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Individuazione: come raggiungere un obiettivo, nuotando nel mare impervio delle aspettative.

10 Mar 20

A cura di Alessandro Raggi

a cura di Matteo Marino
Psicologo psicoterapeuta

Quando siamo piccoli, i nostri genitori nutrono aspettative verso di noi,
ma la natura del bambino si oppone, facendo spazio alla sua libertà di espressione.
Crescendo, capisce presto che la relazione è regolata da norme, oltre che da affetti. 
È un dare e ricevere, un donare e un accogliere.
Entra così in contatto con la coesistenza del mondo maschile e femminile:
quello paterno del Logos (Animus), fatto di ragione, sicurezza, regole, doveri e concretezza,
 e quello materno di Eros (Anima), fatto di emozioni, protezione, accoglienza, piacere e creatività. 
 
Quando diventiamo grandi, incarniamo entrambi i mondi, li assimiliamo;
quando si diventa genitori, siamo noi ad avere aspettative verso di essi, figli a loro volta. 
Come se i ruoli si fossero invertiti e il comprendere quella posizione matura di adulto, 
ci portasse a vederli dalla loro prospettiva: gli occhi di un genitore che vuole proteggere suo figlio 
e ricevere allo stesso tempo la sua attenzione e gratitudine.
 Essere genitore vuol dire essere anche figlio. Essere maestro vuol dire essere anche allievo. 
Essere psicoterapeuta vuol dire essere anche paziente. 
 
Quando cresciamo, anche la società offre la sua presenza, e riversa aspettative.
Per ricambiarla, ci adeguiamo, produciamo, la rispettiamo, la seguiamo, ci facciamo coinvolgere
ma per la regola della reciprocità, ci aspettiamo qualcosa in più da essa.
È un gioco di equilibrio tra la libertà dell’essere e l’adattamento al conformismo e alla convivenza.
Integrare i pezzi del nostro mosaico umano, non è facile, né obbligatorio,
ma vi ci dobbiamo appellare per tollerare i nostri due inquilini interiori: il buono e il cattivo, bene e male.
Essere individuo presuppone anche diventare un essere sociale: un individuato che contenga gli opposti.
 
 
PREMESSE
 
«L'uomo puro, seduto nella sua casa e pensante i retti pensieri, 
sarà sentito a mille miglia di distanza»
(Detto cinese antico)
 
Questa riflessione introduttiva scaturisce dall’osservazione, in qualità di educatore prima (lavoro che ho svolto in passato) e psicologo psicoterapeuta poi, di tutta l’età evolutiva dall’infanzia all’età adulta. A cascata, la mia riflessione, prenderebbe inevitabilmente la piega di una analisi antropologica e sociologica, andando a toccare non solo le fasi dello sviluppo umano – e quindi psichico – ma anche l’aspetto culturale, facendosi sempre più concreta la domanda: «è possibile una integrazione degli opposti, dei diversi? Oppure si può liberamente scegliere di non scegliere? Restando nella parte che più ci è congeniale?»
Per quanto riguarda il livello psichico, se parliamo di integrazione dei contrari, nella mia pratica clinica, ho compreso, che a volte, ciò non è possibile nei termini di una vera e propria armonia, laddove un individuo sceglie di tendere più da una parte, di abbracciare più un lato di sé perché ne sente il bisogno e maggiormente orientato in quella direzione. Allo stesso modo, a livello culturale, una convivenza è possibile solo quando i conviventi sanno convivere, o perlomeno vogliono imparare, in altre parole: sono motivati a conoscere l’altro da sé. 
 
