La difesa necessaria del jus soli, va oltre l’affermazione di un diritto giusto che, essendo fondamentale, non è concessione bensì obbligo. Il rifiuto della cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia, mina la posizione di tutti noi nel mondo.
Le radici più profonde del nostro senso di identità nulla hanno a che fare con la provenienza dei genitori, il colore della loro pelle, la loro religione, i loro costumi e la loro cultura etnica. Il senso di appartenenza non è alle sue origini un far parte di una comunità. Apparteniamo al primo legame con la vita, la relazione originaria con la madre, il primo “altro da sé” inizialmente concepito come “altrove di sé”, che trascendendo la nostra esperienza, senza che ne siamo consapevoli, la estende oltre i nostri confini.
La nostra condizione primaria – il fluire spontaneo dell’esistenza, lo scorrere di un tempo che non passa, l’essere tutt’uno con la materia viva dell’umanità di cui, prima di ogni altra cosa, è fatto il corpo materno – persiste come nucleo più profondo di ogni nostro desiderio, sentimento e pensiero. Fonda l’appartenenza a noi stessi sull’appartenenza all’altro e sulla comune esperienza, ci predispone alla sensibilità condivisa con i nostri conterranei, che è fatta di sapori, suoni, colori, forme, paesaggi, atmosfere e si costituisce come memoria/idioma sensoriale, come linguaggio sensuale del rapporto con la vita.
Il senso di identità è radicato nell’affinità, intesa nella sua intrinsicchezza: il presentimento, intuizione dell’alterità come componente co-costituiva della propria esistenza. L’affinità che si schiude alla differenza, luogo di libertà, costituisce la nostra identità nella sua più intima essenza. Non “io sono”, ma “io ci sono”: la vita interna che incontra la vita esterna, la soggettività che è presenza.
È necessario che le radici identitarie della nostra soggettività siano piantate in un terreno sano. Questo terreno non è fatto del modo culturalmente e socialmente connotato di essere dei genitori, né della particolarità, anche storica, del paese in cui si nasce. È l’essere sufficientemente viva della madre, la sua capacità di godere delle proprie sensazioni e emozioni. Il che implica che la società, l’ambiente, le relazioni affettive e erotiche in cui è inserita non deprimano la sua vita.
Non è importante se uno è nato in quella o in quell’altra parte del mondo. Ciò che davvero conta è che con la sua terra abbia avuto un legame sensoriale, affettivo e erotico che lo apra alle infinite differenze, particolarità del mondo. Lo sviluppo identitario successivo, se si costruisce attraverso lo sviluppo di sensibilità, linguaggi, culture di natura comunitaria, è perché affinare il proprio modo di essere richiede uno sforzo di definizione, scelte condivise che evitino la dispersione.
Tuttavia, questa definizione di sé attraverso legami elettivi, non porterebbe che a una restrizione catastrofica della nostra esperienza, se, contemporaneamente, non fosse aperta, sulla sia dell’apertura iniziale che crea la nostra identità, a ciò che le è diverso.
Solo se riusciamo a far incontrare il gusto delle vongole con una musica mongola o con un tramonto nel Sahara, possiamo scoprire che il nostro essere cittadini italiani, vale poco se non ci dà l’accesso alla cittadinanza nel mondo.
È un danno enorme, di cui il terrorismo è solo un sintomo (che come tutti i sintomi può ingannare molto), il rigetto di nostri conterranei, del loro diritto alla terra comune. Sradicarli dalla propria esperienza, obbligarli a dissociarsi da essa, è un atto avventato, folle.
Riflessione del tutto
Riflessione del tutto condivisa. Essere figli del mondo vuol dire esserci nel mondo.