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Intorno al femminicidio di Saman Abbas

23 Lug 21

A cura di dinange

Il 16 Luglio scorso, dopo quasi 70 giorni, sono state sospese le ricerche del corpo della giovane Saman Abbas, verosimilmente uccisa da alcuni dei propri familiari: immigrati pakistani che lavoravano nelle campagne intorno a Novellara, cioè solo a qualche decina di chilometri da Reggio Emilia, uno dei luoghi di sperimentazione di quello che fu il welfare italiano dei servizi.
Sono stato particolarmente colpito da questo efferato femminicidio poiché, al di là delle pesantissime responsabilità penali sulle quali sta indagando la magistratura, fra le sue pieghe – e, ahimè, fra le sue piaghe! – è possibile vedere in controluce tutta una serie di elementi che attengono sia il delitto che si è solo concluso qui, a due passi da noi; sia il contesto locale all’interno del quale ci siamo noi e i nostri servizi; sia l’intricatissima rete transnazionale che, così come ha condotto a noi Saman e i suoi parenti, allo stesso modo fa ormai da decenni con milioni di migranti che affrontano quasi sempre in solitudine viaggi per mare e per terra irti di pericoli.
Partiamo da ciò che vediamo come più prossimo a noi: Saman era una immigrata di seconda generazione; era nata in Pakistan, ed è arrivata da noi che era già grandicella. Cosicché, mentre nella nuova casa, a Novellara, con i suoi genitori continuava il percorso educativo ‘pakistano’ e familiare che la stava conducendo verso l’età adulta, fin da subito aveva cominciato a frequentare la scuola italiana, dove a contatto con i docenti ed i suoi pari non aveva imparato solo l’italiano, ma anche le nostre modalità di vita. Intrecciando filiazione e affiliazione, direbbe l’etnoanalista Marie Rose Moro: cioè elementi culturali provenienti sia dall’uno che dall’altro contesto educativo.
Cose che normalmente nel crogiolo interno di ciascun figlio di migranti si agglutina in maniera personalissima e mai definitiva, esposti come sono ai mille spifferi di natura culturale che continuano a venire da ogni dove, e che diventano vere e proprie tempeste interne nei momenti di passaggio da una fase ad un’altra della loro vita. Specialmente quando si tratta di giovani donne di seconda generazione, sottoposte, come dice la Spivak, ad una duplice influenza patriarcale: quella tipica delle loro culture d’origine, e quella più moderna e consumistica oggi imperante nelle metropoli occidentali. È ciò che verosimilmente stava avvenendo dentro Saman, come ci suggeriscono le notizie lette sui giornali e perfino le foto, nelle quali s’intravede una modalità tutta sua di vestirsi, quasi a cercare un sincretismo fra il mondo dal quale proveniva e il nostro.
Su questi sommovimenti interni, e proprio quando Saman, terminato l’iter scolastico, stava definendo un legame, peraltro con un giovane d’origine pakistana, è piombata la decisione familiare di imporle un matrimonio forzato con un parente che vive in Pakistan. Di fronte a questa brusca imposizione Saman si è ribellata ed ha chiesto aiuto ai servizi, finché ritornata a casa è stata letteralmente ‘screata[1] dai suoi. E verosimilmente non come è stato scritto sui giornali per ragioni religiose o ‘tribali’, ma come dice il regista pakistano ribelle Wajahat Abbas Kazmi, perché il rifiuto del matrimonio forzato per la comunità patriarcale pakistana è considerato un delitto d’onore che rientra semplicemente nei doveri di un genitore. “Non parlo solo del padre ma anche della madre che, non solo lo giustifica, ma è sempre complice. Se non hanno loro il coraggio di uccidere la figlia ribelle, spetta ai cugini o agli zii eseguire. Anche i ragazzi sono vittime di questo sistema, ma a pagare con la vita sono quasi sempre solo le donne. Sin da piccole viene costruita attorno a loro una gabbia dalla quale non riescono ad evadere. Come fa una bambina a pensare che la madre ed il padre a cui vuole tanto bene, da grande possano ucciderla? Tutta la famiglia diventa una trappola mortale che non lascia scampo alla vittima”[2].
Apparentemente quindi qualcosa di inconsueto, riconducibile ad una particolarissima situazione di costrizione. In effetti qualcosa che – come abbiamo avuto modo di constatare nell’ultimo quarto di secolo nella pratica di psicologi proprio qui a Reggio Emilia – in maniera, certo, infinitamente meno violenta, ma ugualmente capace di incidere sul loro destino, appartiene alla quotidianità di tutti i giovani e di tutte le giovani di seconda generazione. E’ risaputo infatti, anche se è sottaciuto, che proprio nel momento del passaggio all’età adulta per la maggior parte di essi (ed anche per coloro cha risultano a buon diritto particolarmente ‘capaci e meritevoli’!!) non è data alcuna possibilità di ricevere sostegno nel lavoro di trasformazione del loro sogno adolescenziale in progetto adulto. E ciò proprio in concomitanza con la muta ma eloquentissima richiesta di aiuto che viene in quel momento dalla famiglia d’origine.
Richiesta che nella stragrande maggioranza dei casi implica l’acconciarsi ad un lavoro qualsiasi che contribuisca ad attenuare l’immane sforzo che la famiglia va facendo per radicarsi qui da noi, e magari per saldare i debiti (!!) che la prima generazione ha dovuto contrarre per partire. Da ciò che traspare dalle cronache anche questa era una delle richieste di aiuto che Saman ha fatto in direzione dei servizi sociali, oltre, o forse in connessione, con quella più pressante volta ad essere allontanata dalla famiglia.
E qui un discorso su questi servizi fa fatto. Perché mentre la scuola continua a affrontare adeguatamente, almeno a Reggio e in provincia, i problemi derivanti dalla presenza dei migranti di seconda generazione, i servizi sociali sembrano ormai da tempo aver abbandonato ogni spinta alla sperimentazione. Per cui, proprio quando i giovani di seconda generazione vanno affannosamente cercando una via decente che li conduca all’età adulta ed alla piena cittadinanza e, più in generale, mentre la società reggiana è attraversata da mille cambiamenti che richiederebbero una presenza attenta e critica, i servizi sociali risultano spesso costituiti da precari, poco radicati nel territorio e perciò spesso poco capaci di avere una visione attuale dei bisogni e delle nuove urgenze epidemiologiche, poco disposti al confronto con i servizi socio-sanitari limitrofi, e spesso non molto capaci di mantenersi in una posizione contrattuale con le strutture intermedie (per lo più private!) alle quali si rivolgono nel momento del bisogno.
 
