Sono stato invitato a intervenire il 13 maggio, XXXVIII anniversario della 180, da Francesco Amaddeo, Antonio Lasalvia e gli amici della PSIVE – la sezione veneta della Società Italiana di Psichiatria – a Vicenza per il loro congresso annuale “Per una psichiatria critica. I valori, l’etica, i metodi”. L’organizzazione degli interventi era diversa da quella consueta, “a canne d’organo”, nella quale accade per lo più che ciascuno giustapponga alle altre la propria più o meno interessante zuppificazione, senza preoccuparsi molto di ciò che viene detto prima e dopo. A Vicenza invece sono stati identificati quattro temi controversi e all’ordine del giorno e per ciascuno di essi una coppia di relatori è stata incaricata di sostenere i punti di vista contrapposti. Il tema per il quale sono stato scelto è quello della coazione in psichiatria, e la tesi quella che “La coazione va sempre evitata” (e, con ciò, ho inteso dovermi riferire tanto alla coazione direttamente esercitata dal personale psichiatrico, che a quella da esso sollecitata da parte di altre agenzie quali forze dell’ordine, Magistratura ecc.). Per il punto di vista contrario – che “La coazione a volte può anche essere benigna” – sono stati scelti i colleghi e amici fiorentini Gemma Brandi e Mario Iannucci, dei quali conoscevo alcuni lavori sull’argomento[i]. Gli altri temi erano tagli alle risorse (Angelo Del Favero e David McDaid), identità dello psichiatra (Heinz Katschnig e Gilberto Di Petta), trattamenti farmacologici (Joanna Moncrieff e Giuseppe Imperadore).
Confesso che a tutta prima il fatto che mi fosse chiesto di sostenere un’affermazione così netta mi ha preoccupato, poi però ho accettato la sfida di impegnarmi su questa posizione, alla quale certo sono sensibile, pur consapevole del fatto che, probabilmente, se mi fosse stato chiesto avrei potuto trovare argomenti a sostegno anche di quella opposta, della quale pure comprendo le ragioni. Il concetto di “coazione benigna” rappresenta un ossimoro introdotto nel dibattito psichiatrico italiano da Gemma Brandi almeno dai primi anni ’90 allo scopo di destigmatizzare la coazione che a volte può diventare inevitabile in psichiatria, in anni nei quali questo concetto era impopolare nel dibattito italiano (non altrettanto, credo però, nelle pratiche, e cito per tutti i temi dell’attenzione in genere scarsa per i pazienti internati negli OPG e la diffusione della contenzione nei servizi ospedalieri). Tra i caposaldi, Gemma individuava il fatto che per essere “benigna” la coazione debba essere necessaria, progettuale e individualizzata, umana, interdisciplinare. Oggi tuttavia, in una situazione diversa nella quale l’onda lunga del ’68 ha lasciato spazio a un clima pesantemente securitario, mi pare che anche in psichiatria il rischio sia all’opposto che ogni tentativo di vedere le cose dal punto di vista del paziente possa essere tacciato di “ideologia” e prevalga un atteggiamento per il quale sento la coazione talvolta affrontata in modo eccessivamente pragmatico e persino acritico. Diventa allora utile, credo, esplorare le insidie e i rischi di autogiustificazione e scivolamento che questo concetto può – certo non per volontà di chi l’ha allora introdotto – nel nuovo contesto presentare (o, forse, solo mi sono troppo identificato nella parte). Questo ho cercato di fare a Vicenza rispondendo a questa amichevole e, questa sì, benigna “coazione” degli amici veneti e – integrando il testo con qualche passaggio del quale, per vincoli di tempo, ho fatto lì grazia all’uditorio – questo esporrò con due interventi in rapida successione su POL. it.
