Nuovi e vecchi strumenti di lavoro per una possibile integrazione con le competenze mediche e psicologiche
Ogni disciplina ha i suoi limiti, nella misura in cui fa’ riferimento, nel suo declinarsi, in assunti, modelli, paradigmi a priori a cui si attiene per interpretare la realtà.
La stessa psicologia ha i suoi assunti antropologici, che seppure possano variare più o meno a seconda della corrente specifica in cui si colloca, per il solo fatto di esistere sanciscono dei confini.
Ogni scienza e ogni professionista che la pratica dovrebbe essere consapevole che quel che sta vedendo e vivendo è una delle infinite possibili angolature della realtà. Non migliore, né peggiore di tante altre, ma pur sempre uno spicchio, un frammento, per quanto ampio possa essere, e soprattutto una visione che è e sempre sarà intrisa di soggettività.
E’ proprio questa quota di soggettività che va costantemente conosciuta, ri-conosciuta, monitorata, in modo da farla diventare sempre più trasparente e meno interferente, pur nella consapevolezza che non potrà mai essere eliminata una volta per tutte nella vita.
Da qui la necessità di un incontro e confronto con il maggior numero di visioni e interpretazioni altre rispetto alle proprie e con i modelli interpretativi relativi sottostanti.
Di grande fascino e utilità per gli psicologi potrebbe essere l’apertura verso l’universo filosofico spirituale che l’ampio e variegato mondo della meditazione schiude.
Non si tratta di "convertirsi e credere", ma di allenarsi ogni giorno sempre più a rendere chiara, trasparente, limpida e immacolata la propria mente, per poter riflettere il più fedelmente possibile, al pari di uno specchio, il mondo.
Pur con la consapevolezza che l’immagine non coincide con la realtà, ma ne è un barlume, un frammento, una piccola e talvolta anche distorta manifestazione.
Nella nostra pratica professionale siamo abituati per più a lavorare sulle emozioni, i pensieri, le percezioni.
La pratica meditativa va oltre tutto ciò, anche perché, come intuiva forse correttamente Freud, il rischio di un tale approccio è un lavoro analitico pressoché interminabile, e probabilmente alla lunga anche un po’onanistico, auto centrato e frustrante.
La pratica meditativa accetta l’esistenza di pensieri, emozioni, percezioni, sensazioni, ma li trascende, nella misura in cui li interpreta come manifestazioni passeggere, inconsistenti, nuvole che attraversano un cielo che non viene alterato nella sua essenza ultima da alcuna intemperie.
Per lo più ci interpretiamo secondo i nostri ruolo, professioni, possedimenti, stili di vita, emozioni, trascorriamo l’intera esistenza a collezionare etichette di noi e di chi ci circonda, identificandoci totalmente con esse, fino a perdere di vista la nostra natura più profonda.
E allora siamo i medici, gli psicologi, gli avvocati, i padri, le madri, i figli, gli zii, i timidi, i gioiosi, gli intrattenitori, i depressi, cadendo nell’errore di essere dei monoliti intoccabili dal cambiamento. E se la vita ci sottrae una di queste etichette su cui abbiamo fondato la nostra identità, soffriamo. E laddove possibile, dopo lo scoramento iniziale, corriamo nuovamente a ricostruire quel che la vita ci ha sottratto, perpetrando così l’illusione di essere quel che, in realtà, non siamo.
Si tratta di uno spostamento esistenziale profondo e radicale.
Attuato anche solo per un istante una volta, non si torna indietro.
Qualcosa spinge in tale direzione nuovamente, per conoscere meglio, indagare, fare chiarezza.
E lì inizia il viaggio dentro se stessi, la vita, il mondo, gli altri. Cadono le barriere, le difese, si affaccia un senso di apertura, di condivisione, compassione, tenerezza, amorevolezza del tutto gratuiti e incondizionati mai visti e vissuti prima.
In questo senso la pratica meditativa, indipendentemente dalla tecnica di cui ci si avvale per praticarla, ha come esito finale la vita, l’essere, l’esserci nel mondo, lo svelarsi, il donarsi agli altri.
Studio, pratica, e vita nel mondo vanno di pari passo, tre elementi fondamentali inscindibili che devono danzare all’unisono e orientare il proprio esserci e agire in ogni istante della propria quotidianità.
In tale prospettiva la pratica meditativa è forse ancor più pervasiva e totalizzante rispetto ad un approccio psicologico e psicoanalitico. Laddove questi ultimi costruiscono, definiscono, identificano, la prima smantella, decostruisce, disidentifica.
In genere per potervi approdare si dovrebbe avere una struttura di personalità ben definita, avere compiuto un pregresso lavoro su di sé, pena il rischio di forti scompensi psicoemotivi, tanto può essere il potere destabilizzante.
In tal senso essa potrebbe essere vista come un’integrazione, una complementarietà, un trascendere il lavoro psicologico svolto in precedenza.
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