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Irrational man di Woody Allen, ovvero il Superuomo

27 Dic 15

A cura di Matteo Balestrieri

  Woody Allen mette la firma ancora una volta su un film di cui si riconosce perfettamente la sua regia. La trama è elementare ed al solito ha luogo nella società upper-class americana. I protagonisti sono prototipi di tipi umani ben definiti, Abe, professore universitario fascinoso ma alcolizzato a causa della crisi esistenziale di mezz’età, Jill, studentessa brillante ma inesperta che cade tra le sue braccia, invaghita dalla sua aria disperata e desiderosa di salvarlo e Rita, un’altra professoressa universitaria che passa da un letto all’altro (incluso quello di Abe) per insoddisfazione coniugale e che vagheggia una possibile fuga in Spagna per rifarsi una vita.
  L’approfondimento delle tipologie è affidata al solito rapido dialogo brillante tra i caratteri e rimane piuttosto in superficie. Lo spunto che giustifica il film è l’emergere di una possibilità di svolta personale per Abe, l’omicidio perfetto di un giudice che non conosce e al quale non può essere collegato, ma che razionalmente egli giustifica per la presunta aneticità del giudice, le cui sentenze sono guidate più da interesse personale che da valori di giustizia. Il tema è quello del dostoevskiano “Delitto e castigo”, con il professore che supera la propria depressione annaffiata dal whisky con il gesto superominico dell’omicidio, ponendosi a giustiziere svincolato dalle regole della società. L’altro tema è quello del ruolo del caso – già sviluppato da Allen in “Match point” – che nel film gioca una parte beffarda attraverso un oggetto di poco conto (una piccola pila elettrica vinta ad una bancarella) che avrà un compito decisivo nel determinare il finale della storia.
  Il film è piacevole perché è una piccola storia brillante venata di noir, con una suspense che si risolve solo nel finale. Come nei film di Hitchcock, sappiamo chi è il colpevole e siamo anche indotti a identificarci parzialmente con lui e a partecipare alle sue trame, ma allo stesso tempo non possiamo non essere in allarme per le sorti di Jill, poiché ad un omicidio ne segue necessariamente un altro. Il finale è poi catartico, per la consolazione dello spettatore.


  Dal punto di vista psicopatologico, è degno di nota il passaggio dalla disperazione esistenziale di Abe, legata ad una amotivazione per le cose umane e per il proprio ruolo di insegnante, all’insorgere del benessere per la “rivelazione” della possibilità di intervenire attivamente sui destini del mondo attraverso l’eliminazione fisica di una persona nociva.
  L’atto è equivalente ad una svolta maniacale con valenza di salvificazione della società. Ed è anche il passaggio dalla relatività del mondo delle idee filosofiche (con rimandi a Kierkegaard, Kant, Nietzsche), sempre discutibili e contrastanti, alla certezza dell’atto definitivo, così carico di adrenalina e di dopamina, da cui non si può tornare indietro. Salvo poi dover tornare sulla terra e fare nuovamente i conti con la realtà delle persone più motivate e dotate di risorse (Jill, ma non Rita), che pur propense a fantasticare un mondo migliore, non sono disposte a sacrificare ad esso una vita umana.

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