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Insegnamento e apprendimento: l’integrazione a scuola dei bambini e dei ragazzi immigrati (1994)

4 Giu 21

A cura di Leonardo Dino Angelini

Relazione tenuta nel 1994 all’interno
dei momenti formativi rivolti ai giovani volontari del
 Gruppo di Volontariato giovanile “Gancio Originale” di Reggio Emilia

 

1. Appartenenze
 
Questa che sto per cominciare, in un certo senso, è una autobiografia: infatti stiamo qui a parlare di immigrazione, ed io stesso sono un immigrato.
Reggio Emilia, come si sente anche dall'accento, non è il luogo delle mie origini.
Sono nato in Puglia, a Locorotondo, nella Murgia barese, e sono molto fiero della mia meridionalità, anche se la mia appartenenza ormai non è più solo quella che mi proviene dal luogo delle origini, ma anche quella che è dentro di me come risultato di tutte le esperienze fatte negli altri luoghi in cui ho avuto la ventura di vivere, e soprattutto quella fatta qui a Reggio Emilia, città nella quale vivo ormai da lungo tempo.
Qualche anno fa, poco dopo la pubblicazione di un mio libro, intitolato "Le fiabe e la varietà delle culture", libro che era stato acquistato dalla nostra (attenzione! Mi sto definendo come reggiano!) Biblioteca Panizzi, ricevetti una telefonata da uno storico reggiano che mi invitava a partecipare ad un incontro di studiosi di storia locale. Seppi in quel momento che venivo considerato uno storico reggiano.
Ebbene non ho ritegno a dire che in quel momento provai una forte emozione dentro di me: quelle parole, dette al telefono, avevano per me il significato di un battesimo. Mi resi conto che, fino a quel momento, nel mio intimo non ero ancora sicuro di questa mia più recente appartenenza, ed, a dire la verità, ancora oggi, di tanto in tanto, torno a non esserlo.
Tendo a farlo quando le cose non vanno bene, quando non sono in pace con il mondo, e in particolare con questo piccolo mondo che è Reggio Emilia: allora è come se dentro di me una voce che viene da lontano mi richiamasse ad antichi amori, ad antiche appartenenze in polemica con quelle più recenti, viste – finché le cose non tornano ad andar bene – come terreni inospitali e ingrati. Voce, badate bene, che sento anche in altri momenti, quelli in cui sono più in pace con il mondo e con me stesso, ma allora gli accenti polemici dentro di me non li sento più, ed il richiamo del passato non preme nel senso della non integrazione, ma al contrario mi spinge ad una visione più integrata del rapporto fra passato e presente.
 
Ecco, l'immigrato è sempre combattuto, dilacerato, ambivalente nel tentare di risolvere il rapporto fra proprio passato e situazione presente, fra appartenenza primaria e secondaria; laddove entrambe queste appartenenze sempre dentro di lui sono in bilico:  fra nostalgia dell’età dell’oro e rabbia nei confronti della terra matrigna che non ha saputo tenerlo presso di sé, la prima; e fra rifiuto dell’integrazione e voglia di lasciarsi coinvolgere pienamente, la seconda.
 
   
2. Ambivalenza ed integrazione nel caso dell’immigrato
 
Il problema dell’ambivalenza però non è un problema che prende solo l’immigrato. In generale, infatti, in tutti noi c’è sempre ambivalenza quando in ballo sono i nostri rapporti con le persone alle quali siamo più legati. Amore ed odio, creatività e distruttività, spinta all’integrazione e spinta alla dis-integrazione sono parenti molto più prossime di quanto ad una analisi superficiale possa sembrare, e tendono ad enfatizzarsi quando gli oggetti investiti da queste forti passioni sono persone a noi care o noi stessi.
L’ambivalenza, all'interno di ciascuno di noi può risolversi in svariati modi: ho avuto modo di seguire in passato una madre che, finché la propria figlia era rimasta piccola era stata una madre fin troppo buona ed amorevole, ma che poi, di fronte al fatto che la figlia, diventata ormai una ragazza e perciò più lontana emozionalmente da lei, non avendo mai fatto i conti con la propria ambivalenza, ed in particolare con le proprie parti cattive, aveva avuto un vero e proprio scompenso psicotico, originato dall’emergere in lei, che si considerava solo e totalmente buona, di pulsioni aggressive nei confronti di colei che con la propria giovinezza sottolineava il fatto che lei stava invecchiando.
In questo caso l’ambivalenza si era risolta in modo catastrofico poiché fino all’ingresso in adolescenza della propria figlia in quella signora non vi era stata alcuna consuetudine con le proprie parti cattive, per cui, una volta che quelle parti erano emerse, non era stato possibile riconoscerle, accettarle, integrarle insieme alle altre parti compresenti all’interno della psiche della signora.
Fortunatamente molto più spesso la risoluzione che all’interno di ciascuno di noi si prospetta al problema dell’ambivalenza  è meno traumatica, poiché la maggior parte di noi ha fatto i conti con le proprie parti cattive e distruttive fin dalla nascita.
Il modo più maturo che abbiamo per risolvere il tema dell’ambivalenza è l’integrazione: e cioè quella tendenza dinamica (cioè non fissata una volta per sempre, ma flessibile e plastica) ad armonizzare dentro di noi tutte le parti, tutti gli introietti dai quali siamo abitati:  quelli buoni e  quelli cattivi, quelli adulti e quelli infantili, quelli maschili e quelli femminili, ecc. .
 
