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La fabbrica degli emarginati. Il patriottismo di Putin, l’ultimo esito dell’universalismo capitalista

17 Mar 22

A cura di Luigi D'Elia

 

Ricordate la guerra contro il califfato dell’ISIS e le ultime azioni terroristiche in Europa risalenti al 2015? Quella escalation fu l’ultimo turbamento alla nostra apparente pace nel nostro primo mondo. Oggi con la guerra russo-ukraina questo turbamento è diventato orrore e pericolo di estinzione qui, proprio fuori l’uscio di casa. Ritorna l’incubo della fine del mondo nucleare, tipico della guerra fredda.

Ma cosa c’entra Putin e la sua aggressione in perfetto stile novecentesco con la guerra santa dei presunti califfi dell’ISIS e dei kamikaze (europei) pronti a morire per questa causa?

Molti penseranno: poco o niente, se non che in entrambi i casi si muove guerra per affermare una presunta potenza che appare ai più come una forma di finale impotenza.

Eppure il legame tra questi eventi storici, così separati e differenziati in tutto, sono molto più stretti di quanto si pensi se seguiamo il coerente flusso concettuale che di seguito vi propongo.

Globalizzazione: Il mondo nato dopo il crollo del muro di Berlino, nel 1989, e dopo la vittoria definitiva del modello economico-politico neoliberista, presenta una situazione apparentemente pacificata sotto l’egida rassicurante di una globalizzazione che ha affidato l’andamento del mondo alla ipnotica mano invisibile dei mercati internazionali e alla cabina di regìa sempre più de-politicizzata. Tale sistema vive, come sanno bene gli studiosi più attenti, della profonda e attiva complicità di ciascuno di noi, nessuno escluso, in quanto partecipe delle sorti dell’economia personale (psichica) e nazionale allo stesso tempo in una sorta di saldatura compiuta tra il micro ed il macro. La globalizzazione non è uguale e non determina gli stessi effetti in tutto il mondo. Se tende ad avvantaggiare le nazioni tecnologicamente più avanzate, tende ad escludere le altre creando fisiologicamente disuguaglianze, anche all’interno delle stesse nazioni del primo mondo.

Decisamente non ci troviamo nel migliore dei mondi possibili (basta osservare la crescita esponenziale dei disagi psicologici, ma anche, contestualmente, gli squilibri sociali ed ecologici in cui ci ritroviamo), ma certamente in quello più prevedibile e stabile della storia. Abbiamo scambiato la comodità di mangiare cambogiano o eritreo in ogni momento della nostra vita con un mortale appiattimento delle nostre azioni creative. La globalizzazione, più di ogni virus, contagia ogni angolo del mondo e ne chiede l’anima in cambio di un ordine mondiale de-politicizzato, de-ideologizzato, de-teologizzato: in sostanza troppa identità locale e personale risulta un problema.

Secolarizzazione: è quel processo storico-sociale per il quale una civiltà non si regge più su principi religiosi bensì su criteri di etica civile e laica. 

Il mondo globalizzato del capitalismo è una non-religione. Paradosso dei paradossi, si tratta di una non-religione che risulta più prescrittiva e pervasiva di ogni religione della storia in quanto rende spontaneamente asserviti i propri adepti attraverso la promessa di una vita appagata nei bisogni materiali. Promessa che si sposta sempre più in là rispetto alla soddisfazione personale e che risulta molto spesso incompiuta e intrinsecamente falsa.

Se nelle epoche precedenti alla nostra le religioni assolvevano da un punto di vista psico-sociale, attraverso le loro dogmatiche, in larga parte alla necessità di controllo sociale e di vita comunitaria pro-sociale, la graduale desacralizzazione dei riti e dei miti religiosi a cui assistiamo con inesorabile progressione negli ultimi decenni e la prevedibile prossima scomparsa delle attuali religioni (almeno nelle forme tradizionali), ha lasciato il posto ad una rincorsa di una vita decente o migliore che però ha perso ogni velleità ed ogni orizzonte comunitario.

Ma, parafrasando J. Hillman (La vana fuga degli dei, 1991), l’esperienza del sacro, se inespressa o convertita, si trasforma con estrema facilità in sintomi, in malattie. Diventa esperienza alienata. Il sacro, privato di una comunità, di una mitologia, di una storia, di una dogmatica, o per dirla con Jung, di una dimensione archetipica, diventa una delle tante “religioni private” a disposizione di nuovi, pericolosi, settarismi.

