L’aria è un mantello di piombo, oggi, in reparto, che intorpidisce e fa trascinare le gambe. Ed è ancora più difficile sostenere le richieste di colloquio, di dimissione, di calo della terapia, di terapia aggiuntiva, di permessi, di sigarette, di caffè. La speranza di sopravvivere è legata a quel che resta del fine settimana, è sabato, manca poco, manca una consulenza. Esco trafelato dal padiglione, dal confino, attraverso il piccolo viale lungo la zona perimetrale del reparto, recintata e adibita al consumo frettoloso di sigarette. Mi lascio trascinare dal disorientamento che genera il contrasto tra il sole accecante e l’aria infuocata, fuori, e il labirinto di linoleum, luci al neon, cartelli, porte a vetro, ascensori, corridoi. Corridoi, nel castello dell’ospedale. Su nel reparto di chirurgia c’è silenzio, le porte sono numerate, i pazienti a letto. Qualcuno, sfuggito, forse, al destino dei protagonisti di un film di Monicelli, è accudito da dei parenti seduti accanto. Qualche passo e mi accorgo che manca qualcosa. Ho aperto la porta del reparto senza che scattasse nessun allarme, nessuna sirena stridula da coprifuoco, senza che nessun infermiere corresse sull’uscio per verificare l’imprevisto.
Mi avvicino alla stanza del collega per avere qualche informazione sulla consulenza richiesta. Qualcosa mi ha anticipato a telefono e non mi sono stupito, non più. D’altra parte le consulenze richieste agli psichiatri sono spesso particolari, bizzarre per certi versi, ma in fondo rispecchiano quello che gli altri pensano di noi, e forse siamo, e ci rifiutiamo di ammettere. Viviamo in una contraddizione, non- o meglio non completamente- medici che lavorano in un non-reparto. E invece di accettarlo e pensare, agire, vivere in questo spazio umano contraddittorio, vogliamo dimostrare di essere medici più medici, più scientifici, più attenti, più asettici. Così perdiamo l’aderenza al reale, e ci stupiamo quando un collega ci dice che si, l’operazione è andata tutto sommato bene (per ora è stato tolto solo un avampiede, forse tra qualche settimana sarà necessaria l’amputazione della gamba) ma il problema, ora, è che il paziente rifiuta di fare la dialisi. E se non la fa…
– Non mangia, non vuole terapie, volevamo fargli un sedativo ma non si lascia toccare. Dovresti provare a convincerlo.
– Per tutta la sua vita non ha mai avuto bisogno di uno psichiatra o di uno psicologo, certo ha sempre avuto un carattere difficile – dice la moglie. – E’ stata già dura portarlo qui, convincerlo a operarsi, ci abbiamo messo un mese per fargli accettare l’operazione, con la speranza che il by-pass potesse risolvere il problema per un po’, salvargli il piede. Fino al mese scorso veniva da solo in auto a fare la dialisi, a casa era sereno, badava ai nipotini, ora invece è indifferente a tutto e tutti, ci ripete di lasciarlo morire, che non vuole più saperne di dialisi e operazioni.
-E’ lì.
Nel letto con le spondine. Libero da flebo, libero da fili, libero da aghi, libero di scegliere, libero di voler morire. Penso questo. Aspetto ad entrare. Penso. Chi sono io per convincerlo che vale la pena fare la dialisi?, vale la pena continuare a vivere anche in sedia a rotelle?, magari solo per qualche anno ancora?, perdendo qualche segmento di corpo ogni tanto? Chi sono io per entrare nella sua esistenza, nelle sua storia, nel suo presente, nella sua morte? Il collega mi guarda, si scusa, ha molto da fare, si allontana scettico, un po’. La moglie mi guarda, con una disperazione composta, di chi sa che, tanto, comunque vada, i giorni sono stati e saranno sempre più impregnati di dolore, di silenzi, di ore scandite dai bisogni. Guardo in basso, al camice bianco candido. Mi sento un sacerdote laico chiamato a dare l’ultima parola di speranza, al più di conforto. E allora mi avvicino, senza balsami miracolosi e senza possibilità di mediazione con superiori sacri. Entro nel suo campo visivo, tutto appare raggrinzito e stanco, la stanza, le lenzuola, il corpo, la mia giornata, la mia fiducia. A stento alza un sopracciglio, con le energie rimaste dopo due giorni di digiuno volontario. Sono lento anch’io nel prendere una sedia e sedermi. Siamo lenti entrambi, i movimenti pesanti ci fanno sembrare immersi in uno spazio acquoso. Ma questo mi da fiducia. Rallentare, respirare, sentire l’inspirare e l’espirare del mio e del suo corpo, affannosi ma vivi. E’ una soddisfazione semplice ma piena quella che mi prendo, essere lento e diverso, dai colleghi turbo-psichiatri tutto pepe, tachi(vani)fluenti, quelli che con domande pre-impostate e caselline di una check-list di sintomi da riempire interrompono i pazienti perché divagano, non rispondono pavlovianamente, non si adagiano rassegnati nei loculi diagnostici ben organizzati nella loro mente. Da quelli che non hanno tempo da perdere coi pazienti perché devono correre a fare le slide a qualcuno che sperano di scalzare presto, e nel mentre stagnano e si perdono, nell’astio di un tempo subìto.