Nel caso dell’immigrato, però, il problema dell’ambivalenza si complica per un insieme di circostanze che comprendono l’immigrato, ma anche coloro che lo accolgono, così come coloro che non lo hanno seguito nel suo viaggio di allontanamento e di separazione dal luogo delle origini.
1. Intanto, se concentriamo la nostra attenzione su colui che emigra, vediamo – come ho tentato di dimostrare parlando di me stesso – che chi emigra ha una doppia ambivalenza: a- verso le proprie radici, nei confronti delle quali l’immigrato oscilla fra una tendenza ad un ritorno più o meno nostalgico ed una pulsione al misconoscimento; b- verso il nuovo che lo accoglie che dal soggetto immigrato, in maniera altrettanto dilacerante, viene vissuto come luogo di accettazione o luogo di rifiuto.
2. Ma anche chi accoglie (esempio: le maestre, i vicini i riabilitatori, la pubblica amministrazione, ecc.) è ugualmente ambivalente nei confronti del nuovo venuto, dell'ospite. Se è vero infatti che nelle culture mediterranee l'ospite è sacro, non bisogna mai dimenticare che le cerimonie di accoglienza dell’ospite sottendono sempre la tendenza opposta a quella che porta alla sacralizzazione, che è proprio quella della distruzione dell’ospite visto come entità minacciosa che rompe un equilibrio stabilito dall’abitudine. Chi accoglie quindi può vivere il nuovo arrivo come promessa o come minaccia, a seconda che prevalgano in lui le parti più aperte e fiduciose nei confronti dell’ignoto, o quelle più timorose e conservative.
3. Ed infine anche chi rimane è ambivalente. Colui che parte infatti, per coloro che rimangono, con la sua partenza ha compiuto un gesto che non vale solo per se stesso, ma per tutta la comunità che è stata abbandonata (famiglia, cerchia di amici, ecc.). Al di là delle intenzioni dell’emigrante, quel suo gesto di rottura di un equilibrio preesistente può suscitare in ciascuno di coloro che rimangono, e nella comunità nella sua interezza, ammirazione e comprensione, ma anche la sensazione di essere traditi, oppure ancora un moto di invidia verso chi ha compiuto un gesto che chi rimane non ha osato (ancora) compiere.
 
 
3. La scena metropolitana e l’immigrato
 
a. L’acculturazione: in generale l’acculturazione è quel fenomeno di scambio che si determina quando due culture si incontrano. Scambio non sempre definito in termini di uguaglianza, ma anzi spesso in termini diseguali poiché l’incontro di due culture spesso nasce da uno scontro più o meno violento che vede una cultura vincere e l’altra soccombere più o meno pesantemente.
L’acculturazione perciò è sempre un fenomeno doloroso, in base al quale ciascun attore presente sulla scena deve rinunciare a qualcosa per prendere qualche cos’altro. Come ci ha insegnato Dupront vi possono essere varie specie di acculturazione che sono determinante dal modo con cui culture egemoni, vittoriose e culture vinte, perdenti interagiscono fra di loro.
 
a.1- Si dice che vi è un processo di acculturazione violenta quando la cultura egemone schiaccia la cultura vinta e rifiuta qualsiasi scambio con essa. Ad esempio è ciò che successe fra Roma e Cartagine: le tendenze distruttive, presenti nell’uno e nell’altro campo (non dimentichiamo il giuramento di Annibale bambino di votare la propria vita alla distruzione di Roma, e di converso il famoso "delenda Carthago!" dei romani) non potevano che risolversi con la distruzione totale del vinto e la non integrazione (almeno a livello cosciente) di alcuna istanza culturale che provenisse dall’altra parte. Lo spargimento di sale sulle rovine di Cartagine affinché nessun filo d’erba potesse sorgere lì da allora in poi la dice lunga sui propositi di dis-integrazione che i vincitori ebbero nei confronti dei vinti.
 