Universalismo: è quella tendenza delle religioni, specie quelle monoteiste, di considerare la propria dottrina come valida per tutti e di considerare, conseguentemente, i fedeli di altre religioni, come degli infedeli da convertire.

Il capitalismo globalizzato e pervasivo è diventato di fatto la non-religione universalista definitivamente compiuta e vincente.

Oggi, in piena epoca secolarizzata, nessuna delle tre religioni monoteiste attua più ideologie e pratiche universalistiche da molti anni. L’ultimo tentativo di universalismo velleitario è stato recentemente rappresentato da una fazione dell’Islam jhidaista e salafita proprio attraverso la guerra santa all’occidente dichiarata (e presto persa) dall’ISIS.

In un lavoro del 2016 (Il suicidio grandioso degli stragisti. Universi e universalismi che collidono, Ordine Piemonte, 2017), nel commentare gli ultimi atti terroristici islamisti, leggevo, nelle pieghe delle biografie dei kamikaze europei di seconda generazione, rabbiosi ed esclusi, questa improponibile lotta di civiltà come una lotta tra un universalismo residuale e velleitario (quello ISIS) e un universalismo globale e compiuto (il capitalismo contemporaneo). Lotta destinata in partenza ad essere persa da qualunque potenza ideologico-religiosa antimodernista e revanscista. 

La presenza di forze antimoderniste, animate da rigurgiti ideologici spesso di matrice religiosa, è ben presente e diffusa in moltissime frange delle nostre società del primo mondo. Vediamo antimodernismo ovunque e di continuo e lo ritroviamo, sotto mentite spoglie, nelle rivolte di nostalgici, emarginati, frustrati e ribellisti, come accaduto di recente in alcune frange irriducibili dei cosiddetti no-vax radicali (guarda caso gli stessi che oggi rimangono tiepidi nel condannare Putin o che addirittura lo giustificano).

Non sono un esperto di geo-politica e di questioni internazionali, ma da quello che riesco ad osservare della logica della prosperità capitalista, basata su un acefalo sviluppo e ben poco sul progresso (ricordate Pasolini che diceva: credo nel progresso, non nello sviluppo), chi si chiama fuori dal consesso di questo sistema di sviluppo o vuole entrare in una improbabile competizione, immediatamente si ritrova emarginato.

Patriottismo: e finalmente arriviamo a Putin e alla nostra, triste, stretta attualità. 

Anche qui, senza voler entrare in complessissime questioni geo-politiche che non mi competono, mi limito a svolgere una lettura psico-politica utilizzando, alla fine del flusso concettuale (globalizzazione, secolarizzazione, universalismo), un quarto costrutto, mi riferisco al patriottismo, nella particolare e viscerale versione di Putin, che ben compendia una posizione storico-politica del tutto analoga al rapporto di forze Islamismo-capitalismo e agli opposti universalismi collidenti.

In un mio recente articolo (Gli psicologi e la guerra, State of Mind, 2022), nel tentativo di suggerire a chi si occupa di diplomazia, alcuni elementi relativi alla specifica fragilità della posizione di Putin, avevo proposto una lettura della sua condizione psicologica utilizzando: 1) da un lato gli strumenti della psicoanalisi di Franco Fornari (Psicoanalisi della guerra, 1966), interpretando l’azione guerrafondaia di Putin come una tipica elaborazione paranoicale della depressione e del lutto, ovverosia come risposta inadeguatamente ostile e aggressiva a seguito di una percezione di umiliazione e offesa dell’integrità della presunta grandezza russa. 

2) dall’altro utilizzando uno sguardo storico-psicologico riguardo l’identificazione totale del despota con il suo popolo, la sua storia, sacralizzata e santificata e successivamente vissuta come depredata e minacciata dal mondo intero. Il despota, diventato custode della presunta grandezza della Grande, Santa, Madre Russia, ne preserverebbe quindi la sua mistica rinascita e rivincita. Come per gli antichi re medievali taumaturghi, Putin è il grande condottiero guaritore e riabilitatore che ribalterà il corso della storia che vede la sua immensa nazione, disprezzata nel panorama internazionale e minacciata dall’espansionismo (leggasi universalismo) del mondo capitalista.