Entrerò nel merito con un ricordo personale risalente a 25 anni fa, quando effettuavo una delle prime guardie in Pronto soccorso. Mi aveva chiamato il direttore della struttura, al quale ero legato da affinità di orientamento e da stima reciproca, il professor Giovanni Aldo Ponassi, come consulente per il caso di una giovane donna che, a seguito di una serie impressionante di lutti e abbandoni concentrati nel tempo, aveva effettuato un blando tentativo di suicidio e rifiutava il trasferimento in psichiatria. Parlammo a lungo, ma non riuscii alla fine a convincerla a un breve periodo di ricovero per osservazione; alla fine optai per il TSO, convinto in quel momento che fosse ciò che di più benigno potessi fare per lei. Non lo feci a cuor leggero, tanto che di lì a poco avvertii la necessità di riflettere sull’accaduto, pubblicando una breve nota con due colleghi e una giovane avvocatessa[ii]. Il giorno successivo il primario mi chiese, con tono rispettoso ma un po’ preoccupato, se il provvedimento fosse proprio inevitabile e scherzando mi domandò se avessi tenuto tra l’altro presente il rischio che, essendo la donna giornalista di un importante periodico, alla sua dimissione avremmo potuto essere attaccati sulla stampa come psichiatri insensibili e fascisti. Il ricordo di questo episodio mi interroga su quanto io possa essere cambiato – e, a seconda dei punti di vista, non necessariamente in meglio – in questi 25 anni, se gli amici veneti oggi mi hanno individuato come la persona più adatta a sostenere la tesi che “LA COAZIONE VA SEMPRE EVITATA”.
La coazione nel trattamento dei folli: possibili riferimenti
Da un punto di vista storico l’approccio alla follia da parte delle istituzioni nasce nella coazione. Cito in proposito quanto scriveva intorno al 1530, stilando una delle prime descrizioni esistenti di un luogo deputato al trattamento istituzionale dei folli, il genovese Gio. Antonio Menavino, prigioniero del sultano di Costantinopoli, del quale sono riuscito a stabilire qualche anno fa l’identità erroneamente riportata da Zilboorg ed Henry nella loro classica Storia della psichiatria.
Di un certo luogo chiamato Timerahane, dove si castigano i matti. Questo è fatto à modo d'uno hospitale; dove sono intorno à cento cinquanta guardiani in loro custodia, & sonovi medicine, & altre cose per loro bisogni; & i detti guardiani vanno per la citta con bastoni, cercando i matti, & quando ne trovano alcuno, lo incatenano per il collo con cathene di ferro, & per le mani, & à suono di bastoni lo menano al detto luogo, & quivi gli mettono una cathena al collo assai maggiore, la quale è posta nel muro, & viene sopra del letto; talmente che nel letto per il collo tutti gli tengono incathenati[iii].
Con il noto gesto – forse mai avvenuto in questi termini ma comunque potente come mito fondatore – di Philippe Pinel (1745-1826) che libera dalle catene i folli di Bicètre, la psichiatria sembra nascere come progetto di liberazione. E potrebbe allora essere definita come: l’insieme di tecniche che consente di contenere il corpo dell’altro quando non è più contenuto dalla mente, senza bisogno di legarlo o di chiuderlo, ma attraverso l’uso di una mente ausiliaria, quella del curante (del gruppo curante) che consente di sostituire alla coazione la persuasione. La persuasione, rispetto alla coazione, rappresenta la prima forma di riconoscimento dell’altro come interlocutore, e costringe a tenere conto del suo punto di vista allo scopo di modificarlo, strappandolo così dalla posizione di oggetto del discorso nella quale lo pone la coazione e trasformandolo in soggetto all’interno di un dialogo nel quale i due punti di vista si confrontano e ciascuno si sforza di prevalere. In questo caso, e vengo al punto, ogni episodio di coazione corrisponderebbe a un fallimento della psichiatria, a un ritorno cioè al periodo in cui essa non esisteva ancora. Perché in psichiatria, invece, fin dall’inizio LA COAZIONE VA SEMPRE EVITATA.
