Negli anni del Fascismo alcuni cambiamenti di paradigma modificarono i termini della questione e l’esito complessivo fu quello di un irrigidimento sulla categoria di razza.
A partire dagli anni Venti del XX secolo il quadro generale cambia, la psichiatria italiana indirizza la ricerca verso gli studi dei tessuti nervosi, della vita cellulare, dell’istologia: il quadro culturale che aveva sorretto la sindrome isterica e la nevrosi è considerato antiquato e, d’altra parte, il discorso pubblico insisterà sulla sconfitta della nevrosi, presentata come patologia propria dei sistemi democratici. In questo ambito di studi la razza, come categoria analitica, continuerà a essere declinata secondo le acquisizioni provenienti dall’antropologia di inizio secolo.
Negli anni Venti il dibattito è segnato, inoltre, da obiettivi importanti della cultura scientifica fascista, in specie il superamento dell’articolazione della popolazione in “etnie” disegnate su scala regionale e l’affermazione dell’esistenza di un’unica razza italica. Le dimensioni e le forme dei crani sono poste in relazione con quelle dei cervelli; si cercano i riscontri fra forme craniche e funzioni psicologiche, caratteri, psicologie dei popoli. I tratti razziali, intesi come l’insieme di dati fisici, abitudini e organizzazioni psichiche, diventano quindi uno schema di riferimento su cui strutturare la vita religiosa, la politica, l’arte, la produzione scientifica, le tendenze criminali e patologiche dei popoli. Questa prospettiva, indicata come “razzismo psicologico”, già presente a inizio secolo, fu nel complesso fatta propria dalla psichiatria italiana del primo dopoguerra. Paradigmatica al riguardo è la posizione di Eugenio Tanzi (1856- 1934) e Ernesto Lugaro ( 1870-1940) autori di un Trattato molto consultato fino agli anni Cinquanta, per i quali l’andamento delle patologie asseconda le razze, “benché non si possa dire dimostrato rigorosamente”. Le diversità anche nelle convivenze, come nel caso di quella tra semiti e ariani in Europa, permangono tenacemente. La paralisi progressiva è propria delle razze più civili, mentre le malattie nervose degenerative infantili sono estremamente frequenti in famiglie di ebrei, per “una disposizione di razza ribadita da troppi frequenti matrimoni tra consanguinei”; l’isteria è invece propria dei “Negri” e non dei Francesi, Polacchi ed Ebrei, come si era a lungo pensato.
Ma la vera novità degli anni Venti e Trenta è rappresentata dalla biotipologia costituzionalistica che farà proprie e adotterà le teorie razziste. Secondo Nicola Pende ( 1880-1970) l’esponente più importante del costituzionalismo italiano, alla base di ciascun individuo c’è il patrimonio ereditario familiare e razziale; su di esso si articolano poi le altre variabili più spiccatamente individuali. Le razze hanno un peso fondamentale nella costruzione scientifica di Pende che fu tra i firmatari del Manifesto degli scienziati razzisti. In più occasioni Pende avrà modo di asserire che le razze esistono, hanno un carattere specifico e che l’intelligenza, il temperamento e la psicologia individuale vanno connesse con la “razza di appartenenza”, ma soprattutto egli insiste sull’assunto secondo cui, al di là degli inevitabili incroci, il “sangue originario resiste” e con esso un carattere fisico e spirituale insieme: gli israeliti pertanto conservavano i loro tratti, così come il “nostro popolo mediterraneo” sarebbe rimasto distinto dal popolo nordico individualista e materialista.
Nel quadro del costituzionalismo, lo psichiatra Giulio Mòglie. nel suo manuale, torna sull’approccio basato “sulla dottrina anatomo-patologica a sfondo neurologico”. Critico verso la figura di uno scienziato “fossilizzato nella sala anatomica e sull’obiettivo del microscopio”, egli auspica che la psichiatria ritorni a essere la scienza dell’intera personalità psico-dinamica dell’uomo. Mòglie si professa propugnatore di un razzismo fondato su basi biologiche, ma organizzato in un sistema “altamente spirituale ed essenzialmente morale”. che recuperava gli assunti classici per i quali il sesso, l’età e la razza avevano un’importanza non trascurabile nell’eziologia di alcune psicopatie,
specialmente con forme eredo-degenerative, nella razza israelita, secondo il parere di molti psichiatri (Kraepelin, E. Guttmann) e tra noi Sergi, Verga e Giannelli a causa dell’alta frequenza dei matrimoni tra consanguinei e quindi per l’intervento del fattore ereditario convergente.
Dopo l’adozione delle leggi razziali, lo psichiatra Giovanni Marro (1875-1952) nel distanziare e difendere gli italiani dagli ebrei, arriva a sostenere che non vi è alcun “vincolo di parentela” tra un italiano e un ebreo perché nel corpo e soprattutto nella psiche esistono importanti caratteri discriminanti razziali.