Mi presento. Rivelo i motivi per cui sono stato chiamato. Il paziente smorza subito le mie chiacchiere. Poche, precise, parole per dire che non ha bisogno di nessuna visita. Che ha già deciso, che vuole morire. – Ma come, perché?. – Perché?!, risponde indignato per la banalità della domanda. E sballotta la spondina di ferro a cui si aggrappa come se dovesse naufragare. Si, meglio tacere, e provare a riparare con l’attesa lo strappo, con il silenzio rispettare la distanza, lo spazio tra chi purtroppo va “incontro là dove si perde il giorno”, e chi invece aspetta il “più gradito giorno”. Manteniamo gli occhi bassi per qualche minuto, in silenzio, ma ho la sensazione che i nostri sguardi in realtà si intreccino. Respiriamo, ancora. All’improvviso mi chiede di passargli dell’acqua. Io e lui, una tendina verde per separarci dall’altro letto-paziente, un tavolino, il vassoio col succo di frutta. Mi chiede poi di passargli quel bastone lì a terra. Ma si è il caldo. O forse è il torpore di questa situazione labirintica. Sarà la mia confusione esistenziale-professionale. Ma il bastone proprio non lo vedo. – Dove?. – Lì, quel bastone lì.
E’ allucinato? Certo l’insufficienza renale, il post-operatorio, gli analgesici, le ore tutte uguali spese a guardare un soffitto. E’ in delirium, è la chiave. Provo ad usarla, per aprire un canale, per salvare dal naufragio il desiderio di vita, se ancora esiste.
Mentendo, forse, ma forse solo un po’: -ascolti, non sono qui per convincerla a vivere a tutti i costi. E’ che è una scelta importante. Per lei, per sua moglie, per i suoi figli, per la sua famiglia. E lei ora vede questo bastone che non c’è, vede non riesco a prenderlo. Vede anche degli animaletti? Come dice?, sui muri, sul vassoio? Ecco, appunto. E’ che non facendo più la dialisi si sono accumulate delle tossine (germi, tossine, vecchi lemmi medici sempre utili). E ora come fa a scegliere di morire? Che morire è una cosa seria, bisogna deciderlo con consapevolezza, prendere commiato dai propri cari, dalle cose care. Non si decide di morire mentre si è in delirium. No, questo proprio non posso permetterglielo, mi dispiace. No, non me ne vado, rimango qui, gliel’ho detto.
Perché ci credo, che non si decide di morire quando si è confusi, depressi, psicotici, disperati. Dov’è la scelta?
– Deve prima fare la dialisi, si riprende, poi decide.
Che se decidere, de-caedere, è un atto di perdita, la perdita più grande va onorata almeno con un po’ di lucidità.
– Si è convinto?.
Non molto, però oggi la dialisi la fa. Ci salutiamo, la stretta di mano che ancora sancisce un patto.
E’ un piccolo premio a quest’ora condivisa, un dono per me che accarezza il mio narcisismo. O forse dà un po’ di senso a questo lavoro, a questa psichiatria che non è scienza, non è medicina, non è psicologia né filosofia, vive in una terra di mezzo e però vive. Anzi è vita, vita che si innesta sulla teoria, sullo studio che permette di sviluppare un linguaggio, per decifrare le passioni e i gesti nostri e degli altri.
Il senso del nostro lavoro parte innanzitutto da questi ultimi, dai gesti gentili, come l’ascolto, il sedersi in silenzio, il condividere il tempo con lo sguardo rivolto all’altro. E’ apertura di un mondo ad un altro mondo, per contaminare le nostre esistenze con quelle degli altri, perché solo attraverso lo scambio è possibile salvarci dal vuoto, dal deserto, da una vita sempre uguale.