Nella storia della psichiatria del XIX secolo, che spesso ha tradito questo gravoso impegno iniziale, altri si sono adoperati per rilanciarlo e un posto importante spetta a John Conolly (1794-1866), del quale desidero sottolineare la straordinaria attualità di molte affermazioni, che ha intitolato la propria opera più celebre, del 1856, “Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi”, cioè non solo senza contenzione fisica, come viene sempre ricordato, ma senza coazione in senso lato. Credo non sia un caso se la traduzione italiana dell’opera fu effettuata da membri dell’équipe goriziana. All’opera di Conolly fece seguito nella seconda metà del XIX secolo un vasto movimento europeo per abolire la contenzione fisica, che ebbe anche Emil Kraepelin (1856-1926) tra i protagonisti, e che lo psichiatra genovese Ernesto Belmondo (1863-1939) – che intervenendo qui vicino alla sua Padova non posso proprio esimermi dal ricordare – tentò all’inizio del XX secolo di importare anche in Italia.
Del verbale relativo al dibattito che fece seguito alla sua relazione volta all’abolizione della contenzione fisica nei manicomi al XII Congresso della Società Freniatrica, cioè la SIP, nel 1904, mi piace riportare un passaggio nel quale egli respinge l’ipotesi della liceità della contenzione anche quando a chiederla è il soggetto stesso, posizione sulla quale mi è capitato di incontrare molti colleghi contrari all'abolizione – e anzi disposti a sostenere proprio a partire da questo la possibile “terapeuticità” della contenzione fisica – anche ai nostri giorni:
Gli duole però di non poter accettare l'applicazione dei mezzi coercitivi, giustificati col desiderio talvolta manifestato dal malato. Il malato di mente il quale domanda di essere sottoposto a coercizione meccanica, estrinseca nient'altro che un sintoma morboso di più, e se ne dovrebbe dedurre nient' altro che la gravità del delirio, o della confusione mentale, o del pervertimento cenestetico, al quale egli può trovarsi in preda.
Ci sono “volontari” della contenzione, come ci sono volontari di altre forme di coazione, volontari del TSO e stiamo scoprendo, di questi tempi, anche forme di “volontariato” dell’OPG o della REMS, perché il funzionamento della mente dell’uomo è davvero complesso. Nel loro insieme, soggetti che chiedono di poter deporre nel capace grembo dell’istituzione la responsabilità dell’autocontrollo, che avvertono faticosa per loro[iv]. E leggere questi fenomeni come segni della benignità delle nostre coazioni anziché, come sosteneva con profetica lucidità Belmondo, piuttosto come un problema nel problema, sarebbe credo semplicistico oltre che pericoloso e scivoloso.
Cercando altri riferimenti al nostro ragionamento, credo che esso possa essere riportato alla questione centrale della bioetica, che può essere rappresentata come una bilancia sui cui piatti devono essere tenuti in equilibrio i due principi fondamentali, quello dell’autonomia/libertà del soggetto e quello della beneficienza/non maleficenza (esiste poi un terzo principio, slegato dai precedenti, che è quello di giustizia/equità, ma ai fini del nostro ragionamento di oggi non rileva).
Sotto il profilo letterario, invece, il riferimento più calzante mi pare rappresentato dalla Leggenda del Grande Inquisitore, che Ivan racconta ad Alësa ne I fratelli Karamazov di Dostoëvskij. Io amo particolarmente, nella leggenda, la figura dell’Inquisitore, alla quale mi pare sotto molti aspetti riferibile la posizione dello psichiatra, ma mi trovo oggi invece qui a rappresentare la posizione di Cristo, più sensibile al tema della libertà dell’uomo che non a quello della necessità del suo buon governo (della coazione benigna) da parte del potere.
