Grazie all’ospitalità dello spazio comune che è Psychiatry on line, avrò periodicamente l’occasione di condividere con voi spunti, riflessioni, storie di persone che soffrono di disturbi alimentari. Non nascondo che mi fa molto piacere ed anche un poco di paura: non è facile comunicare in modo chiaro ed aperto concetti della nostra disciplina o raccontare esperienze di vita, laddove la sofferenza diventa disturbo mentale. Meno che meno è facile evitare gli scogli tipici di chi scrive in psichiatria: enfasi, retorica, “trombonaggine”… Il rischio è quello di suonare vuoti o alla meglio non trovare le parole adatte. Pazienza, ci proverò, scegliendo uno stile paratattico – che è poi è il mio – per rappresentare il più possibile il fluire del corso del pensiero, le sue incongruenze e le sue contraddizioni. Non sono mai riuscito a tenere veramente pettinati i capelli, figurarsi se posso dare sistematicità e concinnitas alle idee.
Mi occupo di disturbi alimentari a vario titolo da 25 anni e ho operato in molti ruoli e setting differenti. Lavoro a Torino e ho avuto la fortuna di veder crescere a fatica il centro regionale piemontese per la cura dei disturbi alimentari fin dalla sua infanzia. Attraverso le peripezie tipiche dei servizi psichiatrici (progetti bocciati, cambi di ASL e di assessori, sedi di ripiego), per la tenacia dei miei maestri, nei decenni si è ottenuto qualche risultato: un reparto con posti letto dedicati, un DH intensivo che fornisce un’importante chance di cura, un ambulatorio vivace, che effettua psicoterapia – ormai un lusso nei servizi pubblici – un abbozzo di coordinamento regionale dei curanti. Come per tutti noi psichiatri del ‘18, questa linea del Piave va difesa giorno per giorno e non si potrebbe iniziare la giornata se non fossimo stretti in un’équipe, piccola ma combattiva, che lotta per mantenere decente il servizio di cura. E ovviamente non si potrebbe fare senza l’aiuto degli specializzandi in psichiatria e dei tirocinanti in psicologia clinica, che danno un apporto fondamentale mentre si formano alla nostra professione.
Ma non ho scelto di tenere questa rubrica per mettere in vetrina il nostro centro, sarebbe di scarso interesse per tutti, inclusi gli operatori stessi.
Perché allora scrivere di Disturbi Alimentari? Le ragioni sono tante e alcune di sicuro sfuggiranno a me stesso: esiste un mondo inconscio. Scrive Calvino che esistono azioni fondamentali in cui crediamo, ma di cui non riusciamo a fornire fin in fondo spiegazioni nemmeno a noi stessi. Procedo allora per punti senza pretesa di esaustività, ciò che segue è quello che oggi viene alla mente.
Per prima cosa credo che i disturbi alimentari siano di interesse perché sono forme e vissuti densi di psicopatologia. Non è infrequente che le donne che soffrono di anoressia e bulimia siano viste come ragazzine viziate e capricciose, senza forza e senza grandi problemi per la testa, semplicemente “fissate” sul peso. E gli uomini anche peggio: ma che cosa è mai questa “scelta” di una malattia così femminile? “Vai a giocare un poco a pallone e vedrai che è meglio”. In realtà il soggetto che si imbatte in quest’espressione patologica del soffrire, si muove all’interno di grandi temi problematici. Dentro di lui albergano angosce: che cosa è il corpo? Qual è il suo legame con l’identità? Come mi vede l’altro? Perché il corpo si trasforma al di là della mia volontà? Scrive Sermonti riflettendo sulle Metamorfosi di Ovidio “Un ragazzo diventa una sindrome che diventa un fiore, restando disperatamente l’Io che era. […] Esperienza della labilità e vulnerabilità dell’identità, mentre il tuo corpo non fa che cambiare, che cambiare te stesso sotto i tuoi occhi. […] E senti il tremore dell’”inespugnabile solitudine””. E specularmente lo psichiatra può chiedersi: che cosa mi dice il corpo del paziente, che cosa esprime di quello che il soggetto non riesce ad esprimere, di che cosa – Van der Kolk insegna – il suo corpo “accusa il colpo”? Temi universali, declinati nei tempi liquidi del corpo immagine e del corpo feticcio, che si può provare a rimodellare assurdamente con il digiuno o al contrario non farcela ed essere travolti da una florida corporeità e dal bisogno di cibo. La nostra epoca strabocca di cibo. Talk show sul cibo, programmi sanitari sul cibo, stili alimentari, ristoranti, fast food, ipermercatoni, siti web culinari e diete fai da te. Perciò si apre per le persone che soffrono di anoressia e bulimia anche il discorso attorno alla psicopatologia dell’alimentazione, quint’essenza del comportamento bio-psico-sociale, così tipicamente umano. La tematica della nutrizione potrebbe richiedere pagine e pagine, dalla fisiologia all’inconscio: il cibo nutre, ma soprattutto mette in relazione, rappresenta, assume alti valori simbolici collettivi ed individuali con echi che risuonano da epoche molto lontane … Siamo in tema di istinti vitali se pensiamo alla psicopatologia descrittiva, oppure rappresentiamo il cibo come intrinsecamente connesso alla pulsione ed alla relazione, se assumiamo la Psicoanalisi e la sua grande storia come riferimento. E che cosa dovremmo dire delle polisemia culturale dell’atto di cercare cibo, cibarsi, e delle infinite modalità di conservare gli alimenti e cucinare che fanno la storia di una comunità?
