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Jacques Lacan, le scienze sociali e il declino del padre (?)

8 Nov 20

A cura di vastopolis

Jacques Lacan, imprevedibile come soltanto un genio sa esserlo, avrebbe apprezzato alcune parti di questo libro perché ne avrebbe contestato altre. “Lacan e le scienze sociali. Il declino del padre (1938-1953)”, di Markos Zafiropoulos, edito da Alpes, ha questo di avvincente ed esemplare: è diretto, profondo, suggestivo e criticabile. Arriva dove altri non arrivano, si spinge dove altri arretrano e se parte dal tema del declino della famiglia e dell’imago paterna, analizzando quel gioiellino de “I complessi familiari” del grande psicoanalista francese, passa per Durkheim e le coordinate sociologiche di Lacan, del Lacan lettore di Durkheim e del Freud lettore di Durkheim, s’inoltra per le conseguenze della messa in discussione della legge della contrazione familiare in Durkheim e Lacan (con pagine rilevanti sulla rilettura del “suicidio durkheimiano”,  giunge all’illusione patriarcale, alla conversione di Lacan allo strutturalismo e all’invenzione del Nome-del-Padre (1953).

Il testo, tradotto da Vincenzo Rapone, rivisto e curato da Michele Giacinto Bianchi, presenta l’introduzione all’edizione italiana del 2019, ma anche quella all’edizione francese del 2001. Scrive l’autore, riferendosi al sottotitolo: «Forse avrei dovuto aggiungere un punto interrogativo, atto a testimoniare, sin dall’inizio, tutta la perplessità scientifica di fronte alla tesi del declino del padre, che costituisce una forma di vero e proprio sintomo teorico nel cuore del campo freudiano, in cui è sovranamente istallato e che chiede dunque, al pari di ogni sintomo, di essere chiarito». Aggiunge Zafiropoulos: «Avendo rapidamente localizzato come questa teoria del declino del valore dell’imago paterna emergesse già nel 1938 sotto la penna del giovane Lacan de “I complessi familiari”, proprio rispetto a quest’opera, ho evidenziato l’esistenza di un primo Lacan, preso da un reale transfert a Freud, da cui, purtuttavia, si distaccava rispetto a molteplici punti essenziali.

Tra questi, rilevano soprattutto il narcisismo primario e la questione delle identificazioni preedipiche, l’istinto di morte, o, ancora, la delicata questione del padre morto e inconscio di “Totem e tabù”».
La chiave per comprendere la polpa del libro, e assaporarla fino in fondo, risiede in questa spiegazione: «Il mio lavoro di ricerca evidenzia la misura in cui la tesi della crisi della famiglia e del padre sia oggi totalmente obsoleta nel campo scientifico, salvo che in quello freudiano, e che quest’eccezione può, con tutta probabilità, essere spiegata attraverso la riconduzione del legame trasferale che lega gli psicoanalisti al primo Lacan durkheimiano, rimasto sino a questo momento largamente sconosciuto. Ed è dunque questa figura di cui ricostruisco la storia nel mio “Lacan e le scienze sociali”, non per ricondurre il sintomo teorico a ciò che lo animava, ma per contestarne la sua inconsapevole presa in carico. Ma se gli eredi di Lacan sono, almeno in una certa parte, rimasti durkheimiani senza saperlo, Lacan stesso non lo è rimasto, dal momento che il suo incontro con Lévi-Strauss ha generato un’amicizia sulla cui base, nell’immediato dopoguerra, prenderà le distanze dal punto di vista di Durkheim, per condividere gli obiettivi teorici dell’antropologia strutturale, e, soprattutto, di quello che Lévi-Strauss definiva significante di “grado zero”. Significante che in tutte le culture e che, con diversi nomi, consente al pensiero simbolico di esercitarsi, facendo da “punto di capitone” tra significante e significato».
Per comprendere il passaggio, in Lacan, dal “figlio di famiglia” al “figlio del linguaggio”, occorre approdare a “Lacan et Lévi-Strauss, ou le retour à Freud”, del 2003, di cui attendiamo l’edizione italiana.  Per ora, la calda raccomandazione al lettore è di non saltare la ponderosa prefazione di Michele Giacinto Bianchi e di Vincenzo Rapone, poiché i due studiosi introducono al testo con rara padronanza dei concetti, anche ostici, dell’universo lacaniano, e con il positivo ardire di sollecitare interpretazioni e riflessioni psicoanalitiche non consuete, soprattutto sul versante della postmodernità e della nostalgia patriarcale chiamando in causa e auspicando dibattiti sulla ‘particolare’ lettura di Massimo Recalcati, senza trascurare le parole illuminanti e decisive che Carmelo Licitra Rosa dedica al rapporto Lacan/Lévi-Strauss in un’appendice di “Forse tu non pensavi ch’io loïco fossi! Lettura del Seminario XVI di Jacques Lacan”, sempre edito da Alpes.
Spiega Bianchi: «Il libro di Zafiropoulos mostra, così, come nasca un secondo Lacan, un Lacan strutturalista che è ritornato a Freud per la via di Lévi-Strauss. Ora, la svolta in direzione strutturalista implicherà, precisamente, l’indebolimento di tutti gli aspetti effettuali delle categorie. Quando solo immaginario lo spazio si costituisce nell’esperienza come una dimensione di luce priva d’ombra. Il ragionamento di questo primissimo Lacan, oggi, è molto seguito, tendenzialmente anche tra i lacaniani. L’idea di un immaginario deficitario d’ombra simbolica corrisponde, peraltro, alla tesi del declino della famiglia. […] L’analisi complessiva di Zafiropoulos è tesa a ristabilire la portata antropologica dell’indagine sul ‘padre’ compiuta da Freud, la quale sarebbe stata assimilata da Lacan negli anni trenta e quaranta producendo la teoria classica dello stadio dello specchio. Teoria che è intrisa di tutta una pregiudiziale sociologica ed etnologica – come s’è accennato con il riferimento a Durkheim e a Lévi-Strauss – che il libro, appunto, analizza».
Pregiudiziale sociologica ed etnologica, aggiungerei, di quando la sociologia e l’etnologia avevano la forza di brillare di luce propria grazie a maestri non ancora superati.
 

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