anche oggi nelle nostre discussioni: è anche questione di risorse; logistiche, di personale, organizzative, di formazione ecc. Il che comporta, ancora, due considerazioni. La prima, è che nel perseguire l’obiettivo di abolire la contenzione il gruppo di lavoro non può essere solo; si tratta di un obiettivo più grande, che deve essere condiviso anche a un livello politico-amministrativo, e l’insieme del Dipartimento (esiste anche il problema della contenzione sul territorio, durante il trasporto all’ospedale, e meriterebbe un ragionamento a sé nel quale questa rubrica si è già impegnata in altra occasione) e l’Azienda sanitaria come espressione di un Sistema sanitario pubblico che ha nell’equità, l’universalismo e la democrazia i propri valori, devono a propria volta impegnarsi. Ma la seconda considerazione è che questo livello più grande, che trascende la discrezionalità e il potere del gruppo di lavoro, non deve mai diventare per esso l’alibi perché, comunque, intanto esso non s’impegni a fare tutto quello che può: la propria parte, che non cessa di essere, nel preciso momento in cui si deve decidere cosa fare, comunque fondamentale.
  7. Desta in me, infine, perplessità il fatto di affrontare, come a volte si tende a fare, la contenzione in ambito psichiatrico e quella in altri ambiti medici (geriatria ecc.) come se si trattasse di un unico fenomeno. Se certo il riferimento, infatti, è in entrambi i casi allo stato di necessità, mi pare innegabile che ci sono però differenze importanti che pongono problemi diversi. Una prima differenza è nella motivazione prevalente: che in psichiatria è per lo più il rischio di violenza imminente, in geriatria il rischio di caduta. E non è proprio la stessa cosa! Tra l’altro, mi pare evidente che proprio per questa differenza il rischio di deriva verso un uso controagito, o addirittura inconsapevolmente punitivo/disciplinare, del provvedimento è nel caso della psichiatria più elevato. Una seconda differenza sta nella forza richiesta per la messa in atto del provvedimento: si tratta in un caso di un soggetto per lo più nel pieno delle sue forze e agitato, nel secondo di un soggetto per lo più astenico o impacciato (da cui il rischio di caduta). Una terza differenza sta nell’atteggiamento del soggetto,  che è per lo più di viva e disperata resistenza nel caso della psichiatria, più spesso rassegnato o addirittura rassicurato in quello della geriatria. Una quarta differenza sta nel declinarsi temporale dei problemi, in quanto la condizione di rischio di violenza è in psichiatria una condizione episodica (e in genere di breve durata), all’interno di un’evoluzione che è fatta di momenti diversi, mentre il rischio di caduta può rappresentare, ad esempio per l’anziano, una condizione di lunga durata, o addirittura permanente. E con queste considerazioni non intendo certo dire che la contenzione vada abolita in psichiatria mentre sia più tollerabile negli altri ambiti; intendo solo dire che i due fenomeni nascono da problemi diversi, sono diversi, ed è probabilmente più utile affrontarli – sia nell’ottica delle garanzie che in quella dell’abolizione – mantenendoli distinti. 
Nel video allegato: la canzone "Sognando" di Don Backy, interpretata da Mina.

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