Dialogo con Francesco Bollorino e Gilberto Di Petta
Sarantis Thanopulos: Caro Francesco, caro Gilberto, nel vostro libro “La doppia morte di Gerolamo Risso” (Alpes ed.) affrontate, in collaborazione con altri studiosi tra cui la psicoanalista Rita Corsa, il tema dell’omicidio “psichiatrico” ormai poco interrogato nel campo della cura, relegato ai suoi risvolti giudiziari e considerato, a torto, effetto del delirio e non del suo crollo. Sottraete alla polvere degli archivi una storia umana diventata fatto di cronaca e sepolta insieme ad esso e riportate alla sua singolarità un’esistenza “perduta”. Richiamando alla nostra attenzione le tante altre esistenze che allora si spegnevano “cronicizzate” nei manicomi, e oggi si spengono, altrettanto cronicizzate e ridotte al silenzio, nella perenne sedazione. Il pregio del vostro libro è la restituzione a un nome dell’identità e della soggettività, della materia psicocorporea travagliata e sofferente, che gli sono appartenute, non prescindendo dal delirio, ma, in parte, proprio grazie ad esso. Togliendolo dall’anonimato della storia e ricollocandolo nel campo della fraternità umana dove i nomi vengono e passano, ma gli affetti legati ad essi restano come patrimonio comune nella memoria collettiva.
Francesco Bollorino: “ Nel momento in cui ho trovato questa storia negli Archivi del Manicomio di Cogoleto, vero crogiuolo di esistenze perdute, sono rimasto affascinato dal “destino” del protagonista della vicenda e dalla qualità letterari del suo racconto. I meriti che tu dai al libro sono i “meriti” di Gerolamo e della sua straordinaria capacità di scrittura e della immediatezza con cui il “dolore” viene narrato. Proprio per questo non abbiamo pensato al libro come ad un saggio sulla paranoia ma a come una testimonianza che potesse interessare un pubblico più vasto della cerchia degli addetti ai lavori. Proprio per questo abbiamo immaginato percorsi di lettura diversi, possibili approfondimenti offerti ai lettori tramite un apparato di note al testo e di saggi in appendice ma lasciando in primo piano la storia di Gerolamo nella sua straziante tragicità. Gerolamo non è stato ascoltato, durante i lunghi anni dell’internamento in Manicomio, ma la sua voce ci restituisce come dici tu la sua tragica identità e consente la scoperta non solo dell’evoluzione processuale di un delirio, raramente raccontato con tanta precisa rappresentazione, ma anche e soprattutto del suo mondo interno che ci chiede solo di essere finalmente “ascoltato”.
Gilberto Di Petta: “Quando Francesco Bollorino mi ha inviato il manoscritto di Gerolamo Rizzo non credevo ai miei occhi, perché finalmente, anche se a distanza di un secolo, avevamo la possibilità di far dialogare la storia interiore di una vita, non solo il caso di una follia giudiziaria, con quell’umanità che non è indifferente. Allora come ora, l’indifferenza dell’umanità per la (propria) follia ne costituisce, della follia, la quota disumana. Sarantis tu sottolinei l’occasione perduta, da parte della psichiatria, di farsi interlocutrice della follia. La “doppia morte” di Gerolamo è il prodotto dell’indifferenza della gente comune e dell’insipienza della psichiatria naturalista, appena decente nel “classificare” il fatto, dopo che è accaduto, e nemmeno decente per “sorvegliare” una vita presa in custodia, più che in cura. Tutto questo è terribilmente attuale. La voce di Gerolamo è un grido intatto e sanguinante che arriva, certo, da lontano, ma che ricade sulle attuali acque stagnanti, frutto di una gigantesca operazione di rimozione e di negazione della follia, della sua espressività, della sua intrinseca spinta a migliorare il genere umano, trascendendo la crosta quotidiana dell’ovvio, a patto di essere decodificata nel suo strenuo richiamo di incontro e di senso.
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