Il patriottismo, nella versione putiniana, si staglia perciò come ulteriore forma di atavismo culturale, in stretta analogia alle modalità medievali dell’ISIS, e in stretta assonanza con la vicenda storica del patto di Versailles del 1919 e della nota umiliazione della Germania dopo la sconfitta della prima guerra mondiale, prevalente tema revanscista della posizione paranoicale hitleriana. 

Lo storico russo Zorin conferma, in un'intervista al Corriere della Sera, questa ipotesi della posizione personale e culturale di Putin di stampo deliroide, riferendo il tentativo del despota di riscrivere la storia della propria nazione in una chiave misticheggiante e grandiosa. 

Corsi e ricorsi storici che ci informano come certe passioni premoderne novecentesche: nazionalismi, dispotismi, autoritarismi, patriottismi più o meno misticheggianti, più o meno deliroidi, e persino infernali rigurgiti teocratici oscurantisti, riprendono vita in un mondo apparentemente ordinato e prevedibile, apparentemente stabilizzato dalla massiccia digitalizzazione della vita quotidiana.

Da un lato assistiamo a guerre guerreggiate sempre più aggressive e distruttive e sempre più prossime a noi, rivolte da soggetti portatori di visioni del mondo follemente premoderne. Dall’altro, abbiamo un mondo globalizzato e compiutamente universalizzato che sembra funzionare unicamente sull’omologazione planetaria e sulla fisiologica emarginazione dei non allineati.

Nell’arco di pochi decenni il mondo, dopo aver accumulato, negli anni della guerra fredda degli improbabili equilibri armati, tante armi atomiche da poter distruggere centinaia di volte la specie umana dal pianeta e finita la guerra fredda, nessuno ha pensato di distruggere questo potenziale atomico dal momento che gli equilibri si erano palesemente spostati. 

Provate a chiedere ai ragazzi reietti e bullizzati americani che decidono di finire la loro vita facendo strage nelle loro scuole cos’è secondo loro un’arma di deterrenza

Ad oggi siamo tutti costretti a sperare che qualcuno spari a quel ragazzo fuori controllo, ma questo significa che la situazione è già fuori controllo da molto tempo. Per tutti noi, non solo per talebani, jhidaisti, popoli delle famiglie, qanon, patrioti deliranti, miliziani religiosi, settari, e tribalisti delle foreste tropicali. 

Un popolo di emarginati ed esclusi che prevedibilmente ingrosserà le sue fila.

 

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1 commento

  1. mori@ipsnet.it

    Interessante e condivisibile
    Interessante e condivisibile l’analisi del contesto generale in riferimento alla situazione attuale. Mi sembra però che si rimanga dentro un ambito di riflessioni che pragmaticamente tendono a dare una spiegazione del presente con categorie concettuali del passato. Mi sembra mancare quasi completamente l’idiosincrasia dell’assurdità della guerra, del non senso di risolvere i conflitti con la prepotenza e la prevaricazione. L’essere umano ha ormai abbastanza metabolizzato la sua limitatezza, basta riflettere sulle continue scoperte scientifiche. Più si fanno scoperte e più ci si accorge che aumentano le cose da scoprire. Basta considerare ciò che avviene nel campo dell’accelerazione delle particelle o nella osservazione dello spazio o nella ricerca delle neuroscienze. Ciò dovrebbe metterci maggiormente in una condizione di ascolto, di dialogo, di voler capire insieme… che fa scemare la voglia di voler prevaricare, dominare e svilire gli altri. Il disinteresse dei giovani verso la guerra sembra dimostrare questa realtà che la ragione non può che avallare. Se non distruggiamo in fretta tutto quanto forse siamo agli epigoni della civiltà ormai passata. Occorre pensare che il rumore della guerra è assurdo e non più accettabile come il cannibalismo, la pedofilia o la necrofilia. Questa prospettiva di leggere la realtà con una consapevolezza dei limiti umani alla luce delle scoperte scientifiche e delle riflessioni culturali e filosofiche dovrebbe essere maggiormente sottolineata dagli psicologi e non solo da loro.

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