Percorso: Home 9 180X40 - Quarant anni della Legge Basaglia 9 LA GUARDIA DI NATALE….

LA GUARDIA DI NATALE….

26 Dic 17

A cura di gilbertodipetta

Guarda i muscoli del capitano, 
tutti di plastica e di metano. 
Guardalo nella notte che viene, 
quanto sangue nelle vene

 
F. De Gregori
 

Dal tardo pomeriggio di oggi un bianco airone guardabuoi è sceso e passeggia nel giardino dell’SPDC. Forse ha trovato, solo presso di noi, rifugio dalla colonia felina allevata dal personale del PS. Stanotte, 24 dicembre, tocca a me. E’ la guardia di Natale, quella della Notte Santa. Quella che ognuno vorrebbe evitare. Una congenita repulsione per i convenevoli sociali e familiari e il fascino che hanno le ore “sacre” trascorse en attendand Godot  mi spingono ad offrirmi volontario, da sempre, per la guardia delle guardie, quella della Notte di Natale. Da giorni il grande abete decorato e illuminato, preparato dalle amorevoli mani della caposala, fa mostra di sé nell’androne del reparto. Accanto un presepe stile San Gregorio, tutto di sughero, che mi fu regalato da uno dei miei tossici, aspetta che il bambinello ligneo venga deposto nella paglia a mezzanotte. Condivido questa notte che mi accingo a vivere, con circa trecento colleghi : sono coloro che, negli SPDC italiani, rimarranno a presidio della follia acuta dei nostri pazienti o, in alternativa, della follia del mondo. Trecento era il numero dei seguaci di Carlo Pisacane  (eran trecento, eran giovani e belli…..). Trecento era il numero degli Spartani che pretendevano di fermare i Persiani alle Termopili. Nel 480 avanti Cristo, nel corso della seconda invasione persiana della Grecia, non si sa quanto grande fosse il numero di Persiani, secondo le stime maggiore anche 800.000. Trecento guerrieri spartani, bene addestrati e motivati, contro un numero incalcolabilmente superiore di Persiani. Stanotte, in Italia, siamo circa trecento psichiatri che si preparano a far fronte alle crisi psichiche e comportamentali che possono esplodere in una popolazione di 60 milioni di Italiani, più immigrati vari, e più turisti presenti in questo momento nel nostro Paese. Trecento rapportati a Sessanta milioni. Non sto qui a fare valutazioni di qualità. Ognuno di noi 300 dispone, mediamente, di 10 posti letto (chi 15 e chi 5), di cui oltre i due terzi già occupati. Se non tutti occupati. Siamo gli unici, noi trecento, stanotte disponibili ad ogni ora, per un colloquio, per una prescrizione, per una telefonata, per potere di effettuare un TSO. Dunque saremo noi i terminali della corsa “salvifica” in ospedale, quelli che faremo diagnosi differenziali affrettate, che inietteremo fiale con il cuore sospeso, che ci assumeremo la responsabilità di accogliere (di fermare) o di rimandare (di liberare), di far smanettare o di contenere. 118 e forze dell’ordine raccoglieranno e porteranno, il PS effettuerà il triage, e poi toccherà a noi. A noi che stanotte non possiamo rimandare a nessun altro, dietro di noi. Tra pochi giorni sarà il 2018. Entreremo nel 40esimo della 180 (1978-2018). Sembrava ieri. Avevo quattordici anni e il cappellano del Manicomio, padre Nunzio, si portò, in quel mese di maggio, era da poco stato trovato il cadavere di Aldo Moro, le mani ai capelli, mormorando le parole di Kurz in Cuore di tenebra : “Che orrore..che orrore”. Invece fu la svolta. La vera prima nascita della psichiatria italiana che si impose all’attenzione del mondo.  Oggi, dopo quarant’anni, i centri crisi territoriali a 24 ore hanno chiuso quasi dappertutto.  E’ difficile, per un cittadino italiano la cui mente andrà in pezzi stanotte, poter avere uno psichiatra pubblico al proprio domicilio. Se viene chiamato il 118, il viaggio in PS è scontato. E il ricovero segue quasi di conseguenza. La fortuna mia di stanotte è che la pietas dei familiari ancora disponibili ha deciso di prendersi per Natale qualche paziente dei meno acuti. Ieri, durante le mie dodici ore diurne, ne ho dimessi due, che in giorni non prossimi al Natale nessuno si sarebbe sognato di riprendersi. Pertanto stanotte avrò disponibilità di posti sia per il PS che per la Centrale Operativa Regionale. Sono adeguati 300 psichiatri per 60 milioni di Italiani? Non lo so. Lascio la risposta agli epidemiologi e ai verificatori di qualità. Mi