Mi pare, poi, che la questione abbia anche a che fare con il tema generale dell’identità dello psichiatra. Frequentando infatti quasi quotidianamente questi signori, ho maturato negli anni il convincimento che esistano, schematizzando, due tipi di psichiatra, o meglio due tipi di vocazione alla psichiatria (o forse, nello psichiatra, due opposte pulsioni):
• Quelli che amano l’ordine, e hanno scelto questo lavoro per riportare all’ordine il disordine rappresentato dalla follia, restituendo in questo modo all’altro libertà dalla follia che l’opprime
• Quelli che amano il disordine, e hanno scelto questo lavoro per garantire al disordine rappresentato dalla follia la possibilità di esprimersi trovando un equilibrio con le esigenze della realtà della vita, restituendo in questo modo all’altro libertà nella follia che gli appartiene.
Confesso che a tutta prima il fatto che mi fosse chiesto di sostenere un’affermazione così netta mi ha preoccupato, poi però ho accettato la sfida di impegnarmi su questa posizione, alla quale certo sono sensibile, pur consapevole del fatto che, probabilmente, se mi fosse stato chiesto avrei potuto trovare argomenti a sostegno anche di quella opposta, della quale pure comprendo le ragioni. Il concetto di “coazione benigna” rappresenta un ossimoro introdotto nel dibattito psichiatrico italiano da Gemma Brandi almeno dai primi anni ’90 allo scopo di destigmatizzare la coazione che a volte può diventare inevitabile in psichiatria, in anni nei quali questo concetto era impopolare nel dibattito italiano (non altrettanto, credo però, nelle pratiche, e cito per tutti i temi dell’attenzione in genere scarsa per i pazienti internati negli OPG e la diffusione della contenzione nei servizi ospedalieri). Tra i caposaldi, Gemma individuava il fatto che per essere “benigna” la coazione debba essere necessaria, progettuale e individualizzata, umana, interdisciplinare. Oggi tuttavia, in una situazione diversa nella quale l’onda lunga del ’68 ha lasciato spazio a un clima pesantemente securitario, mi pare che anche in psichiatria il rischio sia all’opposto che ogni tentativo di vedere le cose dal punto di vista del paziente possa essere tacciato di “ideologia” e prevalga un atteggiamento per il quale sento la coazione talvolta affrontata in modo eccessivamente pragmatico e persino acritico. Diventa allora utile, credo, esplorare le insidie e i rischi di autogiustificazione e scivolamento che questo concetto può – certo non per volontà di chi l’ha allora introdotto – nel nuovo contesto presentare (o, forse, solo mi sono troppo identificato nella parte). Questo ho cercato di fare a Vicenza rispondendo a questa amichevole e, questa sì, benigna “coazione” degli amici veneti e – integrando il testo con qualche passaggio del quale, per vincoli di tempo, ho fatto lì grazia all’uditorio – questo esporrò con due interventi in rapida successione su POL. it.
Entrerò nel merito con un ricordo personale risalente a 25 anni fa, quando effettuavo una delle prime guardie in Pronto soccorso. Mi aveva chiamato il direttore della struttura, al quale ero legato da affinità di orientamento e da stima reciproca, il professor Giovanni Aldo Ponassi, come consulente per il caso di una giovane donna che, a seguito di una serie impressionante di lutti e abbandoni concentrati nel tempo, aveva effettuato un blando tentativo di suicidio e rifiutava il trasferimento in psichiatria. Parlammo a lungo, ma non riuscii alla fine a convincerla a un breve periodo di ricovero per osservazione; alla fine optai per il TSO, convinto in quel momento che fosse ciò che di più benigno potessi fare per lei. Non lo feci a cuor leggero, tanto che di lì a poco avvertii la necessità di riflettere sull’accaduto, pubblicando una breve nota con due colleghi e una giovane avvocatessa[ii]. Il giorno successivo il primario mi chiese, con tono rispettoso ma un po’ preoccupato, se il provvedimento fosse proprio inevitabile e scherzando mi domandò se avessi tenuto tra l’altro presente il rischio che, essendo la donna giornalista di un importante periodico, alla sua dimissione avremmo potuto essere attaccati sulla stampa come psichiatri insensibili e fascisti. Il ricordo di questo episodio mi interroga su quanto io possa essere cambiato – e, a seconda dei punti di vista, non necessariamente in meglio – in questi 25 anni, se gli amici veneti oggi mi hanno individuato come la persona più adatta a sostenere la tesi che “LA COAZIONE VA SEMPRE EVITATA”.