Infine, lo dico in breve, ma è fondamentale, i disturbi alimentari spesso mascherano o si accompagnano ad altra psicopatologia: disturbi d’ansia, depressione, l’intrigante e immensa dimensione dell’impulsività, tra reward e controllo, la tematica della dipendenza, il nodo centrale della personalità. Via finale comune di un’eterogeneità di percorsi psicopatologici, già scriveva Garner negli anno ‘80. Di tutto questo si potrebbe parlare e invece qualche volta senti dire a telecamere spente che le persone che soffrono per i disturbi alimentari sono sostanzialmente “ragazzini rompipalle”, figli di un dio minore, little psychiatry. E quel che fa male che non raramente lo senti dire dagli operatori.
Invece i disturbi alimentari sono un fantastico argomento di confronto per i più esperti e per i più giovani una splendida palestra per imparare la psichiatria. Intendiamoci, la psichiatria concepita in un certo modo, mi verrebbe da dire la “psichiatria di una volta”, quella che metteva al centro “il corpo psichico [ovvero] l’organizzazione (Freud diceva l’apparato psichico) che si costruisce dentro e per mezzo del corpo per fare da mediatore tra l’organismo e il suo ambiente, per edificarsi come mezzo dell’essere di fronte al mondo esteriore” (Henry Ey). Ovvero la psichiatria che riconosce la centralità della coscienza e della non-coscienza (inconscio classico o allargato, mondo implicito, reti neurali per usare altri codici), ma soprattutto del loro complicato rapporto, in equilibrio dinamico tra contrasto ed integrazione. La psichiatria che dà valore di statuto alla storia che i pazienti raccontano, o stentano a raccontare o non raccontano proprio. Detto meglio sempre con le parole di Ey quella psichiatria che pone l’attenzione a: “L’Io ed il suo mondo [che] rappresentano, non solo la sedimentazione delle funzioni basali, ma l’organizzazione nel tempo (quello della storia personale), dei valori ideali e di realtà che costituiscono l’asse, la traiettoria ed il programma vitale della persona morale che s’identifica all’Io in quanto esso è la prima persona della sua esistenza”. E ancora in modo più sintetico e pregnante riconoscendo come oggetto del nostro studio che: “le malattie mentali non sono delle “entità anatomo-cliniche”, ma delle forme di esistenza o di coscienza patologiche”.