pongo, invece, un altro interrogativo. Chi sono i trecento psichiatri che con me condivideranno questa notte? Vorrei stringerli tutti con uno sguardo, con un abbraccio. Li sento tutti come fratelli, minori o maggiori. Siamo fratelli senza più padri. Fratelli senza protocolli che tengano, che ad ogni notte ci giochiamo tutto. Noi, sperimentando una solitudine che è difficile sia capire che condividere, ci inventiamo la psichiatria dell’emergenza, la grande dimenticata di tutta questa storia. Come se l’emergenza psichiatrica fosse una faccenda da sbrigare al meglio possibile, turandosi un poco naso e bocca. L’altra sera una collega a cui ho dato lo smonto mi ha detto: “Cosa c’è di così fine nell’emergenza psichiatrica domiciliare per cui dovrebbe farla uno psichiatra…si tratta solo di prendere il paziente e di portarlo in ospedale. Punto e basta.” Sarebbe bello, piuttosto, se ognuno di questi miei fratelli ignoti e solitari di stanotte raccontasse, come in un ruolino di marcia, la propria guardia. Avremmo una foto estemporanea di cosa è accaduto nel nostro Paese la Notte di Natale del 2017, a quaranta anni dalla 180. Avremmo un carotaggio. Quando dico noi, dico noi degli SPDC a cui afferisce un PS. Non gli universitari, non quelli delle cliniche private. Quanti di questi colleghi che stanotte sfidano la sorte sono avvisisti? Quanti sono specialisti ambulatoriali? Quanti sono colleghi del territorio a cui è toccata in sorte? Quanti sono colleghi degli SPDC? C’è qualche responsabile di SPDC stanotte di guardia? Arriverà la telefonata di qualche direttore di DSM per gli auguri agli sfigati di turno? Che età media hanno i colleghi di stanotte? Sono i più giovani? Sono quelli più votati ad una psichiatria medica? Sono quelli che hanno sortito il turno a tombola? Sono quelli che hanno meno affetti familiari che li reclamano? Tra di loro c’è chi lo fa a straordinario? Tra di loro c’è qualcuno che ha scelto di fare la notte di Natale da volontario? Per stare con i pazienti? Ad ogni modo, mentre faccio queste considerazioni, mi anticipo per andare in ospedale. Bacio e abbraccio il mio vecchio, con cui ho pranzato, e mi avvio. I centri urbani in queste ore sono un deliquio di vetture bloccate nel traffico, con luci intermittenti qua e la, ogni anno sempre meno festose, in questo Sud depresso e incapace di rialzarsi. Il tempo di prendere un dolce da Ciro per gli auguri di mezzanotte con la squadra e un panettone per i pazienti e via. Mi svincolo piano piano e poi mi perdo sugli assi mediani, le strade che portano al nulla, per coprire i 40 chilometri che rappresentano il raggio minimo di questo territorio sterminato. Sembra che siano tre i DSM italiani superiori ad un milione di abitanti. Il mio è uno di questi. Mentre guido attraversando la terra dei fuochi, mi abbagliano le luci delle decine di centri commerciali che hanno costruito da queste parti. Queste immense distese piane di terra, tra la catena degli Appennini e il mare Tirreno, erano la Campania felix del Romani, poi terra di lavoro, poi i granai del regno borbonico, ora solo una assurda Waste land  di degrado assoluto, degna di Brecht e di Eliot. Mentre finalmente la Land Rover corre sull’asfalto dissestato, sento Francesco De Gregori dall’autoradio : “Questa nave fa duemila nodi, in mezzo ai ghiacci tropicali, ed ha un motore di un milione di cavalli che al posto degli zoccoli hanno le ali. La nave è fulmine, torpedine, miccia, scintillante bellezza, fosforo e fantasia, molecole d'acciaio, pistone, rabbia, guerra lampo e poesia. In questa notte elettrica e veloce…”. In questa notte elettrica e veloce, avverto, effettivamente, stasera, l’isteria collettiva che spinge tutti a muoversi verso qualcosa. Sfiora la mente del cittadino qualunque, del borghese cristiano (come lo chiavava Kierkegaard) che si prepara ad officiare il mitico cenone della Vigilia che stanotte qualcuno potrà impazzire?  