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La fotografia che si legge

13 Nov 15

A cura di degaetani

« La società si adopera per far rinsavire la Fotografia,
per temperare la follia che minaccia di esplodere in faccia a chi la guarda.
Per far questo essa ha disposizione due mezzi.
Il primo consiste nel fare della fotografia un’arte,
giacché nessun’arte è pazza.[….]
L’altro mezzo è di generalizzarla, gregarizzarla, banalizzarla,
al punto che di fronte a lei non vi sia più nessun’altra immagine
rispetto alla quale possa spiccare, affermare la sua specialità,
il suo scandalo, la sua follia ».

 

La chambre claire, Paris, è un saggio scritto dallo strutturalista francese Roland Barthes nel 1980, per la precisione l’ultimo e il più intenso, in omaggio a “Immagine e coscienza” di Sartre.
La fotografia, "medium bizzarro, nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo", viene scrutata non in sé, ma attraverso un certo numero di casi, fotografie che procurano “un’agitazione interiore”, una “animazione”. L'autore prende in considerazione varie fotografie, scattate da diversi artisti tra cui Richard Avedon, Robert Mapplethorpe, Nadar e Niépce, e commentandole trae spunti di riflessione sull’arte della fotografia, sul rapporto tra realtà e immagine, comunicazione e rappresentazione fotografica.

Barthes distingue tre elementi fondamentali: l'operator ovvero l'operatore, colui che fa la foto; lo spectator ossia il fruitore, lo spettatore; lo spectrum vale a dire il soggetto immortalato.

L'autore, inoltre, distingue due modi che ha lo spectator di fruire una fotografia: Lo studium che è l'aspetto razionale, codificabile dell’immagine e si manifesta quando il fruitore si pone delle domande sulle informazioni che la foto gli fornisce (costumi, usi, aspetti); mentre il punctum, è invece l'aspetto emotivo, ove lo spettatore viene irrazionalmente colpito da un dettaglio particolare della foto, ciò che non può essere decifrato e turba lo spettatore.
Il noema della fotografia è, “interfuit” in latino, tutto ciò che io vedo, è stato certamente in quello spazio e in quel momento, ma è già differito, cambiato, è già altro e non è più. Assume pertanto l’aspetto di una certificazione di presenza al qui ed ora dello spectrum.

Infine, un passaggio meraviglioso dell’opera, in cui l’autore descrive  l’aria: qualcosa di morale che apporta misteriosamente al volto il riflesso di un valore di vita. Lo fa riferendosi a una fotografia della madre, alla ricerca intima e coinvolgente che lo accompagna nel riconoscimento di quella sensazione profonda che riconosce all’unisono alla madre e in una fotografia.
L’intero saggio, parola per parola, riflessione dopo riflessione appartiene alla sfera non del semplice piacere, di ciò che è oggettivamente bello o brutto, ma appartiene all’amore, alla passione, all’agitazione che anima un certo modo di fare fotografia, di chi senza inganno è pronto a lasciarsi coinvolgere, a mettersi in discussione, consapevole del fatto che ogni fotografia creata da noi è a nostra immagine e somiglianza. Ci sono dentro i nostri pensieri, i nostri entusiasmi, i nostri ideali, i nostri singoli passi che compongono la nostra vita.
Fondamentale resta la conoscenza dei manuali, delle tecniche, delle regole per utilizzare al meglio le costose macchine fotografiche che tutti noi adoperiamo.
La ricerca dell’anima, non tralascia scampo. Per comunicare, per emozionare, per mettere in una fotografia qualcosa che parli di noi, occorre mettersi in discussione, animarsi, scaldarsi, lasciarsi pungere, trasportare, turbare…quasi la calma possa essere una vigliaccheria dell’anima diceva Tolstoj. Io direi, in questo caso, una vigliaccheria del fotoamatore! 

Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, traduzione di R. Guidieri, Einaudi, pp. 130, ISBN 88-06-16497-X.

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