ALLORA
Allora il mondo era intatto. La bella stagione sapeva di fieno tagliato e di busa di vacca. Il sole accarezzava i capelli biondo-oro di sua madre con un riverbero che colorava l'aria, attorno al fiore rosso delle labbra. San Martino era la libertà.
Ma, a cercare un po' più lontano, c'era anche un'angoscia indefinibile, che rendeva il suo sguardo pigro e distratto.
Quel giorno, sessant'anni più tardi, si ricordò dell'unghia nera sull'alluce di suo padre. "Papà, perché è così?", chiedeva con apprensione. "Uno specchio", rispondeva il padre ridendo, completamente ignaro dell'importanza della domanda. "Mi è caduto lo spigolo di un grosso specchio sul ditone". "Quando?" "Tanto tempo fa".
Dunque, non c'era guarigione. Non come le sue ginocchia sbucciate, che dopo un po' guarivano, e al massimo lasciavano delle strie bianche sottili, che poi il sole cancellava. Dunque, c'era qualcosa che si corrompeva per sempre. Come il collo di sua madre, deturpato da un uovo. Una specie di uovo ingoiato intero e rimasto lì, in gola. Un nodo tiroideo calcificato, aveva detto il medico. Per forza: anche il guscio dell’uovo è fatto di calcio; lo aveva imparato a scuola. L’unica cosa che gli sembrava certa, per averla sentito dire in casa, era che quell’uovo c’entrava qualcosa con la sua nascita.
Allora fantasticava di spingerglielo giù, con le dita, ma la cosa lo angosciava molto, perché quel gesto sarebbe stato uguale a quello visto al cinema: il gesto che serve per strozzare. Per un tempo lungo, deviò quell'angoscia su polli e galline, a causa del loro gozzo. Morte e spiumate, appese sopra il banco della Gisella, la pollivendola, la loro testa e il collo apparivano minacciosi e in grado di animarsi all'improvviso.
ADESSO
Adesso era in pensione. Nonostante il passare del tempo, aveva coltivato e accumulato abbastanza passioni da pensare che non si sarebbe intristito. Ma una cosa lo opprimeva ugualmente: quel senso del limite, piombatogli addosso all'improvviso. Come una corsa non più interminabile, ma con un capolinea certo. Non che prima non lo sapesse. Ma ora il limite era sempre lì, davanti ai suoi occhi. E a volte era colto da una sottile angoscia di non farcela. Anche i segni che gli dava il suo corpo gli dicevano che bisognava economizzare. Che il tempo dello scialo era finito per sempre. E poi, ci si metteva anche la crisi mondiale, a ricordarglielo.
ONICOMICOSI
Alcuni anni prima, aveva sofferto di un'onicomicosi all'unghia dell'alluce sinistro. Sulle prime non gli era tornata alla mente l'unghia nera di suo padre, ma poi ci pensò, quando ormai le cure intensive che ottenevano effetti così lenti duravano da un paio d'anni. Ora, sull'unghia alla fine guarita, rimanevano i segni di una piccola lunga battaglia.
ANTROPOLOGIA
Il giorno prima del sogno ha ascoltato la conferenza di un’amica: il ruolo del femminile, fra psicoanalisi e antropologia. Patriarcato e Matriarcato. Le Cariatidi femminili di Atene che accompagnano il guerriero morto nell’ultimo viaggio. Mentre l’amica parla, lui pensa a Sisifo che incatena Thanatos. Sisifo che si ribella alla decisione di Zeus di farlo morire per punirlo di uno sgarbo, e imprigiona la Morte. Sisifo che si oppone al destino dei mortali con la forza dei muscoli. Con Thanatos incatenato la terra languisce perché nessuno muore più, nemmeno in battaglia. Ares che libera Thanatos, imprigiona Sisifo e lo conduce al Tartaro.
La morte non si sconfigge con la forza dei muscoli. Il guerriero, accompagnato nel Regno dei Morti da un corteo di fanciulle rappresentate dalle Cariatidi, ha bisogno di ricongiungersi alla sua parte femminile, alla pietà, alla sim-patia, alla sollecitudine. Tutti attributi che in guerra sono inutili e pericolosi orpelli che rallentano la rapidità dell’azione, ma che di fronte all’ineluttabilità della Morte diventano ridicolmente grotteschi. Davanti alla Morte, non si può che essere seri. I muscoli di Sisifo, la virilità degli Eroi, non servono a nulla. Occorre la Pietas, che è femminile. Le Cariatidi sono le colonne portanti dell'Eretteo; senza di esse è il Cielo che crolla.
SOGNO
Osserva i suoi piedi, e scopre di avere un'estesa onicomicosi a un alluce. Decide di provare a rimuovere l'unghia con un movimento dolce, come quando si prova a scollare un'etichetta.
L'unghia viene via facilmente, portando con sé un ampio lembo di pelle della grandezza e della forma di un sacchetto di plastica. Di quelli che si usano per la spesa.
Osserva a lungo il sacco di cute al suo interno, e a un tratto gli viene in mente che occorre esplorarlo bene, perché potrebbero esserci dei vermi.
Guarda meglio, e, in un angolo, riconosce una forma a lui molto familiare: un bigattino, o cagnotto, la larva della mosca carnaria, che si sviluppa nella carne in putrefazione. Per anni, ha usato i bigattini per pescare le trote.
Mentre sta osservando la larva, la sua attenzione è attirata da urla concitate. È sua figlia, in preda a una crisi di panico: corre terrorizzata per la casa, gridando "c'è Satana! Aiuto! Satana! Via, via! Aiuto!".
È soltanto, pensa tranquillamente, un po' di angoscia. Sua figlia, ventenne, ha una terribile paura della morte, che non riesce nemmeno a nominare. Satana uguale Thanatos; quasi un anagramma. Pensa che la ragazza ha bisogno di essere tranquillizzata. Butta la pelle e il verme nella spazzatura, e corre da lei.
RISVEGLIO
Si sveglia, con il pensiero che la morte sia pensare soltanto a se stessi. Che occorra tornare a quel punto in cui aveva sentito di non essere più lo scopo esclusivo di tutto, quando sua figlia aveva riempito, all’improvviso, il mondo. Quando il suo narcisismo aveva incontrato una curva a gomito, ed era stato costretto a deviare. Ed era stato così bello.
“Chissà –si chiede- se questo sogno annuncia qualcosa. Magari che, fra un po’ di tempo, comincerò a pensare un po’ meno alla durata”.
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