 
Il monaco tibetano ha scelto di condurre una vita lontana dalla tecnologia e dalla realtà sociale, ma non da quella comunitaria e nemmeno dalle regole, in quanto risponde a dei principi rigidi e dogmatici. Questa scelta è proprio in virtù di una totale dedizione alle parti inferiori (interiori) dell’animo umano. La sua vita – in parte – eremitica, non prevede un rispetto delle norme create da una politica democratica, bensì ad un sistema monoteistico retto da fede, obbedienza e spiritualità, il cui Dio fa da modello, e non démos (il popolo). 
Non vi è, in questo, un adeguamento agli altri, bensì a sé stesso (rivolto al Sé, che è la totalità e quindi rappresenta simbolicamente anche Dio), seguendo la linea del “diventa ciò che sei”. 
Ciò non vuol dire che non rispetti gli altri, anzi, paradossalmente li rispetta di più, perché conscio di avere obbiettivi e bisogni differenti, ha scelto di vivere tra chi ha il suo stesso stile di vita, ma conducendola in preghiera, che nell’accezione religiosa, è un atto altruistico.
Questo preambolo vuole essere solo un esempio per far comprendere come, scegliere e valutare un obbiettivo da perseguire, sia molto importante non solo per sé ma anche per chi ci sta attorno. Scegliere con saggezza un obbiettivo in linea con la propria natura è un atto di rispetto verso sé stessi e gli altri, è una azione di responsabilità individuale e sociale, civile. Il cambiamento parte dall’individuo. 
 
CONFORMISMO E PENSIERO CRITICO. TRA ADEGUAMENTO E IDENTITÀ
 
«Tutti predicano a tutti e nessuno sembra comprendere la necessità che il cammino del miglioramento cominci direttamente da sé stessi, anche se è una verità tanto semplice
(C. G. Jung – in una lettera a M. Serrano)
 
Per raggiungere saldamente un obiettivo bisogna innanzitutto dimenticare gli effetti a breve termine che ne conseguono, e concentrarsi sui passi da intraprendere per ottenere un determinato risultato atteso. Mi soffermo sulla parola “atteso” (non usata casualmente), perché rientra fra le trappole mentali della inevitabile “aspettativa”. 
L’individuo, essendo ontologicamente proiettato al futuro, basa il proprio umore e soddisfazioni su ciò che si aspetta e si prefigura. Mi avvalgo del compito, in questa sede, di approfondire la parola “aspettativa” e scomporla nei suoi vari aspetti e parti contigue, che se pur vicine, spesso vengono confuse tra loro, e anziché collaborare, rischiano di entrare in conflitto, portando l’individuo a crearsi un futuro ideale, ma falsato. C. G. Jung, probabilmente, farebbe rientrare questo nel complesso a tonalità affettiva, S. Freud nell’ ideale dell’Io; mentre per ulteriori approfondimenti tecnici in un’ottica cognitivista sull’argomento, rimando al testo accademico Psicologia degli atteggiamenti e delle opinioni.
Appena ci prefiguriamo la meta, scattano immediatamente delle associazioni mentali a catena che ci portano ad immaginare il presunto scenario, talvolta fantasticando. Sottolineo “presunto” perché non è mai quello reale, bensì influenzato dai nostri preconcetti, nonché pregiudizi, schemi mentali e spesso fantasie o desideri, pilotati da una personale logica, tipica e diversa per ogni individuo, per ogni fase della sua vita, e formatasi a seconda dell’educazione e contesto socio-culturale di appartenenza, che può reprimere da un lato, o illudere e condizionare dall’altro.
 
A proposito di condizionamento, spesso entra in gioco il fenomeno della persuasione, che non è mia intenzione trattare in questo breve saggio, ma per la cui teorizzazione rimando al bellissimo libro L’età della propaganda e al testo Psicologia della persuasione. 
Quella parte di politica “pseudo-democratica”, con le sue – talvolta – contraddittorie ed interpretabili leggi, regole, norme, richieste e pressioni dette appunto sociali, mette l’individuo in condizione di doversi adeguare al resto della popolazione, oggettivamente in modo non proprio equo, facendo rientrare questo tipo di adattamento – spesso in modo inopportuno – tra i “diritti e doveri di un cittadino”, che il soggetto si trova a dover imparare ed apprendere, sin dall’infanzia, dalle istituzioni educative quali la scuola e la famiglia, ed in seguito dalla politica stessa, che purtroppo, per prima, non sempre dà il buon esempio.
Ma cos’è che non torna in questo sistema? Per acquisire la capacità di far proprie delle regole, le persone devono essere innanzitutto istruite e guidate, e in seguito farne esperienza applicandole e raccogliendone i frutti. Io mi domando: se, ad esempio, il maestro o l’insegnante non hanno, per primi, dei valori collettivi, acquisiti e soprattutto elaborati, da trasferire alle nuove generazioni di allievi, cosa trasmettono? Non c’è forse il rischio di divulgare “dogmi” in cui non si crede (perché appresi passivamente o condizionatamente) e creare, negli altri, false credenze, imposizioni sociali e miti a cui credere senza la possibilità di metterli in discussione né di avanzare le proprie opinioni? Appellandosi così ad archetipi chiamati in causa al momento sbagliato, che altrimenti sarebbero sacrosanti se intercettati nel momento presente ed interpellati quando si costellano nella psiche collettiva. Per usare una metafora col gioco delle carte, sarebbe come usare la carta vincente quando non serve, sprecandola, o usare una carta scarsa quando possiamo giocarci quella buona.
 
