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LA CHIUSURA DELL’OPG E I SERVIZI. Note a proposito di psichiatria, controllo, quanto controllo

13 Dic 15

A cura di Paolo F. Peloso

La chiusura dell’OPG, con il suo impatto sui servizi, rappresenta per la psichiatria italiana la novità più rilevante dell’anno che sta terminando. Pur a fronte di fante difficoltà che sta ponendo nella complessa e inceppata triangolazione tra politica, servizi e magistratura, essa ha avuto tra gli effetti benefici quello di portare al pettine alcuni nodi irrisolti dell’identità psichiatrica, primo dei quali mi sembra quello del rapporto tra psichiatria (nuova psichiatria) e controllo, che ne rappresenta un elemento determinante. Negli ultimi mesi mi è capitato di partecipare al XLVII congresso della Società di Psichiatria, al XIX congresso della Società di Criminologia, al corso di formazione che Psichiatria Democratica ha dedicato a Roma all’impatto sui servizi della chiusura dell’OPG e di constatare come questo tema abbia attraversato, più o meno sottotraccia, la discussione in tutte queste occasioni. I due poli del dibattito mi sono parsi rappresentati da quanti privilegiano una prospettiva in cui il controllo del comportamento del paziente, assunto certo oggi in modo dialettico rispetto a ieri e nei limiti in cui questo è possibile al di fuori di una istituzione chiusa – dove pure peraltro il controllo del comportamento dell’altro non poteva neppure essere certo assoluto, e tanti episodi della la storia del manicomio lo dimostrano[i] – e da quanti privilegiano invece una prospettiva nella quale il controllo del comportamento del paziente esular dalla cura, con la quale non deve essere confuso; del controllo, perciò, lo psichiatra, che in quanto medico deve occuparsi della cura, non dovrebbe sentirsi tenuto a rispondere (non sarebbe cioè, tra l’altro, titolare in senso giuridico di una “posizione di garanzia” in ordine al comportamento del paziente).  Noto peraltro, a margine, che a questa discussione c’è un terzo convitato del quale bisognerebbe pure tener conto, ed è il magistrato. Ricordo a questo proposito un aneddoto. Mi trovavo qualche anno fa in un’occasione pubblica ad ascoltare un collega, il quale con tono apodittico a un certo punto affermava che “gli psichiatri italiani oggi rifiutano l’attribuzione di una funzione di controllo”. Sedeva casualmente accanto a me una giovane giudice, la quale mi diede mostra a prima vista di pensare di non aver inteso bene; ma, poco dopo, mi fece notare con tono cortese ma fermo che gli psichiatri possono pure rifiutare quel che vogliono, ma la funzione di controllo ce l’hanno eccome, fornendomi tanto di citazioni dai suoi Codici. Non so se fu in quell’occasione, o ancora prima quando si discuteva della ormai famosa sentenza Pozzi che diede spunto ai pareri più variegati, che mi trovai a pensare che il permanere di un rischio di fraintendimento tra giudici e psichiatri su una questione di tanta importanza – con le talora irrealistiche aspettative degli uni e le talora eccessive incertezze e titubanze degli altri – non fosse certo tranquillizzante per la società italiana.