a.2- Ma l’acculturazione può risolversi anche come scambio paritario e reciprocamente arricchente. E’ ad esempio quello che accadde fra Roma e la Grecia nel momento della conquista di quest’ultima da parte dei romani ("Graecia capta ferum victorem cepit"). E’ ciò che accadde fra Longobardi e civiltà latina: si pensi al grande processo acculturativo che da quell’incontro si innestò sul piano giuridico, ad esempio, laddove dall’incontro e dalla contaminazione fra diritto romano e diritto germanico nacque il diritto moderno. E’ infine ciò che da vari decenni sta avvenendo sotto i nostri occhi fra Usa ed Europa, laddove un ricco scambio su tutti i piani, favorito dalla capacità moltiplicatrice dei mass media, sta determinando da una parte e dall’altra una trasformazione foriera di ulteriori scambi e contaminazioni.
 
a.3- In mezzo a questi due poli estremi c’è una ricca gamma di possibili scambi più o meno paritari ed è sempre la modalità concreta di risoluzione dell’ambivalenza dei confronti dell’altro da sé che definisce il grado di contaminazione tollerato dall’una e dall’altra parte.
 
b. Lo scambio ineguale e la città: nel caso dell’immigrato lo scambio fra la cultura di cui lui è il portatore e la cultura che lo accoglie è uno scambio ineguale. Il territorio metropolitano spinge l’immigrato ad un adattamento.
Lo sforzo all’adattamento, la lotta interna che da una parte lo spinge all’integrazione, dall’altra alla chiusura, prende tutto il suo essere. Tempi, spazi, lingua, usi e costumi, sistema dei valori, aspettative, priorità, visione della paternità e della maternità, della mascolinità e della femminilità, sistemi educativi, atteggiamento nei confronti del lavoro, del denaro, del consumo, ecc.: tutto viene rimesso in discussione nell’impatto con la città metropolitana.
 
c. L’ambivalenza così si ripropone nella famiglia immigrata in tutte le sue sfaccettature: chi di voi ha avuto modo di vedere quel grande film che è “Rocco e i suoi fratelli” si ricorderà certamente dei vari "stili di integrazione" che tutti i personaggi della famiglia di Rocco mettono in atto nei confronti di Milano, nonché del mutare di atteggiamento e di stile che, nel tempo, la famiglia ed i vari suoi membri usano per integrarsi; del lungo e travagliato lavorìo interno in ciascuno di loro per superare le tendenze a risolvere in maniera non integrata l’ambivalenza, dei fallimenti e delle vittorie che ci sono lungo questo tragitto.
Possiamo considerare questo grande film come un testo di sociologia dell’immigrazione che pone sapientemente in evidenza il fatto che l’ambivalenza all’interno del migrante non si risolve facilmente nella integrazione fra parti accettanti e parti rifiutanti il nuovo. Lungo il percorso che porta all’integrazione la famiglia immigrata lascia “morti e feriti”, ed anche la più felice delle integrazioni lascia all’interno del soggetto immigrato un insieme di stigmate, di ferite, più o meno dolenti; più o meno cicatrizzate.
 
d. I problemi della città che accoglie: ma, a fianco dei problemi della famiglia immigrata, vi sono anche quelli della città che accoglie l’immigrato.
In primo luogo esiste la cosiddetta “soglia sociologica dell’accoglienza”, cioè una certa soglia numerica percentuale, al di sotto della quale l’immigrato non crea problemi di accoglienza nella città che accoglie, al di sopra della quale però, come i sociologi hanno dimostrato, comincia a diventare problematico ogni nuovo arrivo. Ma, al di là di una visione così oggettivistica del problema, che fra l’altro ha – nel modo stesso in cui il problema è posto – un vago sentore di intolleranza, resta il fatto che l’immigrato, come si diceva all’inizio, diventa alternativamente per chi lo accoglie o sentina di tutti i mali e di tutti i vizi (le proiezioni negative del più forte), oppure il portatore di una promessa di cambiamento (le proiezioni positive del più forte).
 
e. L’ambiguo richiamo della foresta: vi è poi un complesso gioco a rimpiattino fra coloro che “son venuti su” e coloro che “son rimasti giù”.
Per cui c’è chi da giù grida al tradimento, e vorrebbe che l’emigrato ritornasse come il figliol prodigo; c’è chi qui lavora per costruire giù una casa che è destinato a non abitare mai; c’è chi da giù preme per venire a “sistemarsi” su, attratto dalla sirena metropolitana, ma ancora timoroso di fare il gran passo e perciò o invidioso verso chi quel passo lo ha già intrapreso, o ammirato ed anzi pericolosamente entusiasta della cultura della metropoli che finora ha conosciuto solo attraverso le sirene dei media; c’è infine chi qui vuol diventare più realista del re e si mette a scimmiottare i metropolitani rinunciando alla propria ricchezza culturale ed anzi vivendola come peso (era l’atteggiamento che Pasolini, grandemente sensibile ai fenomeni acculturativi, più aborriva).
 