Detto ciò, constatando che non esiste mai una scelta giusta o sbagliata, ma solo il momento opportuno per farla, credo sia giusto sottolineare l’importanza del coraggio di andare oltre la coazione a ripetere uno schema solo perché è l’unico che si conosce. Ciò che fa la storia – intesa come contenitore di eventi che han portato all’evoluzione (inconscio e coscienza collettivi), come collezione di segni che han tracciato il cambiamento – è la creazione di idee costruttive, evolutive, è il coraggio di imprimere un marchio che segna il progresso, e la messa in pratica di nuovi progetti da sperimentare e confutare, bada bene però, sempre nel rispetto dell’essere umano.
Ma è proprio qui che nasce la falla.
Ogni essere umano ha un proprio bagaglio di valori in merito al rispetto di sé e altrui, pertanto è difficile credere che bastino dei diritti civili ad unire tutti indistintamente senza ostacoli di sorta, e ciò che sia buono e giusto per alcuni, lo sia anche per altri. Questo è il motivo, per fare un esempio, per cui si è perso il controllo con la globalizzazione e i flussi migratori. Ogni paese ha i propri valori culturali e non possiamo pretendere di mescolarli senza tenere conto dei rischi, quali gravi conseguenze come il terrorismo, il razzismo, l’intolleranza e le difficoltà di integrazione. È come educare una volpe a convivere con le galline o un coccodrillo con un gatto, animali con nature, bisogni e istinti diversi. Qualcuno potrebbe dire: «ma gli uomini hanno la capacità di ragionare». Il problema nasce quando la razionalità non comunica con l’emotività, e la storia, spesso, ci porta esempi di unilateralità dove il ragionamento non è equilibrato ed armonioso, solo perché ci si fissa in una posizione a priori senza ascoltare e mettersi in contatto con l’altra parte.
 