Preferisco però limitare il nostro ragionamento, in questa occasione, alla questione del dibattito tra noi operatori psichiatrici, chiarendo subito che delle posizioni che ho evocato, personalmente, mi ritrovo nella prima, anche se conto amici e persone che stimo sensibili a quella opposta, e cercare di argomentare il fatto che il controllo (o meglio il più delle volte il sostegno[ii] all’autocontrollo del paziente esercitato attraverso quelle componenti della mente che, rifacendoci allo psicoanalista Paul Federn, possiamo grossolanamente definire “parti sane”) rappresenta una componente imprescindibile della cura in ogni psichiatria, anche nel dopo riforma e anzi forse lì soprattutto.
Nella posizione opposta, mi pare di ravvisare rischi che andrò ad analizzare, in primo luogo di una sorta di idealizzazione, quasi beatificazione o purificazione, del paziente. Si ha infatti  difficoltà a misurarsi con il fatto che anch’egli può andare incontro a esperienze di violenza agita (non è il solo, ovviamente, ma è il suo caso che come operatori psichiatrici ora ci riguarda) e che quando questo accade e ne scopriamo la “cattiveria”, che è potenzialmente comune a lui  e a chiunque altro, non cessa perciò di essere un malato bisognoso delle nostre cure. È come, insomma, se all’ideologia del pessimismo che aveva dominato dal degenerazionismo degli ultimi decenni dell’800 agli anni ’60 del ‘900 si contrapponesse oggi una, altrettanto irragionevole e irrealistica, ideologia dell’ottimismo (ma com’era sbagliato il pregiudizio che tutti i folli fossero cattivi, lo è quello che nessuno di essi lo sia). Questa posizione può avere, mi pare, due ordini di conseguenze.
La prima è quella di un atteggiamento al limite dell’ingenuità, e talvolta di un velato masochismo, fino quasi a negare la possibilità che un soggetto affetto da malattia mentale possa essere (o ritornare a essere se già lo è stato) violento. Sembra insomma che il soggetto malato di mente sia considerato, perché tale, sempre “buono”, il che rappresenta un pregiudizio altrettanto infondato di quello che, nei secoli, portava a considerarlo sempre pericoloso e cattivo. Che la sua sia sempre e comunque  una esclusiva posizione di vittima nella famiglia, nella società e anche nel rapporto con il sistema di cura. Certo è innegabile che nella storia il paziente psichiatrico è stato soprattutto vittima all’interno di queste istituzioni, ma questo non lo rende immune dal poter diventare, a sua volta, in qualche circostanza attore di violenza. Diventa così superflua ogni preoccupazione rispetto alla prevenzione, al controllo e alla custodia in quelle situazioni nelle quali la malattia mentale è stata accompagnata dalla messa in atto di violenza e può più probabilmente ritornare a farlo, preoccupazione che la collettività manifesta peraltro anche quando a compiere un reato è un soggetto che niente ha a che fare con la malattia mentale. E’ proprio invece il fatto che chi è prosciolto per infermità di mente non sia considerato di per sé né più né meno buono o cattivo di chi ha compiuto lo stesso reato in piena consapevolezza, a renderlo uguale. E insieme a questa consapevolezza quella della necessità per l’apparato securitario dello Stato (del quale dobbiamo tenere presente che anche l’organizzazione psichiatria è, pur in modo convulso e contraddittorio, parte, ma non è automaticamente, né deve mai rimanere, la sola parte in gioco quando si tratta di malattia mentale!) di prevenire il rischio che ciò si ripeta. Nessuna necessità perciò di luoghi chiusi o sorveglianza da parte della polizia nelle sue diverse articolazioni: la psichiatria può fare da sé (questo sì, come nel vecchio manicomio!), a mani nude e con la forza della persuasione e tutt’al più l’effetto, che diventa magicamente taumaturgico, degli psicofarmaci, con i suoi servizi talora fragili in strutture, risorse, organizzazione[iii]. Sia chiaro, io credo che un atteggiamento improntato a bontà, generosità, fiducia anche ai limiti dell’ingenuità, verso chi è reso in sé più fragile dalla malattia meriti sempre rispetto; ma anche che la psichiatria, per la serietà dei fenomeni con i quali talvolta  ha a che fare[iv], abbia necessità di molto realismo e non debba avere imbarazzo nell’articolare, nelle situazioni in cui avverte la propria insufficienza, il controllo che è interno alla cura con quello al quale siamo tutti sottoposti da parte dello Stato.
Un’illusione, solo apparentemente, opposta mi pare rappresentata dall’idea che il soggetto affetto da malattia mentale possa rendersi (o essere sul punto di rendersi) sì protagonista di atti violenti, ma quando questo accade non dobbiamo essere più noi a occuparcene (è, infondo, ciò che ha giustificato la nascita dell’OPG e la sua esclusione poi dalla rete dei servizi). Oppure che dobbiamo sì occuparcene ma prescindendo da questo aspetto sgradevole di lui, dal comportamento violento cioè che lo caratterizza in maggior o minore relazione con la malattia, come se ciascuno di noi potesse essere qualcosa d’altro rispetto ai comportamenti che pone storicamente e socialmente in essere, cioè a tutti i comportamenti che, in quanto propri, gli appartengono. O ancora, viste le oscillazioni che sempre caratterizzano i confini della psichiatria, che quando un soggetto fa il male il più delle volte non possa essere (o, ancora peggio, cessi di essere il “nostro” (o il “vero”) malato, quello del quale dev’essere la “buona” psichiatria per i “buoni” pazienti a occuparsi. Si assiste così al riproporsi, innanzitutto nell’immagine interna del soggetto autore di reato di cui noi operatori siamo portatori, della dicotomia «tra il mostro cattivo evocatore di sentimenti di pericolo, che è problema altrui contenere, e il povero paziente bisognoso di cure, la cui presa in carico è un nostro problema»[v], senza che