Tutto ciò in un ambito internazionale in cui gli stati più ricchi da una parte fingono di non volere accogliere i migranti e, in combutta con stati cuscinetto che svolgono funzioni simili a quelle che furono dei negrieri, ergono barriere per rendere estremamente difficili e costosi i viaggi della speranza. Dall’altra dispongono le cose in modo tale da poterli accogliere privandoli di ogni tutela e costringendoli a vivere e lavorare in uno stato di schiavitù e di perenne incertezza. Mentre i migranti predisponendosi individualmente all’esodo, privi di notizie certe e approdi sicuri, si pongono fin dal momento stesso in cui programmano il viaggio nelle mani dei moderni negrieri, che operano i loro misfatti all’ombre dei vari stati-cuscinetto, spesso in combutta con gli stati di approdo. Tutto ciò istituisce e rafforza sempre più la dimensione ‘come se ’ di tutto il tragitto e istituisce un insieme di vere e proprie cerimonie volte a fiaccare i migranti, a costringerli in un percorso violento di disumanizzazione. In una parola a prepararli ad accettare il destino di schiavi che li attende.
 

 
Bibliografia:
 
– Angelini L., Filiazione e affiliazione. I figli dei migranti fra famiglia e scuola, In: Angelini L., La scuola di Narciso. Analisi, note, progetti, Amazon, 2020
– Moro MR., Bambini di qui venuti da altrove, F. Angeli, Milano, 2005
– Spivak Ch. G., Morte di una disciplina, Meltemi, Roma, 2003
 

[1]così come ti ho fatto, allo stesso modo ti ‘screo’ “, dicevano i padri ai figli considerati degeneri in Puglia, cioè nel mio luogo delle origini

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