Paese unito vuol dire condividere delle regole per il bene di tutti, e non per il bene di pochi privilegiati (chi decide), perché ammettiamolo, solo chi scende a compromessi e si adegua al sistema riesce a sopravvivere (non vivere, attenzione), mentre chi cerca di non conformarsi per salvare e salvaguardare la propria dignità umana e far valere i propri valori di uomo libero, dignitoso e ambizioso, viene fatto tacere o invitato “elegantemente” a imboccare l’uscita, se in disaccordo, e questo accade in tempi di crisi come quella che stiamo attraversando. C’è chi, però, esce dalle cosiddette “norme”, perché una cultura comune non basta ad unificare tanti cervelli e valori diversi (nature diverse); la natura e la cultura spesso non vanno di pari passo. Nascono così gli out-sider, i rivoluzionari ideologici, o semplicemente i “fuori dal coro”, che si dividono a loro volta in folli o innovativi. 
I primi sono letteralmente scissi tra gli opposti aspetti del sé, l’istinto e il raziocinio, l’inconscio e la coscienza, la generatività e la distruttività, laddove l’istinto prevale sul tutto, andando ad oscurare la parte razionale che dovrebbe stare in contatto con la realtà e far prendere decisioni ponderate nel rispetto di sé e degli altri. È questo l’esempio dello psicotico, che non ha avuto modo di integrare i contrari e vive totalmente inflazionato e invaso dall’inconscio negativo e paranoico, passando all’azione senza filtri (acting out), dando soddisfazione soltanto alla sua parte pulsionale che ha preso il posto della coscienza. Il terrorista, lo schizofrenico, il delinquente o il fanatico ne sono un esempio. 
I secondi sono persone integre, nelle quali coscienza e inconscio dialogano, tendendo all’unione e integrazione. Sono individui intuitivi, che consci del passato e in contatto con la realtà del presente, sanno guardare al futuro con un occhio premonitore, perché guidati da idee originali e capaci di cogliere i giusti indizi dall’ambiente circostante, come se avessero antenne radar che recepiscono e filtrano i giusti segnali per mettersi in contatto col mondo.   
Essi capiscono cos’è il reale benessere individuale e organizzativo, e sposano varie ideologie (senza irrigidirsi in una soltanto), come ad esempio quelle nordiche dove si lavora meno e si vive di più, con una migliore qualità di vita e più a lungo, per sé e di conseguenza per gli altri; vari orientamenti religiosi, come il buddhismo, che fan propria la parabola “vivi nel qui ed ora”, o stili di vita e di lavoro differenti, come ad es. la libera professione nella quale ci si organizza autonomamente il lavoro. Non che questi ultimi siano a prescindere i migliori, perché non è una gara, né è detto che stiano necessariamente meglio degli altri, ma non si sono conformati alla massa (sempre meno ampia) che agogna il tempo indeterminato, il posto fisso (dove non è scontato che ci sia possibilità di crescita, rischiando di stagnare le proprie capacità e creatività), mostrando così, almeno a se stessi, di avere una personalità libera e indipendente, e non voler essere trattati come un numero fra tanti, senza voce. Codesti, hanno in comune di aver compreso, almeno in parte, che più ci si adegua alla moda, alla politica millantatrice e alla maggioranza, e più si creano aspettative su come, quando e perché si deve agire, col risultato di una società omologata, poco creativa, stressata e ansiosa, all’insegna del Lexotan e del Valium (o i vari derivati e correlati ansiolitici e antidepressivi). 
D’altro canto, però, c’è chi ritiene più sicuro vivere nella certezza di un posto fisso e alle dipendenze del “grande capo”, nonché archetipo del grande padre, capace di assicurare protezione, speranza, sicurezza e futuro, e al quale si delega il compito e la responsabilità di dare delle regole, dei comandi e una direzione. Non è forse il compito al quale viene chiamato anche lo psicoterapeuta? Con l’aspettativa che sarà lui, con la sua aurea di potere e rassicurazione, a risolvere “magicamente” i problemi col minimo sacrificio da parte del paziente/dipendente?
 
Ognuno, come possiamo ben vedere, ha le proprie idee e necessità, l’importante è che non ne diventi schiavo o sottomesso, finendo per auto-giustificarsi e convincersi che siano le uniche giuste, per evitare quello scomodo e spiacevole meccanismo mentale chiamato dissonanza cognitiva.
 
Una società volta solo a produrre, tralascia i valori umani, e per continuare a produrre crea fra le masse, in modo subdolo, aspettative del tipo: «Se non fai tante ore di lavoro non puoi permetterti una bella casa, una famiglia felice e buone cure mediche». Dirà qualcuno: «per tutelare quei diritti esistono i sindacati, o le associazioni Onlus». Purtroppo, ad oggi, è ormai assodato che in molti casi, affidarsi nelle mani dello stato o della giustizia, richiede tempi molto lunghi e grande fiducia: un vero e proprio atto di fede. Con questo, non voglio dire che sia lecito farsi giustizia da soli o isolarsi o diventare egoisti, ma che è bene riversare meno aspettative negli altri e “rimboccarsi le maniche”, per evitare idealizzazioni, illusioni, delusioni o avanzamenti di pretese eccessive verso una società odierna che fa sempre più fatica ad assolvere al bisogno di tutti e nella quale ognuno fa già fatica a pensare per sé. Salvo eccezioni di realtà solidali e umanitarie, in cui il gesto autenticamente umano ed altruistico sembra ormai desueto, in rapporto ad una società disorientata, a volte allo sbando, e sempre più bisognosa di aiuto. È una triste verità che va accettata e rispettata, ma attenzione, non passivamente, bensì in modo pro-attivo nell’ottica di un miglioramento, dedicando energie a quella crescita interiore che per osmosi si propaga in una crescita esteriore, della collettività. L’obiettivo più nobile ma che richiede più impegno, pazienza e sacrificio, e che Jung definì Individuazione. Per una personalità degna di essere chiamata Umana.
 
