Tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, negli imperi coloniali europei si svilupparono lo studio e la cura dei disturbi mentali degli «indigeni», dei «nativi», quello che chiamiamo «psichiatria coloniale». Anche medici e psichiatri italiani lavorarono in colonia e comunque fuori dall’Europa, e lasciarono tracce del loro lavoro e delle loro riflessioni.
Fra questi va annoverato Domenico Longo, capitano medico, responsabile del reparto medico indigeni dell’ospedale coloniale di Tripoli (Libia), che nel 1929 intervenne su «La riforma medica» sulla questione de La sifilide nervosa nei mussulmani della Tripolitania.
Precedenti studi, specie di medici francesi che operavano in Algeria, avevano sostenuto la rarità della sifilide nervosa tra gli arabi rispetto a quanto accadeva fra gli europei, attribuendo il fenomeno alla “scarsa civilizzazione”, alla “mancanza di surmenage intellettuale”, alla “vita essenzialmente vegetativa dell’Arabo” che avrebbero reso il sistema nervoso degli indigeni più resistente all’azione della lue.
Longo non condivide tale tesi e attribuisce la scarsità di consultazioni e trattamenti al fatto che secondo la mentalità mussulmana, anche in Tripolitania quindi, i dementi sono creduti santi, "marabutti", ed "è loro permesso dai propri correligionari di vivere liberi fino a quando non diventino oltremodo pericolosi. Fino a pochi anni fa i malati indigeni […] si affidavano alle cure primordiali dei loro Tabib”. Con l’arrivo della civiltà, “dopo la pace apportata dalle nostre armi, anche la mentalità mussulmana comincia a modificarsi. I malati affluiscono sempre in numero crescente negli ambulatori e nell’Ospedale; essi provengono non solo dalla popolazione indigena di Tripoli, ma anche dai più lontani paesi dell’interno dove si svolge l’opera civilizzatrice e benefica dei medici militari e civili.
Di qui la soddisfazione per l’aumento dei casi di neurosifilide “che possono essere convenientemente studiati solo in Ospedale”.
Luigi Benevelli
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