   
4. Il bambino immigrato e la scuola
 
Differenza fra Sé nucleare e Sé orbitale: nell’accingerci a vedere ciò che accade al bambino immigrato nel momento in cui frequenta la scuola non possiamo non affrontare un piccolo nodo teorico, importante per comprendere in maniera discriminata ciò che avviene dentro di lui, rispetto a ciò che avviene in qualsiasi bambino autoctono.
Si intende per Sé nucleare la parte più centrale, più autentica, più piena del nostro essere, quella all’interno della quale ci sono gli introietti, le identificazioni più importanti sulle quali e costruita la nostra personalità.
Per Sé orbitale, al contrario, intendiamo la parte più periferica del nostro essere, quella all’interno della quale vi sono gli introietti meno importanti in base ai quali ci definiamo e ci auto-rappresentiamo.
Il bambino autoctono, quando arriva a scuola, ha dentro di sé un Sé nucleare che si va definendo in termini sintonici con il carattere etnico e con l’inconscio etnico della propria società, cioè con quell’insieme di modalità di vita, tipiche di quella determinata società,  che si definiscono attraverso l’educazione e tutti gli altri meccanismi in base ai quali, consciamente o inconsciamente, quella società dinamicamente si è formando nel tempo.
E’ per questo che il Sé nucleare del bambino autoctono non sarà sottoposto ad eccessivi scossoni quando arriverà a scuola e tutto il suo Sé potrà essere utilizzato “al meglio” nello studio.
 
Il bambino immigrato ha invece dentro un Sé nucleare più o meno distonico con il carattere etnico e con l’inconscio etnico della società che lo accoglie: società che per lui è riassunta dalla figura del maestro.
E’ per questo che per lui la scena scolastica diventa un’altra scena (rispetto a quella del suo pari autoctono): tempo, spazio, lingua, usi e costumi, sistema dei valori, aspettative, priorità, eccetera: tutto è ri-osservato da lui, attraverso la mediazione del maestro, a partire da un punto di osservazione nuovo ed a volte distonico rispetto a quello originario, familiare.
Il suo Sé nucleare già stava facendo fatica ad adattarsi, ad introiettare, a mettersi in una posizione di scambio. Ora viene sconvolto dalla inusualità stessa del punto di osservazione al quale la scuola lo conduce, al di là di ogni sforzo volontaristico dei docenti e del gruppo dei discenti, che non possono fare a meno di essere quello che sono per lui,  e cioè “altri da sé”.
Tutto, perciò, è in mano alla figura del maestro che deve sopportare le proiezioni, spesso negative, del bambino e della famiglia e – nello stesso tempo – deve mediare il nuovo e renderlo appetibile al bambino.
 
Ma questo spesso cozza: 1. con i fantasmi formativi del maestro 2. con le sue resistenze interne al cambiamento.
Che fare?
Innanzitutto partire dalla consapevolezza che l’integrazione sociale è strettamente intrecciata con l’integrazione interna che avviene a fatica nel bambino immigrato (così come nel suo genitore, e sulla scia di quest’ultimo).
In secondo luogo esser consapevoli che l’integrazione interiore avviene lentissimamente e con grande rischio sul piano dell’equilibrio personale (vedi la fine di Simone in “Rocco e i suoi fratelli”).
In quest’ottica porsi come mediatori che non pretendono niente sul piano immediato, ma che, nonostante la scarsa riconoscenza, continuano nella loro opera riparatrice e integratrice.
 
 
Bibliografia
 
-G. Devereux, Saggi di etnopsichiatria generale, Armando, Roma, 1978
-A. Dupront, L'acculturazione, Einaudi, Torino, 1967
-L. Grinberg, Teoria dell'identificazione, Loescher, Torino, 1982
-L. e R. Grinberg, Identità e cambiamento, Armando, Roma, 1976
-L. e R. Grinberg, Psicoanalisi dell'emigrazione e dell'esilio, F. Angeli, Milano, 1990
 
 

 

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