 
Penso che molti convengano con me nell’affermare che prima di pretendere qualcosa da qualcun altro, ci si debba chiedere: «io cosa ho fatto per meritarmelo ed aspettarmelo?». Credo che non basti essersi adeguati passivamente con una maschera. Si dà spesso per scontato che qualcuno ci debba qualcosa – non sapendo cosa – come se ci fosse stato tolto in passato, e che la via per riottenerlo sia rivendicarlo, senza dar prova di essere il vero proprietario. Forse è una antica pretesa andata tramandandosi, che affonda le sue radici in tempi arcaici. 
Credo fortemente che sia necessario, e che ognuno ne abbia almeno la possibilità, di rallentare un attimo, prendersi un bel respiro, e aprire gli occhi per vedere cosa sta succedendo dentro e fuori di sé, scevri da giudizi. Solo con un atteggiamento riflessivo ma attivo allo stesso tempo, ci si può muovere in direzione di una crescita, dove per evolversi non bisogna per forza conformarsi facendo della massa un cervello unitario, anzi, bisogna crearsi il proprio spazio come fosse un laboratorio in cui lavorare ed elaborare, salvarsi dall’omologazione, e diventare padroni della propria vita nel mondo, prendendo le redini del proprio destino e impegnarsi a trasformarsi in un individuo unico ma collettivamente responsabile capace di dare al mondo il frutto della sua elaborazione. Solo allora potremo prenderci per mano l’un l’altro e andare dritti verso obbiettivi nobili.  Ognuno di noi, nel proprio micro-cosmo, attraverso piccoli gesti quotidiani, può dare l’esempio di come sia possibile costruirsi una identità e una personalità dignitose.
 
COSA MUOVE L'ESSERE UMANO? IL CARBURANTE DELLA PSICHE
 
Andando più nei dettagli, ora esporrò gli aspetti che gravitano attorno alla sopra citata e famigerata “aspettativa” che una persona si crea in merito alla società e alle relazioni, nel tentativo di farsi spazio e raggiungere dei risultati.
Innanzitutto è bene ricordare, seppur appare scontato, che nelle relazioni si è in due o più di due, pertanto una aspettativa deve tener conto prima di tutto del nostro comportamento o dell’azione che compiamo nei confronti dell’altro, dopo di che ci sarà una reazione ed un feedback, che per natura avrà un metro diverso di misura, proprio perché differenti sono gli “aspetti e i criteri”, ovvero il metro che ognuno usa per relazionarsi.
Inoltre, dato che di obiettivi stiamo parlando, non è detto che tutti si prefiggano dei risultati da raggiungere, c’è chi semplicemente vive alla giornata cercando di godersi il presente, per svariate ragioni: vuoi perché non è in grado di pensare al futuro, vuoi perché ha paura a guardare troppo in là, o si adagia per evitare lo stress, o si gode il qui ed ora senza far progetti a lungo termine, costruendosi passo dopo passo la struttura della propria vita, rivalutando di giorno in giorno le aspettative, che possono essere riviste e cambiate a seconda di ciò che accade al di dentro o al di fuori di sé. Quest’ultima è, a mio avviso, la situazione ideale, proprio perché sono i dubbi, la dinamicità e il cambiamento che portano all’evoluzione. Lo psicologo Thorndike avrebbe detto che al risultato e all’apprendimento migliori ci si arriva “per prove ed errori”.
In talune persone, invece, le aspettative son talmente radicate in schemi mentali appresi in modo cristallizzato, che è difficile scardinarle, ma ora arriviamo al nocciolo della questione. Cos’è che accompagna o circonda una aspettativa e la rende tale?
Come accennato all’inizio del saggio, l’aspettativa ha varie facce e mette in condizione l’individuo di fare i conti con sé stesso. Ma se egli non ha un buon rapporto con la propria interiorità, con le proprie funzioni psicologiche quali la sensazione, l’intuizione, il pensiero e il sentimento, se tali funzioni non sono in armonia e il soggetto non riesce o non sa “leggersi dentro”, è molto probabile che vada in confusione e scambi una emozione per un sentimento, un pensiero per una intuizione, una percezione da una sensazione e molte altre parti di sé, che se non bene integrate ed elaborate, mandano in subbuglio mentale e black-out.
 
