Siamo tutti dei Narcisi! Questo potrebbe essere il titolo di un libro sulla soggettività che tiene conto del ruolo svolto nel processo ontogenetico dalla relazione tra l’individuo e la propria immagine. Secondo Lacan, il soggetto si costituisce nell’Altro a seguito di quel processo attraverso il quale perde l’Uno, das Ding. Il significante è rispetto alla Cosa condizione e condizionato, essendo la causa che retrospettivamente determina l’emergere negativo di ciò che das Ding rappresenta: la mitica condizione di fusione simbiotica con la madre.
L’evento della separazione sul piano immaginario avviene attraverso la riflessione dell’immagine nello specchio, con il ruolo strutturante dell’imago ideale. Il narcisismo dell’infante è la condizione per l’emergere dell’io («moi»), questo secondo il Lacan che nel 1936 a Marienbad, al XIV Congresso dell’International Psychoanalytic Association, presenta la prima versione dello «stadio dello specchio». L’intuizione di André Green, per diverso tempo allievo di Lacan, è stata quella di elaborare un concetto negativo per significare i deragliamenti di questo processo spesso evidenti nella clinica. In un certo senso Green ha sottolineato il ruolo svolto dalle istanze mortifere presenti come risvolto osceno in quello che è un processo pulsionale di erotizzazione della propria immagine: non soltanto un narcisismo di vita ma anche un narcisismo di morte.
L’Io in questa fase di “innamoramento” verso sé celebra l’Uno negando l’Altro.
Il persistere di questo stato “autarchico” pone in essere le condizioni per un orizzonte di senso autisticamente ripiegato verso sé stesso. La Cosa perduta viene negata in quanto alterità e sostituita attraverso l’erotizzazione della propria immagine allo specchio. La clinica mostra che in alcune circostanze il soggetto sviluppa una consapevolezza perversa: desiderare sé stesso lo pone al riparo dalla dipendenza nei confronti dell’Altro: «bisogna fare a meno dell’oggetto che è oggetto di mancanza, oggetto segno del fatto che si è finiti, incompleti, incompiuti»[1].
Il narcisismo, nell’opera di Green, svolge il duplice ruolo di dispositivo necessario per lo strutturarsi identitario e di condizione patologica che prematuramente congela l’Altro nell’Uno. Diverse le configurazioni narcisistiche appaiono nell’analisi di Green, tra queste una assume valore paradigmatico: il complesso della madre morta.
Questo paradigma interpretativo serve a significare la strutturazione identitaria di soggetti che nel percorso di ritorno verso la “madre tutto”, successivo ad una più o meno riuscita metabolizzazione della perdita della das Ding, si trovano a vivere un periodo felice di rinnovata ricomposizione con L’Uno, colto nella duplice declinazione di Uno&Altro. Se in questa fase di rinnovata unione, in cui è presente però un sentimento di aurorale distinzione tra l’Uno e l’Altro, una qualche tragedia colpisce la madre, il caso tipico è la depressione, il processo subisce un cortocircuito: l’Altro improvvisamente si svuota d’essere agli occhi dell’infante, divenendo figura morta, lontana, inanimata, assente. La perdita della rinnovata relazione con l’Altro viene vissuta dall’infante come vera e propria “tragedia” narcisistica. La ridotta capacità di significazione non offre al bambino la difesa necessaria nei confronti di quest’incontro inaspettato con la dimensione tragica del Reale e La Cosa torna a ripresentarsi nelle orribili e fredde vesti di Assenza fredda, di vuoto inanimato, di baratro, di anti-senso che è poi un diverso senso e non un non-sense.
Ciò che bisogna sottolineare è il trauma per la perdita immotivata della relazione ritrovata. Il bambino non riesce a cogliere il senso dell’Evento “terribile” e assiste allo strutturarsi di un baratro, vera Anti-Cosa, che fagociterà i rimbalzi significanti del desiderio. La ferita narcisistica subita dall’infante si incide sulla carne e plasma quella che sarà “l’immagine del pensiero” di “domani”. Un’immagine caratterizzata, secondo Green, dal sovrainvestimento intellettuale e dalla svalutazione della vita emotiva, sempre più identificata come fonte di sofferenza inutile e in-comprensibile.
Il soggetto vive una relazione impossibile con il fantasma della madre morta che, come nel celebre “Psycho” di Alfred Hitchcock[2] , condiziona l’esistenza del figlio plasmandone le inclinazioni, le decisioni, il desiderio. Non è più l’Uno a vivere ma l’Altro defunto in lui: l’individuo prova per tutta l’esistenza a costruire una fortezza capace di resistere agli attacchi interni di una Alterità maligna introiettata e dimenticata ma che vive in lui, al posto suo, proprio come la mamma di Norman Bates. In analisi il sintomo si delinea nei termini di sensazioni di vuoto-affettivo evidenti soprattutto nei discorsi del soggetto che invariabilmente accusa la madre senza un’apparente ragione, per il solo fatto d’esserci:
«la madre morta aveva portato via , nel disinvestimento di cui era stata oggetto l’essenza dell’amore di cui era stata investita prima del suo lutto: il suo sguardo, il tono della sua voce, il suo odore, la traccia delle sue carezze”. La madre amata del tempo che fu “era stata sepolta viva, ma la sua stessa tomba era scomparsa. Il buco che stava al suo posto faceva temere la solitudine, come se l’oggetto rischiasse di sprofondarcisi anima e corpo»[3].
Il narcisismo intellettuale che caratterizza spesso questa tipologia di condizioni esistenziali svolge la funzione di barriera difensiva nei confronti delle pulsioni mortifere che tendono verso l’inanimato originate da quella che è divenuta un’Assenza presente in grado di colonizzare lo spazio inconscio. L’assenza introiettata produce una voragine sulla «struttura» che anima di non-sense la produzione di senso del “narcisista di morte” la cui «immagine del pensiero» è vuota, priva di tonalità affettive. A. Green chiamerà questa declinazione esistenziale, diversa dallo stato psicotico propriamente detto e da quello nevrotico, «psicosi bianca»[4]: una condizione che caratterizza quei soggetti incapaci di dare solidità ai propri pensieri a causa della mancata simbolizzazione dell’assenza materna. Soggetti fatti “prigionieri” da un vuoto reificato e ipostatizzato in forme mostruose, fredde, annichilenti.
Tra le possibili declinazioni narcisistiche originatesi a seguito della improvvisa “sparizione” della madre nella fase di strutturazione identitaria, Green individua anche quella del “narcisismo anale”. Quest’ultimo caratterizzato da un’opposizione ferma, reiterata, persistente, nei confronti dell’Altro, è una difesa tragica nei confronti del rischio invasivo che per un’identità troppo debole, permeabile, equivale alla frantumazione e al rischio di polverizzazione identitaria.
A differenza di Lacan, che ha sempre riconosciuto dietro ogni configurazione nevrotica il ruolo svolto dallo «stadio dello specchio», Green, fin negli ultimi scritti, quelli contenuti nel volume sui fallimenti del lavoro analitico[5], ha riconosciuto un valore e uno statuto proprio a quegli stati non categorizzabili né come psicotici né come nevrotici e che lui definisce «stati limite», oggi definiti «borderline», così centrali e pervasivi nella diagnostica psichiatrica odierna. A fronte di un abuso diagnostico sempre più rilevante, in particolare nei casi di diagnosi funzionali riguardanti gli adolescenti, si rende necessaria un’operazione di epistemologia clinica tendente a rendere meno vaga la categoria e quindi più funzionale.
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