Negli anni Quaranta, tra gli interventi sulle specificità razziali ebraiche spiccano quelli di Mario Canella (1898-1982), un biologo attento alla divulgazione scientifica, che aveva a cuore la formazione di una “coscienza della razza”, tema invece poco sentito a suo avviso dagli italiani del tempo. Il suo progetto razzista si dichiara contro le “illusioni umanitarie” rappresentate dalle utopie egualitarie. Egli si schierò con chi sosteneva che la razza si riconosce dalla forma mentis più che dalla forma capitis , perorando gli studi sui tratti fisici e quelli psicologici. In quanto biologo, conveniva sul fatto che gli Ebrei presentassero tratti disparati, non ultimo il gruppo sanguigno che era spesso quello più diffuso tra i popoli che li ospitano. I tratti psicologici comunque non lasciavano dubbi:
A tutti sono noti, infatti, quei tratti mentali e morali che caratterizzano in generale gli Ebrei, qualunque sia il loro tipo somatico: stato di eretismo nervoso e psichico; carattere chiuso, introvertito, sornione; animo utilitarista, mercantile, esoso, con spiccatissime attitudini per gli affari, […], dogmatismo religioso; esclusivismo “razzista”; orgoglio esasperato (reazione, forse, a un “complesso di inferiorità”); ostinata volontà di dominio, ecc [… ].
Canella riprende temi già noti quali l’assunto che “esistono razze femminili (ebrei, cinesi) e razze maschili in cui la libido è diversamente dosata”. E ancora: gli Ebrei, nella sua classificazione, sono assimilati agli Anatolici o Levantini in quanto razza di mercanti (attività che ne orientava tutta l’attività psichica), ma soprattutto per il loro carattere “scisso”, ossia dominato dal conflitto tra materia e spirito. Il loro stile di vita sarebbe stato ispirato dalla tendenza al superamento della carne, ma, per un fatale circolo vizioso, più le esigenze della carne vengono mortificate, più diventano tiranniche, per cui si offrivano due soluzioni: quella ascetica, che corrisponde all’ideale cristiano (la spiritualizzazione della carne) o quella della tirannia della carne. La scelta degli ebrei era stata quella di trasformare il sacro in profano e tutto ciò che è spirituale in sensuale.
Considerazioni conclusive
Al di là dei tentennamenti, dei silenzi — certo significativi — e delle cautele, la psichiatria convalidò stereotipi importanti quali: l’inadeguatezza del maschio ebreo alla prova bellica; un modo di pensare la società e di vivere il sentimento religioso che va in una direzione opposta rispetto al cattolicesimo di Stato; l’assenza di un legame solido tra terra e sangue, fonte di instabilità psichica, la sistematica negazione di qualsiasi nota positiva legata alla tradizione ebraica. L’insieme di questi elementi convalidava la tesi dell’estraneità delle comunità ebraiche rispetto alla “nazione italiana” giustificandone così tutte le forme di discriminazione.
Vinzia Fiorino suggerisce di rivedere gli steccati troppo rigidi tra un razzismo “scientifico” e un razzismo “spiritualista” che hanno fortemente segnato la storiografia italiana, questo in ragione degli intrecci continui tra dati biologici, materiali e psicologici. Tutto il dibattito ripercorso spinge piuttosto verso una maggiore interazione tra i diversi piani analitici. Nell’ambito, quindi, della riflessione storiografica che si è sviluppata attorno al razzismo italiano, senza mai prescindere dalle dinamiche specifiche della psichiatria in quanto disciplina, la costruzione della figura dell’ebreo nevrotico conferma la partecipazione degli psichiatri italiani all’ampio dibattito internazionale che già negli ultimi decenni dell’Ottocento aveva ben strutturato i propri contenuti antisemiti. Quest’ultimi vengono elaborati e discussi, sollecitando ricerche volte a trovare conferme di ordine statistico-quantitativo; ma — è bene ribadirlo — tutto questo avviene ben prima che il regime fascista si instauri e si consolidi in Italia introducendo a sua volta nel dibattito nuovi parametri. Le forme della diversità ebraica che emergono a partire da questo lungo dibattito riguardano, infine, altri due aspetti importanti: la nevrosi ebraica non può essere pensata al di fuori del fatto che gli ebrei sono percepiti con una loro propria temporalità e dunque fuori dal corso principale della storia. Posto che il problema della nevrosi, in termini culturali e antropologici, riguarda anche la percezione del tempo e il rapporto con la modernità, gli ebrei — da un lato rappresentati come primitivi, tradizionalisti e legati ad antiche ritualità, dall’altro pensati come portatori di avanguardie intellettuali — sono ritenuti fuori dal normale e giusto ritmo del cambiamento; non sono mai adatti e mai pronti ad assecondarlo. Una seconda forma in cui si estrinseca la loro irreversibile estraneità è quella per cui sono rappresentati come implosi nello spazio familiare e del tutto incapaci di compiere quel salto evolutivo che è rappresentato dalla fondazione della nazione. Da questo punto di vista, dunque, gli ebrei non sono solo rappresentati come intrinsecamente femminili, ma anche privi di una propria patria e di un suolo nazionale, elementi che conferiscono un imprescindibile senso di appartenenza, senza il quale la caduta nella nevrosi e nell’alienazione diviene sempre più probabile.
(fine)
Buon Primo Maggio !!!
Luigi Benevelli ( a cura di)
Mantova, 1 maggio 2023
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