Per questo consiglierei a tutti coloro che tra qualche anno saranno psichiatri, agli specializzandi dei primi anni, di affiancare alle ricerche su Pubmed e allo studio di recettori e test statistici, la lettura di libri ormai troppo spesso banditi dai luoghi universitari, quelli che testimoniano dell’esperienza di chi ha dedicato l’intera sua vita all’ “avere cura”. Un buon inizio, ad esempio, è l’ultimo libro di Eugenio Borgna, “L’ascolto gentile”.
Mi avvicino alla stanza del collega per avere qualche informazione sulla consulenza richiesta. Qualcosa mi ha anticipato a telefono e non mi sono stupito, non più. D’altra parte le consulenze richieste agli psichiatri sono spesso particolari, bizzarre per certi versi, ma in fondo rispecchiano quello che gli altri pensano di noi, e forse siamo, e ci rifiutiamo di ammettere. Viviamo in una contraddizione, non- o meglio non completamente- medici che lavorano in un non-reparto. E invece di accettarlo e pensare, agire, vivere in questo spazio umano contraddittorio, vogliamo dimostrare di essere medici più medici, più scientifici, più attenti, più asettici. Così perdiamo l’aderenza al reale, e ci stupiamo quando un collega ci dice che si, l’operazione è andata tutto sommato bene (per ora è stato tolto solo un avampiede, forse tra qualche settimana sarà necessaria l’amputazione della gamba) ma il problema, ora, è che il paziente rifiuta di fare la dialisi. E se non la fa…
– Non mangia, non vuole terapie, volevamo fargli un sedativo ma non si lascia toccare. Dovresti provare a convincerlo.
– Per tutta la sua vita non ha mai avuto bisogno di uno psichiatra o di uno psicologo, certo ha sempre avuto un carattere difficile – dice la moglie. – E’ stata già dura portarlo qui, convincerlo a operarsi, ci abbiamo messo un mese per fargli accettare l’operazione, con la speranza che il by-pass potesse risolvere il problema per un po’, salvargli il piede. Fino al mese scorso veniva da solo in auto a fare la dialisi, a casa era sereno, badava ai nipotini, ora invece è indifferente a tutto e tutti, ci ripete di lasciarlo morire, che non vuole più saperne di dialisi e operazioni.
-E’ lì.
Nel letto con le spondine. Libero da flebo, libero da fili, libero da aghi, libero di scegliere, libero di voler morire. Penso questo. Aspetto ad entrare. Penso. Chi sono io per convincerlo che vale la pena fare la dialisi?, vale la pena continuare a vivere anche in sedia a rotelle?, magari solo per qualche anno ancora?, perdendo qualche segmento di corpo ogni tanto? Chi sono io per entrare nella sua esistenza, nelle sua storia, nel suo presente, nella sua morte? Il collega mi guarda, si scusa, ha molto da fare, si allontana scettico, un po’. La moglie mi guarda, con una disperazione composta, di chi sa che, tanto, comunque vada, i giorni sono stati e saranno sempre più impregnati di dolore, di silenzi, di ore scandite dai bisogni. Guardo in basso, al camice bianco candido. Mi sento un sacerdote laico chiamato a dare l’ultima parola di speranza, al più di conforto. E allora mi avvicino, senza balsami miracolosi e senza possibilità di mediazione con superiori sacri. Entro nel suo campo visivo, tutto appare raggrinzito e stanco, la stanza, le lenzuola, il corpo, la mia giornata, la mia fiducia. A stento alza un sopracciglio, con le energie rimaste dopo due giorni di digiuno volontario. Sono lento anch’io nel prendere una sedia e sedermi. Siamo lenti entrambi, i movimenti pesanti ci fanno sembrare immersi in uno spazio acquoso. Ma questo mi da fiducia. Rallentare, respirare, sentire l’inspirare e l’espirare del mio e del suo corpo, affannosi ma vivi. E’ una soddisfazione semplice ma piena quella che mi prendo, essere lento e diverso, dai colleghi turbo-psichiatri tutto pepe, tachi(vani)fluenti, quelli che con domande pre-impostate e caselline di una check-list di sintomi da riempire interrompono i pazienti perché divagano, non rispondono pavlovianamente, non si adagiano rassegnati nei loculi diagnostici ben organizzati nella loro mente. Da quelli che non hanno tempo da perdere coi pazienti perché devono correre a fare le slide a qualcuno che sperano di scalzare presto, e nel mentre stagnano e si perdono, nell’astio di un tempo subìto.