riusciamo a integrare la presenza dell’uno e dell’altro nella storia tragica di un’unica persona. E si cade allora nell’illusione che la psichiatria sia davvero una disciplina medica “come le altre”, una psichiatria insomma solo per persone per bene. Anche qui un fondo di verità, ovviamente, c’è. Non che, beninteso, non sia presente anche il rischio che attraverso la porta degli OPG e della psichiatria forense passino ai  servizi responsabilità che non pertengono loro in quanto legate a condizioni diverse dalla malattia mentale, anzi[vi]; però il fatto che questo rischio non debba essere paventato in misura eccessivo e diventare alibi per l’abdicazione a ogni funzione di controllo. Ci si è lamentati allora del fatto che con la chiusura degli OPG le funzioni di “controllo” sarebbero ritornate a snaturare la psichiatria come prima del 1978, come se davvero ci si fosse illusi che dopo il ’78 potesse esistere una psichiatria che può prescindere dalla funzione del controllo e in tutti questi anni il controllo, un controllo semmai più duro e privo di apertura in avanti, non fosse sempre esistito, semplicemente appaltato nei casi più importanti “altrove”, appunto agli OPG che, tenuti fuori dal circuito, diventavano trappole dalle quali per molti soggetti è diventato difficile tornare. Può nascere di qui la tentazione, da un lato, di usare, a vote in corrispondenza di fatti tragici che meriterebbero sempre un atteggiamento ponderato e rispettoso, lo spauracchio della riscoperta “pericolosità” del lavoro psichiatrico nell’illusione di ottenere per tale stretta via maggiori organici, risorse, posti letto o riconoscimenti di indennità. Senza tenere in debito conto le ricadute negative di tale atteggiamento in termini di aumento dello stigma – che in altri momenti ci si impegna a combattere – e rischi di passi indietro nel delicato equilibrio tra politiche securitarie e politiche dell’inclusione, che sempre caratterizza l’assistenza psichiatrica. O, dall’altro, quella di identificare, per proteggere le istituzioni sanitarie, nel carcere, con i problemi che esso presenta oggi (un carcere immaginato invece irrealisticamente all’altezza delle esigenze della psichiatria e, per così dire, “miracolato”), il luogo in grado di sollevare il sistema psichiatrico dal calice di ospitare nei propri spazi i rei affetti o sospetti di malattia mentale ed, eventualmente, i loro ingombranti piantoni. Rischiando così di venir meno a  una tradizione di sensibilità rispetto ai rischi di fare del carcere, che aveva allora come ha oggi i suoi problemi, un luogo di cura psichiatrica, propria già nell’ultima parte dell’Ottocento di psichiatri (Verga o Biffi da un lato, Lombroso o Tamburini dall’altro) evidentemente attenti al destino dei pazienti, nonché alle posizioni anche recenti espresse contro la carcerizzazione del malato di mente grave (assai diffusa in molti Paesi) da istituzioni psichiatriche internazionali[vii]. Ma soprattutto di dimenticare che per la sentenza della Corte costituzionale n. 253 (18 luglio 2003) il giudice individua caso per caso, come avviene per le altre malattie, anche per la psichiatria la soluzione in grado di meglio contemperare cura e sicurezza, senza possibilità di soluzioni predefinite e generalizzate. Perché il diritto alla cura, e alla cura in un luogo idoneo, esiste anche per il reo affetto o sospetto di malattia mentale.
Mi pare che questi due atteggiamenti – quello che porta a negare (contro l’evidenza e il buon senso) la possibilità della violenza in corso di malattia mentale o che  la ammette ma pretende di espellerla dal campo di intervento della “buona” psichiatria, quella “medica” o “psicologica” che si occupa dell’altro nella sua riduzione a cervello o a mente e non nella storicità e socialità del suo comportamento – siano solo apparentemente opposti, ma nascano da una radice comune nella stessa rimozione. Che è quella del fatto che la malattia mentale può accompagnarsi al rischio del comportamento violento, in rapporto più o meno diretto con essa, e che del lavoro psichiatrico fa parte anche accompagnare il paziente nello sforzo di controllare questo rischio, che ha ovviamente anche a che fare con le scelte valoriali che, anche in presenza di malattia, egli è per lo più in grado di compiere. E abbiano come comune correlato quello dell’abbandono dell’altro a se stesso e del venir meno al “rapporto tutorio” che l’operatore psichiatrico, in modo sempre consapevole e critico[viii], è chiamato a stabilire come elemento centrale della cura.
Fare invece consapevolmente del controllo – tutto quel tanto di controllo che ci è possibile con le nostre risorse limitate, la scarsa capacità prognostica dei nostri strumenti e in una situazione in cui normalmente il paziente trascorre la maggior parte del tempo non in rapporto col servizio, chiedendo di fare la loro  parte anche ad altri quando questo non sembra sufficiente – un elemento imprescindibile della cura, non è facile; ma mi pare la strada che consente di cogliere il rischio di comportamento violento in corso di malattia mentale nella sua reale dimensione e di sostenere l’altro nel faticoso lavoro che lo vede, il più delle volte (non sempre), impegnato a scongiurarlo. E anche, al contempo, di spostare la questione da “controllo sì/controllo no” a quella decisamente più realistica di “quanto e quale” controllo, evitando che nella confusione che già all’interno della disciplina regna sulla relazione tra cura e controllo (e sulla misura in cui la funzione di controllo può essere esercitata all’interno della cura), altri possano (anche in buona fede) coltivare l’illusione, come in un dialogo tra sordi, che in presenza di malattia mentale tutto il controllo spetti al servizio psichiatrico e siano le altre agenzie dello Stato a potersi sentire sollevate da questa funzione. 