La coazione nel trattamento dei folli: possibili riferimenti
Da un punto di vista storico l’approccio alla follia da parte delle istituzioni nasce nella coazione. Cito in proposito quanto scriveva intorno al 1530, stilando una delle prime descrizioni esistenti di un luogo deputato al trattamento istituzionale dei folli, il genovese Gio. Antonio Menavino, prigioniero del sultano di Costantinopoli, del quale sono riuscito a stabilire qualche anno fa l’identità erroneamente riportata da Zilboorg ed Henry nella loro classica Storia della psichiatria.
Di un certo luogo chiamato Timerahane, dove si castigano i matti. Questo è fatto à modo d'uno hospitale; dove sono intorno à cento cinquanta guardiani in loro custodia, & sonovi medicine, & altre cose per loro bisogni; & i detti guardiani vanno per la citta con bastoni, cercando i matti, & quando ne trovano alcuno, lo incatenano per il collo con cathene di ferro, & per le mani, & à suono di bastoni lo menano al detto luogo, & quivi gli mettono una cathena al collo assai maggiore, la quale è posta nel muro, & viene sopra del letto; talmente che nel letto per il collo tutti gli tengono incathenati[iii].
Con il noto gesto – forse mai avvenuto in questi termini ma comunque potente come mito fondatore – di Philippe Pinel (1745-1826) che libera dalle catene i folli di Bicètre, la psichiatria sembra nascere come progetto di liberazione. E potrebbe allora essere definita come: l’insieme di tecniche che consente di contenere il corpo dell’altro quando non è più contenuto dalla mente, senza bisogno di legarlo o di chiuderlo, ma attraverso l’uso di una mente ausiliaria, quella del curante (del gruppo curante) che consente di sostituire alla coazione la persuasione. La persuasione, rispetto alla coazione, rappresenta la prima forma di riconoscimento dell’altro come interlocutore, e costringe a tenere conto del suo punto di vista allo scopo di modificarlo, strappandolo così dalla posizione di oggetto del discorso nella quale lo pone la coazione e trasformandolo in soggetto all’interno di un dialogo nel quale i due punti di vista si confrontano e ciascuno si sforza di prevalere. In questo caso, e vengo al punto, ogni episodio di coazione corrisponderebbe a un fallimento della psichiatria, a un ritorno cioè al periodo in cui essa non esisteva ancora. Perché in psichiatria, invece, fin dall’inizio LA COAZIONE VA SEMPRE EVITATA.
Nella storia della psichiatria del XIX secolo, che spesso ha tradito questo gravoso impegno iniziale, altri si sono adoperati per rilanciarlo e un posto importante spetta a John Conolly (1794-1866), del quale desidero sottolineare la straordinaria attualità di molte affermazioni, che ha intitolato la propria opera più celebre, del 1856, “Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi”, cioè non solo senza contenzione fisica, come viene sempre ricordato, ma senza coazione in senso lato. Credo non sia un caso se la traduzione italiana dell’opera fu effettuata da membri dell’équipe goriziana. All’opera di Conolly fece seguito nella seconda metà del XIX secolo un vasto movimento europeo per abolire la contenzione fisica, che ebbe anche Emil Kraepelin (1856-1926) tra i protagonisti, e che lo psichiatra genovese Ernesto Belmondo (1863-1939) – che intervenendo qui vicino alla sua Padova non posso proprio esimermi dal ricordare – tentò all’inizio del XX secolo di importare anche in Italia.