Stanotte il mio SPDC sarà la fortezza Bastiani nel deserto dei Tartari o diventerà linea Maginot? Quando arrivo l’ospedale è immerso nel buio, parcheggio, mi porto in reparto, passo il badge, ma non trovo la collega. Brutto segno. E’ già da qualche tempo in PS. Due infermieri si apprestano rapidamente a raggiungerla. Indosso una felpa blu con il mio nome cucito sopra e mi unisco a loro. Miki è un uomo di mezza età, tarchiato, con gli occhiali. E’ agitato, cammina avanti e indietro, si muove su se stesso, fa per andarsene e poi rimane. Fa per rimanere e per andarsene. Si toglie e si mette il piumino. Si droga della dopamina che il suo surrene produce. “Il sistema sta punzecchiando la mia famiglia composta da quattro persone…” E’ un infermiere professionale che lavora a partita IVA. Non ha mai voluto sottomettersi a padrone, perciò non ha fatto i concorsi nel pubblico. Stasera è il Messia, sta raccogliendo i buoni della terra per rovesciare il sistema. Ricordo però che Cristo, quando gli chiesero se voleva rovesciare il potere costituito per instaurare il suo regno, rispose che il suo regno non era di questo mondo. Invece Miki si sente una macchina, una macchina potentissima, capace di rovesciare tutto. Di vincere al Lotto. Il suo nome è l’Illustre, ed è in contatto telepatico con un professore americano che si chiama Illustre. Con lui tiene lunghe conferenze sul ruolo perverso dei social media. Non capisco se l’Illustre è un alter ego, un alias, o è proprio lui, in una delle sue infine declinazioni identitarie, alla Fernando Pessoa. Non vuole ricoverarsi, non accetta terapia. E’ accompagnato dal fratello, sbigottito. La moglie sta ferma al triage. Ha due figli ormai grandi che lo disconfermano nella sua autorità. Stasera hanno chiamato il 118 e riunito i fratelli perché erano esasperati, diceva cose sconclusionate e minacciava la strage. Espletati gli esami veniamo al momento critico. TSO o TSV? Seguono momenti di tensione e tentativi di sdrammatizzazioni dei nostri infermieri. Nel frattempo la scena si è spostata nella sala medici del nostro reparto. Miki si toglie l’orologio di acciaio dal polso, lo poggia sulla scrivania, ti fissa negli occhi e fissa il tempo. In dieci minuti vuole essere fuori. Scrivo su un foglio di carta che piego la terapia da somministrare e Gennaro entra veloce in reparto per preparare la fiala. Il gioco continua. Il fratello capisce e non capisce la gravità della situazione. Miki è palesemente  incongruo. Ma ha un’unica certezza : vuole andarsene. Quando il fratello si rende conto della situazione e lo esorta a rimanere gli risponde : “Ma la notte del 24 mi lasci qua? Hai questo coraggio?”
La notte del 24….
Che cosa ha questa notte di così magico per cui non si può neppure impazzire stanotte? Che miracolo, che da migliaia di anni, dalla festa del solstizio pagano al Natale cristiano, questa notte non è una notte come le altre?In fondo è l’avvento del’inverno, ma è anche la sua crisi dell’inverno. E’ la rinascenza della luce dall’oscurità fredda della tenebre. Prima di entrare ho dato uno sguardo alla luna, appesa come una cometa sul corpo basso dell’ SPDC, è una luna crescente. Ad inizio del 2018 avremo la luna piena.  “Caro Miki”, vorrei dirgli, “tu hai ragione. Ma perché proprio stanotte esplode la miccia che da tanto tempo ti ardeva nella testa”? Dopo estenuante trattativa Miki accetta di praticare la fiala e si avvia in reparto accompagnato dagli infermieri. La sua resistenza oppositiva cede. In questa fasi il tono della voce e l’atteggiamento da parte degli operatori sono tutto. Di chi ci si può fidare, in fondo, la notte di Natale, come l’airone bianco atterrato nel nostro SPDC, se non, paradossalmente, di sconosciuti non compromessi ancora dalla logica del male? Facce che, in fondo, sanno bene cosa ti sta accadendo, eppure non lo sanno. Non lo sanno fino in fondo. Sanno, però, che è meglio che stanotte tu rimani qua. Che ti accolgono, con dolcezza e con fermezza. Come si mescolano la dolcezza e la fermezza? Quali sono le proporzioni giuste? Quando Miki entra in reparto il fratello scoppia a piangere. “Cosa ho fatto…, cosa ho fatto a mio fratello la notte di Natale?”. Tra i singhiozzi viene fuori la memoria di un fantasma, lo zio, fratello del padre, scomparso alla fine del secolo scorso dall’ospedale psichiatrico collinare, quello allora diretto dal leggendario Sergio Piro. Scomparso e non più ritrovato. Anche Sergio se ne è andato. E se ne è andato solo. Suonando il pianoforte a Santa Lucia, come il pianista sull’Oceano. Eravamo pochi quella mattina all’ultimo saluto. E Psichiatria Democratica non c’era.     