 

[i] Cfr. p. es. P.F. Peloso, Il coraggio della psichiatria. Benefici, rischi e significato dell’ergoterapia nella polemica degli anni ’70 dell’Ottocento, Rivista di Storia della Medicina, in stampa.
[ii] “Sostegno” è per l’appunto il termine che i Basaglia utilizzano per l’istituzione aperta che prefigura la nuova psichiatria, in contrapposizione a “sorveglianza” che designa il controllo nell’istituzione chiusa, nell’appendice sull’incidente de L’istituzione negata (Torino, Einaudi, 1968), un testo che mi pare illuminante su questo tema.
[iii] Dal prevalere di  posizioni come questa mi pare derivare il carattere evanescente e un po’ aleatorio che, nel corso del dibattito sul superamento degli OPG, è andato via via assumendo la funzione di controllo perimetrare delle REMS che, se certo non può essere assunta come sempre indispensabile, non può essere neppure assunta come sempre superflua.
[iv] Ricordo che, nella ricostruzione di alcuni episodi al limite tra psichiatria e criminologia accaduti in Liguria alla metà dell’800, rimasi molto impressionato dal verbale nel quale veniva descritta l’impiccagione di un matricida, per il quale era stata considerata e respinta in tribunale l’esimente della malattia mentale; e non meno impressionato sono rimasto dalla lettura del verbale del medico legale in cui veniva descritta la condizione del corpo della madre dopo il delitto. 
[v] L. Ferrannini, P.F. Peloso, M. Cechini: Les revenents: esperienze, progetti e criticità dell’intervento psichiatrico nelle istituzioni di pena e di custodia, in: AA. VV.: Carcere e territorio, Milano, Giuffré, 2003, 247-266.
[vi] L. Ferrannini, P.F. Peloso: Questioni attuali nel rapporto tra Dipartimento di Salute Mentale e circuito penitenziario: complessità dei problemi e ipotesi di intervento, Rassegna italiana di criminologia, 1, 2007, 1, 160-179
[vii] Cfr. p. es. l’editoriale dell’allora presidente della World Psychiatric Association, Ahmed Okasha, Mental patients in prison: punishment versus treatment?, World Psychiatry, 3, 1,  2004, pp. 1-2.
[viii] C. Castelfranchi,  Psichiatria. Medicina o scienza cognitiva, in C. Castelfranchi, P. Henry, A. Pirella,  L'invenzione  collettiva. Per  una psicologia della riabilitazione nella crisi della  psichiatria istituzionale, Torino, Gruppo Abele, 1995,  pp. 34-90.