Del verbale relativo al dibattito che fece seguito alla sua relazione volta all’abolizione della contenzione fisica nei manicomi al XII Congresso della Società Freniatrica, cioè la SIP, nel 1904, mi piace riportare un passaggio nel quale egli respinge l’ipotesi della liceità della contenzione anche quando a chiederla è il soggetto stesso, posizione sulla quale mi è capitato di incontrare molti colleghi contrari all'abolizione – e anzi disposti a sostenere proprio a partire da questo la possibile “terapeuticità” della contenzione fisica – anche ai nostri giorni:
Gli duole però di non poter accettare l'applicazione dei mezzi coercitivi, giustificati col desiderio talvolta manifestato dal malato. Il malato di mente il quale domanda di essere sottoposto a coercizione meccanica, estrinseca nient'altro che un sintoma morboso di più, e se ne dovrebbe dedurre nient' altro che la gravità del delirio, o della confusione mentale, o del pervertimento cenestetico, al quale egli può trovarsi in preda.
Ci sono “volontari” della contenzione, come ci sono volontari di altre forme di coazione, volontari del TSO e stiamo scoprendo, di questi tempi, anche forme di “volontariato” dell’OPG o della REMS, perché il funzionamento della mente dell’uomo è davvero complesso. Nel loro insieme, soggetti che chiedono di poter deporre nel capace grembo dell’istituzione la responsabilità dell’autocontrollo, che avvertono faticosa per loro[iv]. E leggere questi fenomeni come segni della benignità delle nostre coazioni anziché, come sosteneva con profetica lucidità Belmondo, piuttosto come un problema nel problema, sarebbe credo semplicistico oltre che pericoloso e scivoloso.
Cercando altri riferimenti al nostro ragionamento, credo che esso possa essere riportato alla questione centrale della bioetica, che può essere rappresentata come una bilancia sui cui piatti devono essere tenuti in equilibrio i due principi fondamentali, quello dell’autonomia/libertà del soggetto e quello della beneficienza/non maleficenza (esiste poi un terzo principio, slegato dai precedenti, che è quello di giustizia/equità, ma ai fini del nostro ragionamento di oggi non rileva).
Sotto il profilo letterario, invece, il riferimento più calzante mi pare rappresentato dalla Leggenda del Grande Inquisitore, che Ivan racconta ad Alësa ne I fratelli Karamazov di Dostoëvskij. Io amo particolarmente, nella leggenda, la figura dell’Inquisitore, alla quale mi pare sotto molti aspetti riferibile la posizione dello psichiatra, ma mi trovo oggi invece qui a rappresentare la posizione di Cristo, più sensibile al tema della libertà dell’uomo che non a quello della necessità del suo buon governo (della coazione benigna) da parte del potere.
Mi pare, poi, che la questione abbia anche a che fare con il tema generale dell’identità dello psichiatra. Frequentando infatti quasi quotidianamente questi signori, ho maturato negli anni il convincimento che esistano, schematizzando, due tipi di psichiatra, o meglio due tipi di vocazione alla psichiatria (o forse, nello psichiatra, due opposte pulsioni):
• Quelli che amano l’ordine, e hanno scelto questo lavoro per riportare all’ordine il disordine rappresentato dalla follia, restituendo in questo modo all’altro libertà dalla follia che l’opprime
• Quelli che amano il disordine, e hanno scelto questo lavoro per garantire al disordine rappresentato dalla follia la possibilità di esprimersi trovando un equilibrio con le esigenze della realtà della vita, restituendo in questo modo all’altro libertà nella follia che gli appartiene.
La coazione e il desiderio di proteggere: esemplificazioni cliniche
Vorrei ora proporre in successione tre storie cliniche, nelle quali le questioni di cui stiamo trattando si pongono, mi pare, con particolare radicalità.
