Abbiamo già visto come le manovre che stanno alla base della funzione istituente servano al riconoscimento come ‘scuola’ dei luoghi in cui si fa lezione sia da parte dei genitori e della società, sia al loro interno da parte dei docenti e dei discenti. E abbiamo visto come tali manovre nella vecchia scuola di fatto quasi sempre coincidessero con quel piccolo gesto sacerdotale da parte del docente, l’apertura del registro, così discreto ma pure così efficace da predisporre immediatamente tutti i presenti al silenzio. Mentre nella nuova scuola il docente per ottenere lo stesso effetto deve ricorrere a gesti molto più ostentati, ed a volte imploranti.
Ma oggi come ieri le manovre istituenti di per sé non bastano ad introdurre i discenti alla lezione. Prima che cominci la ‘lezione’ – qui intesa come doppia lettura che di un determinato argomento scolastico fanno a turno sia i docenti che i discenti – è necessario ottenere l’attenzione da parte dei propri interlocutori. Cosa più facile se l’ascoltatore è il docente, molto meno facile se l’udienza è rappresentata dai singoli discenti e dalla classe nella sua interezza.
Per catturare l’attenzione dei discenti il docente deve cercare di avvincerli, di affabularli in modo che essi si appassionino alla lezione. Käes chiama ‘funzione illudente’ questo esercizio affabulatorio che vede il docente impegnato a catturare l’attenzione della propria classe, e che in un lavoro di una quindicina di anni fa ho cercato di paragonare all’attività del raccontatore di fiabe ‘in situazione’.
La differenza fra la posizione del docente in questo momento e quella del raccontatore di fiabe è che mentre il secondo solitamente non fa molta fatica ad ottenere l’attenzione da parte della propria ‘udienza attuale’, il primo invece si: perché solitamente l’argomento è meno avvincente; perché in alcune materie – quelle, come matematica, con un tasso di didascalicità più elevato rispetto all’area linguistica – almeno apparentemente ci sono scarsissime possibilità di avvincerla[1].
In entrambi i casi però lo sforzo è il medesimo, e consiste letteralmente nella capacità di in\ludere la propria udienza, la propria classe: cioè di introdurla in un gioco che per il raccontatore in situazione è il racconto di ‘storie’ naturalmente affascinanti; per il docente è una delle tante arti del buon parlare capaci di ottenere l’attenzione – possibilmente di tutti o almeno dei più – intorno all’argomento all’ordine del giorno.
È chiaro che, anche senza rendersene conto, nel fare questo tipo di operazione illudente il docente usa degli artifici didattici che gli vengono in termini intuitivi non solo dalla sua esperienza attuale di docente, ma anche da quella passata di discente, ed a volte anche da quelle di genitore o di figlio. Non è un caso che molti docenti, interrogati in proposito, si riferiscano a questo tipo di “apprendimento” della proprie capacità in\ludenti, più che alle lezioni di didattica apprese a scuola. Anche perché – almeno in Italia – molti di essi, pur essendo docenti, non hanno mai fatto un corso di didattica.
Ciò che attraverso l’intuizione i docenti (come i raccontatori in situazione) colgono sono alcune cose alle quali spesso non si fa caso in termini riflessivi: – le possibilità offerte dalla liminarità del luogo; – la capacità di lettura di ciò che la propria udienza attuale, cioè la classe che ‘ora’ essi hanno di fronte, vuole sentirsi dire; – la capacità di contaminare il testo della lezione con ciò che di più personale ed avvincente il docente ha.
Riflettendoci un momento converrete con me che, mentre nel caso della funzione istituente la vecchia scuola era avvantaggiata nei confronti della nuova scuola, nel caso dell’esercizio della funzione illudente avviene il contrario.
Non è un caso che la vecchia scuola sia stata definita una “macchina del vuoto”; che nel nostro caso significa un luogo in cui il docente – al riparo della sacralità della sua posizione, della selezione di censo sulla quale si fondava la vecchia scuola e dell’alleanza a priori con i genitori – poteva passare alla lezione senza preoccuparsi eccessivamente del fatto che gli studenti seguissero o si appassionassero alla materia.
Nella nuova scuola, e nella nuova classe invece la posizione di minore liminarità del luogo implica un continuo sforzo per ripristinare quella membrana gruppale illudente che fa da contenitore dell’operatività condivisa.
La flessibilità dei programmi permette, e direi impone una più personale interpretazione di ciò che il docente vede nella materia e nella lezione che ha preparato per la propria classe attuale, in modo da renderla più avvincente.
E questo sforzo, che è un tuffo dentro se stessi alla ricerca di materiale adatto ad istoriare la lezione con contenuti appetibili, lo costringe ad un continuo lavoro di immersione dentro se stesso alla ricerca di elementi capaci di suscitare interesse alla lezione, e -subito dopo- di emersione attraverso l’espressione di un testo che a quel punto è una lezione personale ed avvincente.
Resta inteso però che, in assenza di questo sforzo personale, il passaggio dal rituale pedagogico alla isterizzazione della scena scolastica pone il docente odierno molto più esposto all’insuccesso, poiché la sua lezione risulta scarsamente capace di avvincere la classe. E questo, in un clima in cui la selezione di merito incide (ancora) sulle attese di mobilità verticale delle famiglie, ai loro occhi, e a quelli dei loro figli lo rende come minimo superfluo.
[1] Sappiamo invece che anche il testo più didascalico si presta ad una certa esteticità: un mio amico, docente di matematica infatti, ascoltandomi su questo punto, mi ha detto che questa è la didattica che traspare dai testi di matematica cinesi o svizzeri.
Encomiabile lo sforzo di
Encomiabile lo sforzo di rendere efficace l’insegnamento, utilizzando anche modalità in/”ludenti”.
Penso tuttavia che la modalità per un insegnamento efficace non stia solo e soprattutto nel trovare tecniche che possano meglio di altre attirare l’attenzione dei discenti concependo e ritenendo questi ultimi come recipienti passivi, vuoti, amorfi e “incolori” che bisogna plasmare, “formare”, modellare… per favorire in loro il “sapere”. Il lavoro principale dell’insegnate a mio avviso sta nell’aiutare i discenti a scoprire/riscoprire dentro di loro i contenuti del sapere da apprendere. Non dovrebbe essere l’insegnante che “insegna” (come un travaso dalla damigiana alla bottiglia) le conoscenze , ma colui che fa da “tramite” tra i discenti e il “sapere”. Non si può insegnare qualcosa a qualcuno se questo non lo vuole apprendere. Si può aiutarlo a scoprire dentro di sé ciò che vuole apprendere. In/ludere i discenti (anche con finalità encomiabili) penso che sia un’azione “devastante” per la crescita e la maturazione di un ragazzo che si abituerà ad assecondare principi e valori altrui e non ad una costruzione di propri. Il passaggio dalla vecchia “scuola” ad un modello diverso d’insegnamento penso debba consistere proprio in questa modalità che magari ancora gli insegnanti non hanno.
caro giuseppe, mi riferivo
caro giuseppe, mi riferivo solo a quel momento che serve a far nascere una membrana gruppale illudente: cioè ad essere complanari rispetto all’udienza. Poi è chiaro che si tratta di uno scambio: di uno scambio ineguale, però: cfr: https://www.academia.edu/8065674/Docenti_e_discenti_un_esempio_di_scambio_ineguale –
E’ per questo che uso il termine “lezione” come duplice “lettura”: quella che dal docente va al discente e quella che il discente rimanda al docente.
Grazie comunque per l’attenzione!! ciao! Dino