Spesso mi è capitato di sentirmi dire dal paziente: «Dottore, io non so cosa provo», «non so di cosa ho bisogno», oppure «non so perché voglio questo o faccio quello, mi viene istintivo», o ancora: «ho paura di quello che potrei fare o di come potrei reagire». 
Tutto questo li fa galleggiare in un “presente immaginato”, ovvero un viversi il presente attraverso una dimensione futura plasmata, inventata, promessa. In altre parole, il corpo sta nel presente e la mente nel futuro di quella “realtà creata” dalle aspettative, dai sogni, desideri, paure, fantasie o ansia. 
È in questo frangente che la psicoterapia dovrebbe educare o rieducare alla consapevolezza e all’introspezione, aiutando a comprendere i propri atteggiamenti mentali e i meccanismi comportamentali attuati. Ciò che si è portato a coscienza può essere così integrato al resto della personalità e riutilizzato applicandolo nella quotidianità. Quando ci troviamo nell’impellente necessità di dare senso alla vita o sentiamo che è il momento di cambiare, è importante capire la differenza tra i diversi propulsori che possono entrare in gioco quando si prospetta l’oggetto dell’ambita meta, a volte concretamente realizzabile, o solo luccicante e affabulatorio. Solo così si potrà giungere ad una presa di decisione sana.
Ecco, dal mio punto di vista, alcuni spunti per capire meglio gli ingranaggi del complesso sistema che ci permette di raggiungere l’obiettivo prefissato o che ci permette di capire gli obiettivi fittizi. Si, perché non tutto ciò che ci si prefissa corrisponde a quello che stavamo cercando o che faceva realmente al caso nostro. Una volta comprese le differenze tra bisogno, desiderio, voglia, volontà, determinazione, motivazione, stimolo e dovere, ci sarà più chiaro cosa stiamo facendo, e le aspettative diverranno meno virulente, illusorie e pericolose.
 
 
Il bisogno
è fisiologico, biologico, legato al mondo pulsionale ed istintuale della natura umana, pertanto àncora il soggetto al presente, al fine di soddisfarlo e gratificare la propria parte istintiva, naturale. Nutre il corpo, e solo dopo, l’anima, se c’è uno scopo procreativo. Spesso le persone circoscrivono l’amore ad un mero bisogno, invece ciò che è importante sapere, è che il sentimento dell’amore è composto si da una parte di bisogno, ma senza le altre componenti (vedi dopo), perderebbe del suo elevato valore, riducendosi a componente prettamente animalesca.
  
Il desiderio
è il ponte che dal presente, porta al futuro, dal Sé porta all’Altro. È la parte più importante per il raggiungimento di un obbiettivo e per instaurare un rapporto. Senza la sua energia, il soggetto rimarrà in una dimensione egoistica ed otterrà solo obbiettivi temporanei e strumentali alla soddisfazione dei bisogni primari. In linea con J. Lacan, il desiderio ha come oggetto il desiderio dell’altro, e vive pertanto di una dialettica intersoggettiva, relazionale, volta alla comunicazione e all’unione, al legame tra l’individuo e gli altri significativi. In definitiva, il desiderio è come una vocazione che orienta, guida e struttura l’esistenza umana. L’uomo non deve dominare il desiderio bensì prenderci contatto e ascoltarne la chiamata, affinché possa individuarsi.
 
La voglia
è uno sfizio, un capriccio, la parola stessa deriva dal verbo volere, il che è diverso da desiderare. Il volere è una auto-imposizione ad ottenere qualcosa, sentendolo come obbligo per il proprio benessere, ma se non è accompagnato da un desiderio, sarà caratterizzato da una forzatura, che probabilmente porterà ad ostacoli che la persona, senza un vitale desiderio, non riuscirà a sopportare e di cui non accetterà l’eventuale frustrazione.