Anna è una donna di cinquant’anni che vive con l’anziana madre. Da giovane ha trascorso qualche anno in manicomio, con diagnosi di frenastenia. Esce presto il mattino, fa colletta, passa una giornata da barbona. E’ sporca, disordinata, fa i suoi bisogni dove capita. Nel quartiere tutti le vogliono bene, i negozi di alimentari le regalano quello che chiede. La sera rientra in casa per dormire. Una sera non torna, è caduta e si è rotta un braccio. Occorre inserirla in una struttura assistenziale, finché non sarà guarita. Le infermiere che le fanno vista la trovano finalmente pulita, ordinata, messa a dieta. Ma chiede sempre di poter uscire. La madre, che da tempo caldeggiava questa soluzione cui ci opponevamo, coglie la palla al balzo e, allo scadere del tempo previsto, interviene economicamente perché Anna possa rimanere in struttura. Trascorre qualche mese soltanto e, un mattino, Anna – quella che era sopravvissuta a tanti anni per la strada – viene trovata nel letto, uccisa da un infarto. Comprendo di non fare, in questo momento, un’affermazione evidence-based, ma mi sono sorpreso spesso a chiedermi, soprattutto quando mi trovo a dover imporre l’istituzionalizzazione a qualcuno, se la morte di Anna non possa avere qualcosa a che fare con quei fenomeni a volte mortali di ospitalismo, o di depressione anaclitica, osservati dal pediatra statunitense René Spitz o con altri danni da istituzionalizzazione.
Marina è una donna di quarant’anni, non ha mai presentato sintomi psicotici, non è mai stato necessario il ricovero ma è diffidente verso tutti, solitaria, prepotente; dopo la fine della scuola, non ha lavorato, non cerca lavoro. Per alcuni periodi accetta di venire regolarmente al servizio, ma poi smette, e diventa difficile che si faccia trovare in casa, e apra la porta. Dai servizi vuole solo aiuto economico, quando le serve, ma non tollera di essere cercata. Ha un buon rapporto con il medico di base che, periodicamente, la convince a fare un controllo. All’ultimo controllo la glicemia è molto elevata: dovrà stare a dieta e assumere terapia ipoglicemizzante. Ma Marina, si sa, fa di testa sua, e in più è arrabbiata perché i servizi sociali, con risorse contratte, cominciano a doverle lesinare le risorse. La sua ritorsione è interrompere le cure, e dopo qualche tempo il diabete comincia a dare le prime complicanze. Ci si ritrova in UVM, il servizio sociale, il medico di base, lo psichiatra a cercare una soluzione per aiutarla. E se non si riuscirà a farle cambiare atteggiamento? Sento che, terminata l’esposizione del caso, gli occhi di tutti si concentrano sullo psichiatra dal quale, in cuor suo, ciascuno si augura che sia messo a disposizione lo strumento magico della coazione che risolve. Taccio. Tutti tacciono. Poi è la responsabile del servizio sociale di zona, persona che ha lavorato in salute mentale e che negli anni ’70 si era anche recata col marito nella Trieste di Basaglia a curiosare, a osservare con una smorfia: “beh, non si può certo pensare che loro facciano un TSO”. E a quel punto sento che il pensiero riprende libero a circolare.
A questi primi due casi vorrei aggiungerne un terzo, sopraggiunto mentre già viaggiavo in treno verso Vicenza e riportato da “Il Secolo XIX”: “Clochard pestato a sangue e violentato”. Il quotidiano riferiva che la vittima è un disabile psichico (…) seguito dall’igiene mentale dell’ASL 3 (…) sono le 2 di martedì notte quando un automobilista si accorge di quell’uomo a terra. Un fatto certo doloroso e impressionante. L’articolo proseguiva riportando i commenti del fratello e dell’amministratore di sostegno, che mi paiono emblematici delle due posizioni possibili rispetto alla coazione. Per il primo: “mio fratello malato lasciato allo sbando (…). Necessita di una cura costante, quotidiana. E allora perché martedì sera alle 2 di notte si trovava lì? Le persone che dovevano prendersi cura di mio fratello dovevano controllarlo. Perché non lo hanno fatto?”. Per la seconda, che aveva evidentemente condiviso la propria posizione coi curanti: “Per questa persona esiste un programma specifico di cura e terapia. Ma non possiamo obbligarlo a seguire quanto gli viene proposto e offerto”.