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2 Commenti

  1. manlio.converti

    Se lei ama ragionare in modo
    Se lei ama ragionare in modo manicheo e dar voce ai suoi fantasmi opposti ma improbabili faccia pure.
    La questione dell’eliminazione della legge sulla non imputabilità dei sofferenti psichici è in termini completamente diversi che esulano dell’ottimismo ideologico perché riconoscono il sofferente psichico come possibile autore di reato e non è un tertium datur tra idee che ha permesso solo lei.

    Il problema del controllo è un problema paradossale di cui lei vuole attribuirsi il dovere.
    Chi controlla però lei, me o la popolazione generale non è chiaro.
    Lei vuole forse intendere l’autocontrollo inglese?
    Qui a Napoli non sappiamo cos’è…. Dovrebbe fare a tutti un Tso.

    Vuole intendere l’aderenza alla terapia farmacologica? Però non trova assurda questa norma che obbliga alla terapia chi non morirebbe di psicosi, ma lascia libera scelta a chi morirà sicuramente di cancrena o tumore? Si rende conto che per i minori, ad esempio, la legge funziona esattamente all’opposto per cui i genitori o il giudice possono obbligare a cure medico chirurgiche ma non al Tso? Per i detenuti esiste poi la follia che non hanno diritti civili, ma non possono subire il Tso mentre se sono psicotici non sono imputabili!

    Io sono semplicemente a favore dell’uguaglianza davanti alla legge ben consapevole anche statisticamente che un camorrista è più pericoloso di uno psicotico, figuriamoci un terrorista ma che il suo giudice fantasma non pensa di controllare né i camorristi né i napoletani né i musulmani mentre pretende che noi psichiatri ‘controlliamo’ i sofferenti psichici.

    Cosa succede se stabiliamo l’imputabilità del sofferente psichico?

    Che il mondo non crolla, che non tornano gli psicotici in quanto tali in prigione come prima di Pinel, ma anzi terminiamo il suo lavoro.