La volontà
è la parte motivante del desiderio. Nasce da una presa di responsabilità e si basa sulla cognizione di potere riuscire in una certa impresa, con determinazione. Per questo, spesso sentiamo dire: “Quella persona ha una grande forza di volontà che la porterà lontano”. Infatti, senza questa componente determinante, né un desiderio né un bisogno potranno concretizzarsi, in quanto è legata al carattere, alla personalità e al temperamento. 

La determinazione
nasce quando c’è una buona dose di autostima e volontà che portano ad impegnarsi nel perseguimento di un risultato. Essa si apprende con l’esperienza di vita, con la tolleranza alla frustrazione e avendo chiari gli obbiettivi che vogliamo raggiungere. Crederci, è la formula principale.

La motivazione
è l’aspetto più importante ma anche più complesso ed articolato, in quanto si suddivide in intrinseca ed estrinseca. La prima, più autentica, proviene da un bisogno interiore e da un sentito desiderio; la seconda deriva da uno stimolo o rinforzo esterno come potrebbe essere la ricompensa economica, il riconoscimento, la pressione sociale, le convenzioni o il bisogno di conformarsi.
 
Lo stimolo
è quella spinta esterna che ci può destare, svegliare ed attivare, ed in certo modo anche condizionare e influenzare. È un facilitatore, un catalizzatore, un attrattore esterno che a molti serve per mettersi in moto. Spesso può derivare da un amico, un familiare, un insegnante, un mentore, il proprio psicologo o una persona che stimiamo o ammiriamo e vediamo come esempio, come modello, e quindi può darci il via per iniziare a farci credere che forse, raggiungere un certo obbiettivo è possibile anche per noi.
 
Il dovere
è l’aspetto più legato al Super Io, ovvero alla coscienza morale che porta il soggetto ad adempiere a un certo compito, per conformarsi ad una regola (o norma) che se inizialmente derivava da una impostazione educativa, in seguito si trasformerà in un atteggiamento proiettato verso la società, verso la quale ci si sentirà in diritto di adeguarsi per adattarvisi. Il rischio del “senso del dovere” è trascurare la componente del piacere, l’Eros, fondamentale per nutrire l’animo umano di profondità, di coloritura emotiva, affettiva traducibili in spontanee azioni che portano ad una autentica vicinanza e relazione umana, e soprattutto alla libertà di vivere, lasciarsi andare e come diceva C. G. jung, di “lasciare accadere”. 
 
CONCLUSIONI
 
«Col solo imparare a tener testa alla propria ombra 
si è fatto qualcosa di positivo per il mondo. 
Ognuno presti cura e attenzione ai suoi conflitti interiori e personali 
e avrà ridotto di un milionesimo di milione la conflittualità del mondo.» 
(C. G. Jung)
 