Certo, tutti i disturbi mentali si prestano a queste considerazioni, ma i disturbi alimentari hanno uno svantaggio che in definitiva può rivelarsi un vantaggio: non esiste – e forse mai potrà esistere – uno psicofarmaco che tolga la paura di ingrassare o l’umiliazione di sentirsi grassi. Non vi sono, con le parole di Tobino, a proposito di vecchia psichiatria, “quelle poche pasticche” che fanno sì che in pochi giorni il malato infuriato “si placa, fa come un tizzone immerso nell’acqua, che frigge e fuma, ma non più sfavilla nell’incendio”. Ben inteso, avercene di psicofarmaci che in pochi giorni aiutino una ragazza a mangiare, salvandola dalla morte. Averceli. Ma non avendoli, in psichiatria rimane il nostro strumento più alto e più faticoso, più ricco e più fragile, lo strumento del parlare con il paziente, a lungo, stare con, contrattare, rompere, ricucire. In una parola entrare in relazione. La relazione con chi soffre è spesso difficile se autentica, smuove noi stessi, ci obbliga ad ascoltare e ascoltarsi, ripropone quotidianamente le eterne domande sull’esistenza dei mortali, ci lascia con la nostra impotenza, a provare se possiamo dare supporto e aiuto a un altro essere umano che si è perso. E questo è vero sia per la relazione con il paziente in tutte le sue forme (colloquio, pronto soccorso, attività, incontro per strada), sia per la relazione iscritta nelle psicoterapie. Ecco i disturbi alimentari sono anche un buon modo per riconfrontarsi sulla psicoterapia e sul suo significato in psichiatria: la psicoterapia è un trattamento come tanti altri – che so – come la cura del microbioma (trapianto di cacca nel gergo medico quotidiano), oppure un qualcosa di più, un lavoro clinico gerarchicamente differente da altri interventi? Il nodo della relazione terapeutica in psichiatria è il nodo centrale. In tema di formazione, sento che il mio compito è trasmettere concetti e forme di organizzazione del pensiero clinico ai nuovi arrivati che rischiano di smarrirsi tra la pletora di modelli e teorie che abbonda nella nostra disciplina. Tutti modelli e teorie validi e tutti sullo stesso piano, ampi nelle convincente statistica e larghi nella varietà dei campi di studio, ma che non servono se l’occhio del giovane psichiatra non assume un riferimento, una chiave di lettura, un metodo psicopatologico coerente che doni la terza dimensione, la profondità e lo spessore alla base del suo riflettere e agire in terapia. Perché ha ragione Fonagy “le cure dei disturbi mentali non possono che assumere la posizione che l’umana soggettività è inclusiva” e ha in sé una “straordinaria potenzialità dinamica di self-alteration e self-correction,” che ci chiama in causa, non ci si può sottrarre. La soggettività umana inclusiva è il cuore della psichiatria: al di là della problematicità della sintesi delle conoscenze, ci chiede di sapere essere in modo intenso, privilegiato e il più possibile consapevole in relazione con il nostro paziente ed il suo mondo interno/esterno.
Ecco, mi ero scritto una scaletta con tante altre ragioni per cui vale la pena discutere di disturbi alimentari: per esempio il lavoro di équipe, mica una novità in psichiatria, ma così complesso quando entrano in campo anche professionisti non “psi” come nutrizionisti, ginecologici, endocrinologici, dietisti; oppure i vissuti dei terapeuti e come i terapeuti stessi se la vedono con il fantasma della morte; o anche la popolazione a rischio, i ragazzi di oggi con le difficoltà e le risorse dell’epoca tecno in cui viviamo; e ancora le famiglie, smarrite, coinvolte, assenti, arrabbiate, impotenti verso il proprio figlio, spesso troppo sole, tra mancanze, sensi di colpa e immense risorse inespresse; o ancora le magagne dei servizi territoriali cui si chiede sempre di più dando sempre di meno e dove spesso un collega mi confida la sua difficoltà a trovare i fondi per la comunità di cui una ragazza che soffre di anoressia ha urgentemente bisogno. Ma mi rendo conto di aver scritto già troppo e soprattutto varrà la pena narrare le tematiche nel dipanarsi del tempo e sulla scia di ciò che capiterà tutti i giorni in ambulatorio o in corsia.
Perché in fondo la motivazione più istintiva è che in questa rubrica vorrei dare una qualche voce ai tanti volti di pazienti affetti da disturbo alimentare che in questi anni ho avuto la ventura di incontrare. Ricordo i dialoghi con loro, talora aspri, spesso lunghi e interessanti. Con loro nelle lunghe settimane di terapia, abbiamo raggiunto insieme compromessi e intessuto delle trame di senso che tenessero almeno un poco alla prova dell’esistenza, pur tra i paradossi e le sfide della malattia. Qualche volta siamo riusciti a trovare un varco per andare oltre, qualche volta siamo ancora lì impantanati, nonostante tutto. Vi sono state anche tragedie e cicatrici, che non avrei potuto rielaborare se non avessi lavorato in questi anni fianco a fianco con i miei colleghi, Secondo, Annalisa, Carlotta, Enrica, Nadia e tutti gli infermieri e gli operatori. E’ con loro che ho imparato che la psichiatria può aiutare chi soffre di anoressia e bulimia, quando si disciplina come riflessione sull’essere umano sofferente all’interno della polis e la sua politeia e non nel chiuso del laboratorio.
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