Delle coazioni nei luoghi della psichiatria: una digressione
Vorrei permettermi, infine, una breve digressione su alcune forme di coazione, benigna certo nelle intenzioni, che tendono a investire in misura sempre maggiore i luoghi psichiatrici della riabilitazione. In un Centro diurno si ha l’abitudine di cucinare il pranzo insieme, come in famiglia: ciò è gradito agli ospiti, ma le regole dell’accreditamento insieme a ostacoli burocratici, rischiano di rendere questa soluzione, così “normale”, impraticabile e costringere ai pasti veicolati. Gastronomia, insomma, versus epidemiologia? Nei luoghi della psichiatria, come ovunque, è sempre più stigmatizzato e ostacolato il fumo da un generalizzato e certo lodevole furor preventivus e in alcuni casi addirittura le sigarette vengono contingentate dall’istituzione. Libertà, quindi, versus prevenzione? La terza forma poi la comprendo ancora meno, ma mi capita sempre più spesso d’imbattermi in luoghi comunitari nei quali per i primi 7, 15 o 30 giorni dopo l’ingresso sono proscritte al soggetto le visite dei parenti, e/o l’uso del telefono o altro. La logica per cui la fase d’ingresso in un ambiente comunitario deve prevedere una prima fase superdisciplinare sembra così diffusa, che molti colleghi cessano persino d’interrogarsi sul senso per cui ciò deve accadere. Ma quale evidenza scientifica, mi chiedo, sostiene la benignità, per non dire poi della inevitabilità, di queste misure? Sono questioni, insieme a tante altre che si potrebbero citare, che mi portano a domandarmi se non debba essere considerata anche una possibile tossicità della coazione in psichiatria, e quando vengono fatte ispezioni ai nostri luoghi, essa non dovrebbe essere tenuta presente come le altre. Se non esista cioè il rischio di un tale accumularsi di coazioni, che trovano giustificazioni diverse e sono sostenute da diverse autorità, nei luoghi della psichiatria, da poterli rendere soffocanti per coloro ai quali li proponiamo e che già devono sottostare a tante limitazioni direttamente collegate alla malattia e alla cura.
Segue parte II: Coazione se benigna o solo se proprio inevitabile?
[i] Non disponendo degli argomenti esposti da Gemma e Mario a Vicenza, che rappresentano per i miei l’indispensabile controcanto, rimando perché disponibile on-line al testo: G. Brandi, M. Iannucci, La coazione benigna al servizio della salute e della sicurezza, Rassegna Penitenziaria, n. 3, 2013, pp. 9-36.
[ii] G. Berruti, U. Menichini, P.F. Peloso, M. De Marchi, Il diritto dell'utente e il diritto-dovere dell'atto terapeutico, Atti della Conferenza Internazionale “Power and Mental health. The choices of treatment and the right to treat”, Roma, 17-20 novembre 1991, pp. 122-126.
[iii] Cit. in: P.F. Peloso, Hospital care of madness in the Turk sixteenth century according to the witness of G.A. Menavino from Genoa, History of Psychiatry, 9, 1998, pp. 35-38.
[iv] Mi limito in questa sede a richiamare la possibilità che pulsioni masochistiche o istanze autopunitive a volte possano concorrere a questo atteggiamento, e il fatto che il lavoro istituzionale dovrebbe essere volto a colludere con esse il meno possibile.
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