La distinzione fra il termine aspettativa e gli altri contenuti psichici, o meglio, atteggiamenti che attivano il comportamento umano, è utile quanto per un meccanico sia importante capire le componenti di un motore (pistoni, cavalli, ecc..) affinché la macchina su cui ha lavorato, possa affrontare un viaggio sicuro. Mettere un pistone al posto di un cilindro, non farà partire la macchina o porterà fuori strada allo stesso modo di come un senso del dovere venga confuso col desiderio. Per usare una metafora molto esplicativa, si pensi al cibo, e di come esso, a seconda del punto di vista, possa simboleggiare la vita come la morte, il nutrimento come l’ossessione. Intorno al cibo ruotano molti stili e atteggiamenti diversi. Può rappresentare fonte di nutrimento se visto dal punto di vista del bisogno fisiologico; oggetto di dipendenza nell’ambito dei disturbi alimentari; fonte di piacere se vissuto come desiderio, o ancora, stimolo proteico per un body builder motivato a seguire una certa dieta per definire la massa muscolare. Come è facile notare, lo stesso oggetto (in questo caso il cibo) ha diverse funzioni e sfumature a seconda dell’obbiettivo per il quale se ne fa uso.
È compito di ogni psicoterapeuta o psicoanalista sfatare i luoghi comuni, demistificare le credenze popolari, e far più chiarezza possibile tra il marasma di significati sovrapposti che circolano nell’uso comune, tra persone che utilizzano impropriamente parole o concetti appartenenti ad ambiti scientifici o professionali. Come ad esempio il termine depressione, che viene spesso accostato e sostituito alla tristezza, o il termine mania scambiato per ossessione, o ancora, bipolare confuso con doppia personalità etc. 
Ma soprattutto, lo scopo di un buon approccio psicoterapeutico o psicologico divulgativo, è aiutare l’individuo a “cucinare, masticare bene e digerire” ciò che assimila, per trovare soddisfazione in ciò che “mangia”, e poter trasformare l’energia che ne deriva in un qualsivoglia obbiettivo voglia raggiungere.
Usare bene il linguaggio è un nostro dovere, e J. Lacan ha dedicato tutta la sua carriera ad insegnarcelo. Dal buon uso del linguaggio ne derivano meno fraintendimenti, meno malintesi, e di conseguenza miglior qualità dei rapporti e maggiori sentimenti positivi, maggior produttività e in un’ottica sociale, una qualità di vita più gratificante e soddisfacente. 
In particolar modo, con questo saggio spero di aver aiutato a mettere ordine in quel cassetto colmo di concetti inseriti come microchip (spesso subdolamente) dalle ondate di articoli e consigli in pillole diffusi da molti mass media e social media, attraverso i quali vengono dispensati suggerimenti su come raggiungere obbiettivi in poco tempo e con poco sforzo, sottovalutando con leggerezza e superficialità, il valore dell’impegno e del desiderio autentici. Come C. G. Jung disse: «Ovunque ci sia la forza creativa del desiderio, germoglieranno i semi propri di quel terreno».
 
 
BIBLIOGRAFIA
  • C. G. Jung. Opere vol. 3. Psicogenesi delle malattie mentali. Psicologia della dementia praecox. Bollati Boringhieri. 1907
  • Sigmund Freud (1923), L’Io e l’Es, Bollati Boringhieri, Torino 1985.
  • Nicoletta Cavazza. Psicologia degli atteggiamenti e delle opinioni. Editore Il mulino, 2005. 
  • Anthony Pratkanis; ElliotAronson. L’età della propaganda. Usi e abusi quotidiani della persuasione. Ed. Il mulino, 2003.
  • Nicoletta Cavazza. La persuasione. Editore Il mulino, Bologna, 2007.
  • Leon Festinger. Teoria della dissonanza cognitiva. Franco Angeli, 1997.
  • Edward Lee Thorndike. The fundamentals of learning. New York, Teachers college, Columbia University, 1932.
  • Carl Gustav Jung. Tipi psicologici. Bollati Boringhieri. 1977.
  • Massimo Recalcati. Jacques Lacan: Desiderio, godimento e soggettivazione. Cortina RaffaelloEditore. 2012.
 
AUTORE
Matteo Marino, Psicologo Psicoterapeuta ad orientamento junghiano e sessuologo clinico. 
Svolge attività clinica in privato a Bologna e a Massa Carrara, con una pregressa esperienza in ambito ospedaliero, psico-giuridico, presso il SAP (Servizio di Aiuto Psicologico dell’Università di Bologna) e una parentesi come formatore.
Si occupa prevalentemente della fascia di età adulta e giovani adulti, trattando problemi relazionali, familiari, sessuali e di coppia, legati alla sfera emotivo-affettiva e comunicativa. 
Dall’amore per l’arte è iniziata la sua ricerca sui processi creativi in psicoterapia, con l’intento di accompagnare l’individuo alla scoperta del Sé creativo e orientarlo al raggiungimento dei propri autentici obiettivi, personali e professionali. 
 
PUBBLICAZIONI:
  • Saggio Sessualità e nuovi media. Franco Angeli, 2018.
  • Saggio Dai social media alla stanza di analisi. Om edizioni, 2018.
  • Saggio Creative Psychotherapy. Dynamic Psychiatric journal, 2018.
  • Libro Hermann Hesse e il mito di sé. Moretti & Vitali, 2017. 
  • Libro Là dove il tempo e lo spazio ci aspettano. L’Espresso editore, 2014.
  • Articoli: Arte frutto dell’anima (2012); La proiezione nella relazione terapeutica e di coppia (2014). Rivista di Psicologia Il Minotauro. Ed. Persiani
 
 

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