    I sofferenti psichici giudicati colpevoli e solo loro, ricevuta la giusta condanna potranno beneficiare di pene alternative, perfino nelle famigerate Rems se non c’è bisogno di controllo.

    Tornando come per camorristi, napoletani e terroristi al magistrato reale e non al suo amico immaginario, il dovere di stabilire sulla base del reato commesso la pericolosità sociale, chi non supererà questo livello, uguale per tutti, dovrà essere trattenuto in prigione finché le condizioni non cambieranno.

    In prigione c’è un servizio di psichiatri Asl cui deve essere dato anche il compito di eseguire Tso, anche in Spdc civili, ma con scorte armate se c’è pericolosità sociale e non a rischio di Medici e Infermieri come accade adesso.

    Tutto questo permette anche gli arresti domiciliari in strutture di cura e riabilitazione pubbliche e private, nella piena garanzia sociale, quindi con scorta se c’è pericolosità sociale che andrà valutata dal giudice sulla base del reato per cui il sofferente psichico è stato effettivamente condannato e non sulla base del pregiudizio sulla salute mentale.

    Tutto ciò elimina il pregiudizio, riduce le aggressioni al personale e agli stessi sofferenti psichici, garantisce la società è i familiari ma fa anche di più.
    Evita la speculazione economica lecita e illecita intorno alla questione della non imputabilità.

    Non lo neghi!

    Gli psichiatri a favore della non imputabilità ricevono prebende dal tribunale e dalla legge speciale sulle Rems, mentre il territorio viene tagliato ferocemente di personale e risorse.
    Li rassicuri: condannato per un reato passato in equo giudizio, il sofferente psichico avrà bisogno di loro per ottenere i benefici del caso e la diversa punizione sulla base delle leggi vigenti per tutti i disabili.

    Passiamo al mercato illecito per il quale uno psichiatra sarà condannato, come aderente alla camorra per aver favorito con false diagnosi pensioni di invalidità e non imputabilità appunto a malfattori malfamati.

    Anche questo problema sarà eradicato dalla imputabilità dei sofferenti psichici giacché comunque tutti dovendo subire equo processo, solo dopo l’eventuale condanna potranno decidere se scontarla come psicotici o sani di mente, ben sapendo che sulla base del reato per cui sono stati condannati il magistrato valuterà la pericolosità sociale e non sulla base del pregiudizio verso i sofferenti psichici.

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    • chiclana

      La ringrazio senz’altro per
      La ringrazio senz’altro per il commento, ma le assicuro che la questione dell’imputabilità/non imputabilità dell’infermo di mente esulava totalmente dalla questione alla quale ho fatto riferimento che è sostanzialmentre quella che il linguaggio giuridico traduce nella posizione di garanzia dell’operatore psichiatrico, e a me invece interessa soprattutto sotto il profilo etico e clinico (cioè se della cura psichiatrica possa essere considerata parte o meno anche una funzione che possiamo definire di controllo, sostegno o rapporto tutorio in ordine ai comportamenti sociali del paziente). Ciò naturalmente quando ve ne possa essere la necessità; se necessità non c’è, tanto meglio per tutti. Mi sembra già una questione abbastanza complessa, e perciò credo che il nodo dell’imputabilità, che è questione almeno altrettanto complessa, debba essere semmai considerato in un discorso a parte, che non era mia intenzione affrontare e non ho affrontato. Anche quando ho fatto riferimento all’inopportunità che il carcere sia identificato come luogo di custodia, ad esempio per soggetti sub judice per infermità di mente come da alcuni è stato ipotizzato, mi riferivo sempre al dibattito sulle misure conseguenti alla chiusura dell’OPG a legge vigente, e non intendevo fare alcun riferimento al dibattito sull’imputabiilità, che è tutt’altra questione. Mi scuso se non sono stato nel merito in precedenza sufficientemente chiaro. Paolo Peloso

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