Tempo fa, parlando con una collega, questa se ne uscì con l’affermazione “Meno male che sono passati i tempi in cui si voleva psicoanalizzare un bambino autistico”. Sicuramente l’affermazione risentiva dei gravi errori commessi dalla psicoanalisi in questo ambito sui quali non è il caso di intervenire in questa sede ma sui quali sarà opportuno e doveroso riflettere. Sorprende quindi l’uscita recente di un testo come Le cliniche dell’estremo di Simone Korff-Sausse per i tipi della casa editrice Poiesis che propone di allargare il campo di interesse della psicoanalisi alle situazioni di disabilità intellettiva, ma non solo se già nell’introduzione si allarga il campo “In esse riunisco campi clinici (i traumi in genere, i traumi da guerra, le malattie somatiche, le cure palliative, la perinatalità, i grandi prematuri, i cerebrolesi, il morbo di Alzheimer, l’invecchiamento, le deportazioni, le torture..”.
L’allargamento del campo porta ai confini delle possibilità della psicoanalisi per orientarsi verso “.. una psicoanalisi che possa ispirare, nutrire, approfondire delle pratiche al di fuori della situazione puramente analitica e rivolgersi a professionisti che non necessariamente occupino una posizione analitica.” Questo chiarimento porta allora a differenziare l’approccio teorico dell’autrice da approcci precedenti individuando un insieme di possibilità che pongono le condizioni di patologia delineate all’interno di un campo sociale dove la psicoanalisi ha qualcosa da dire, ma anche qualcosa da ascoltare. Il ribaltamento di prospettiva non è solo un’abile escamotage per cercare una nuova forma di legittimazione, corrisponde invece ad una posizione etica che coinvolge i due poli che intervengono nella clinica e che la Korff-Sausse così delinea “ogni essere umano, per quanto deprivato, ha sempre qualcosa da dire della sua posizione soggettiva, della sua posizione nel mondo, della sua Weltanschauung, e lo psicoanalista ha sempre qualcosa da ascoltare”.
Per cogliere come non siano solo affermazioni di principio, ma posizioni che possono arricchire la clinica e che pertanto vale la pena di perseguire mi limiterò ad un argomento che isolo dal ricco testo e che potrebbe sembrare secondario, ma è indice del ventaglio di possibilità che si possono aprire. L’argomento riguarda la frattura, oserei dire la scissione tra enunciazioni di principio, che trovano poi una formalizzazione a livello giuridico, e comportamenti pratici che chiunque abbia avuto a che fare con soggetti disabili si è trovato a sperimentare. Ora è vero che questa frattura la si ritrova quasi sempre anche in altri settori della vita sociale, ma nel campo dell’handicap l’indagine psicoanalitica ritrova delle specificità che la riguardano anche internamente. Proviamo a seguire il percorso dell’autrice a partire dal modo in cui viene formulata la domanda. “Ma perché il bambino handicappato continua a suscitare sempre e soltanto un certo rifiuto o, peggio ancora, l’indifferenza? In alcuni settori della vita sociale, si rintraccia uno scarto così chiaro e lampante tra i discorsi manifesti, gli atteggiamenti perbenisti, il politicamente corretto, e le realtà con le quali di fatto si scontrano le famiglie e le équipe, realtà che consistono unicamente nello stigmatizzare, nel rifiutare, nel porre qualunque genere di ostacolo pur di giustificare l’impossibilità a realizzare quanto previsto”. Se questa è la frattura che si rileva a livello pratico, quotidiano, ci si può facilmente rendere conto quanto il discorso dell’handicap o disabilità che dir si voglia non possa essere ridotto e coartato solo in termini di diritti. Anzi il rischio che si corre, coltivando una simile illusione, è quello di creare contrapposizioni di carattere rivendicativo, che costringono spesso i familiari a ridursi alla posizione di sindacalisti dei propri figli, o quantomeno ad essere percepiti esclusivamente come tali, di fatto impedendo ogni possibilità di discorso che apra la dimensione della cura alla collettività, aggiungendo sofferenza e conflitti ove non ce ne sarebbe bisogno.
Ma l’autrice va oltre e interroga anche la psicoanalisi “Pochissimi psicoanalisti se ne interessavano….. Di fronte alla sofferenza, preferiamo pensare che il bambino non sia cosciente e immaginare che non abbia le capacità intellettive per pensare alla sua situazione. Questa resistenza è legata alla doppia nature dell’hndicap, che è quella di essere da un lato irrimediabile e dall’altro inscritto nell’organicità, due ostacoli insormontabili per la psicoanalisi classica. L’organicità disturba l’onnipotenza del pensiero e il lato irrimediabile dell’handicap, da cui non si guarisce, mette in scacco l’ideale della vocazione terapeutica”.
Il capovolgimento cui assistiamo porta ad interrogare la psicoanalisi stessa, ma soprattutto gli psicoanalisti e il fantasma della vocazione terapeutica. Ed è un capovolgimento che l’autrice pratica anche rispetto alla frattura tra enunciazioni del diritto e loro declinazioni pratiche. Anche qui non si limita ad invocare una maggiore attenzione, a fare appello alla morale, propone invece di indagare i fantasmi che accompagnano la repulsione, di cogliere ciò che il mostruoso dell’handicap mostra, porta alla luce rispetto a noi, alle fantasie e ai fantasmi che accompagnano le nostre esistenze, alla fragilità segreta che trama le nostre certezze. E’ qui che ritrova il campo di lavoro e ricerca della psicoanalisi, uscendo dalla dimensione unidirezionale nella relazione con il paziente per giungere a chiedersi “..cosa apporta la clinica dell’handicap al campo della psicoanalisi?”.
La radicalità delle domande precedenti porta ad una strada che è ben rappresentata nell’introduzione “Che ne è di un paziente affetto da handicap? La psicoanalisi offre a queste situazioni un chiarimento fondamentale: Permette di comprendere il trauma che l’handicap rappresenta per il bambino e per i suoi genitori – ma anche per i suoi nonni, per i suoi fratelli e le sue sorelle e per la famiglia cosiddetta allargata – di reperire le rappresentazioni inconsce che risvegliano figure dall’inquietante stranezza, fantasmi di filiazione colpevole, di procreazione interdetta, di sessualità mostruosa, con i sentimenti di vergogna, di frustrazione, di lutto della normalità e di colpevolezza che li accompagnano..”.
E’ su questo versante che allora il prendersi cura perde una collocazione puramente naturale, esce da un dover essere legato all’appartenenza alla natura, per poter essere interrogato e indagato nelle sue impasse e nei fantasmi che lo accompagnano. Un lavoro certamente non da poco e al quale la psicoanalisi può certamente contribuire per la capacità di saper imparare, di saper ascoltare e valorizzare ciò che trapela nel non detto e nel detto a metà. Il discorso della cura e l’analisi della sua pratica può così contribuire a superare la scissione tra affermazioni di principio e loro negazione pratica per aprire ad una dimensione non accusatoria ma di assunzione anche della responsabilità riferibile all’inconscio. Ma non è forse qui che la responsabilità assume sino in fondo la propria derivazione etimologica che rinvia al rispondere?
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