Mi presento. Rivelo i motivi per cui sono stato chiamato. Il paziente smorza subito le mie chiacchiere. Poche, precise, parole per dire che non ha bisogno di nessuna visita. Che ha già deciso, che vuole morire. – Ma come, perché?. – Perché?!, risponde indignato per la banalità della domanda. E sballotta la spondina di ferro a cui si aggrappa come se dovesse naufragare. Si, meglio tacere, e provare a riparare con l’attesa lo strappo, con il silenzio rispettare la distanza, lo spazio tra chi purtroppo va “incontro là dove si perde il giorno”, e chi invece aspetta il “più gradito giorno”. Manteniamo gli occhi bassi per qualche minuto, in silenzio, ma ho la sensazione che i nostri sguardi in realtà si intreccino. Respiriamo, ancora. All’improvviso mi chiede di passargli dell’acqua. Io e lui, una tendina verde per separarci dall’altro letto-paziente, un tavolino, il vassoio col succo di frutta. Mi chiede poi di passargli quel bastone lì a terra. Ma si è il caldo. O forse è il torpore di questa situazione labirintica. Sarà la mia confusione esistenziale-professionale. Ma il bastone proprio non lo vedo. – Dove?. – Lì, quel bastone lì.
E’ allucinato? Certo l’insufficienza renale, il post-operatorio, gli analgesici, le ore tutte uguali spese a guardare un soffitto. E’ in delirium, è la chiave. Provo ad usarla, per aprire un canale, per salvare dal naufragio il desiderio di vita, se ancora esiste.
Mentendo, forse, ma forse solo un po’: -ascolti, non sono qui per convincerla a vivere a tutti i costi. E’ che è una scelta importante. Per lei, per sua moglie, per i suoi figli, per la sua famiglia. E lei ora vede questo bastone che non c’è, vede non riesco a prenderlo. Vede anche degli animaletti? Come dice?, sui muri, sul vassoio? Ecco, appunto. E’ che non facendo più la dialisi si sono accumulate delle tossine (germi, tossine, vecchi lemmi medici sempre utili). E ora come fa a scegliere di morire? Che morire è una cosa seria, bisogna deciderlo con consapevolezza, prendere commiato dai propri cari, dalle cose care. Non si decide di morire mentre si è in delirium. No, questo proprio non posso permetterglielo, mi dispiace. No, non me ne vado, rimango qui, gliel’ho detto.
Perché ci credo, che non si decide di morire quando si è confusi, depressi, psicotici, disperati. Dov’è la scelta?
– Deve prima fare la dialisi, si riprende, poi decide.
Che se decidere, de-caedere, è un atto di perdita, la perdita più grande va onorata almeno con un po’ di lucidità.
– Si è convinto?.
Non molto, però oggi la dialisi la fa. Ci salutiamo, la stretta di mano che ancora sancisce un patto.
E’ un piccolo premio a quest’ora condivisa, un dono per me che accarezza il mio narcisismo. O forse dà un po’ di senso a questo lavoro, a questa psichiatria che non è scienza, non è medicina, non è psicologia né filosofia, vive in una terra di mezzo e però vive. Anzi è vita, vita che si innesta sulla teoria, sullo studio che permette di sviluppare un linguaggio, per decifrare le passioni e i gesti nostri e degli altri.
Il senso del nostro lavoro parte innanzitutto da questi ultimi, dai gesti gentili, come l’ascolto, il sedersi in silenzio, il condividere il tempo con lo sguardo rivolto all’altro. E’ apertura di un mondo ad un altro mondo, per contaminare le nostre esistenze con quelle degli altri, perché solo attraverso lo scambio è possibile salvarci dal vuoto, dal deserto, da una vita sempre uguale.
Per questo consiglierei a tutti coloro che tra qualche anno saranno psichiatri, agli specializzandi dei primi anni, di affiancare alle ricerche su Pubmed e allo studio di recettori e test statistici, la lettura di libri ormai troppo spesso banditi dai luoghi universitari, quelli che testimoniano dell’esperienza di chi ha dedicato l’intera sua vita all’ “avere cura”. Un buon inizio, ad esempio, è l’ultimo libro di Eugenio Borgna, “L’ascolto gentile”.
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