Non so questo airone che è venuto a farci compagnia che cosa rappresenta.  Se lo spirito della libertà, che contrasta con le grate della follia, o se qualcuno dei pazienti lo vivrà come un’apparizione allucinatoria, ovvero come l’ho vissuto io. Non so. Alle 22.00, Miki è appena entrato in reparto ed ho preso congedo dal fratello e dalla moglie affranti, che mi arriva una telefonata. E’ da Procida, l’isola di Arturo. Un figlio mi chiede se è possibile ricoverare la madre. Gli chiedo se hanno contatti con il DSM. Mi risponde : “Qui siamo abbandonati. Molti di quelli seguiti dal CSM competente per territorio (che non sta sull’isola) si sono suicidati. Io non vorrei che mia madre si suicidasse”. La telefonata prosegue  a lungo, nella notte di Natale. Lo calmo. Gli do una disponibilità per i prossimi giorni. Che può significare semplicemente parlare a telefono con uno che ti capisce la notte di Natale? Perché questa funzione cruciale deve ricadere su chi fa la guardia in SPDC? Quanto mrdente ha perso il CSM smettendo di funzionare a 24 ore e diventando la succursale di un ambulatorio distrettuale? La madre ha avuto vari TSO. Vorrebbe che questo, per questo Natale,  fosse almeno un TSV. Abbiamo una trans, in reparto, Marika, in esordio psicotico. E abbiamo un tossico all’ultimo stadio. Si aggira confuso per il reparto.  E poi c’è Immacolata. Ridotta ad uno scheletro. Piccola e incartapecorita, con il cappuccio bianco in testa, il viso affilato, sembra una foglia secca del bosco. Si è indotta un coma da iponatremia bevendo trenta litri di acqua al giorno. A quarant’anni dalla 180, la malattia mentale, che doveva non esistere, continua ad esistere. E noi dove siamo, quanti siamo, in cosa crediamo?   Miki alla fine  è in reparto. Adesso riposa. Dopo tre ore di lavoro il farmaco ha fatto il suo effetto. Adesso la tranquillizzazione chimica, il sonno chimico sono lentamente subentrati allo sconvolgimento della follia. Il sonno chimico riporta il silenzio. Siamo tutti devoti all’altare della clorpromazina, sempreverde dal 1952. La tranquillizzazione è arrivata sull’onda della fiducia. Il Messia si è consegnato, alla fine, docile, al sacrificio di sé. Mi domando come sarebbe stato se, come accadeva fino a qualche anno fa, stasera invece del 118 sarebbero intervenuti a casa di Miki due infermieri ed uno psichiatra. Mi domando se questa crisi non era gestibile a domicilio. Da queste parti l’arrivo di un’ambulanza nel quartiere per prelevare il matto equivale ad uno stigma eterno. Certo, qui abbiamo fatto gli esami di sangue, abbiamo controllato il QT e il QTc, non temiamo reazioni avverse perché abbiamo la rianimazione. Siamo tutti più tranquilli. E’ questa la psichiatria che volevamo quaranta anni fa? La psichiatria della tranquillizzazione reciproca? Io ero ragazzo, ma non mi sembra che volevamo questo. Il fratello voleva portarselo, ma non se lo sarebbe portato a casa propria. Lo avrebbe riportato alla sua famiglia. Solo allora ha realizzato il pericolo. La moglie era veramente sconvolta per i discorsi fatti da Miki. Solo allora il fratello ha accondisceso. Con la trattativa intavolata, con il dialogo, alternando fermezza e dolcezza in quella miscela che non sapremmo mai più ripetere, senza recitare mai lo stesso copione, alla fine siamo riusciti ad evitare il TSO. Questa, solo questa, per ora, è la vittoria di stanotte.
A mezzanotte uno scambio di auguri con la squadra. Ci mettiamo i cappellini rossi con il pon-pon per sentirci più in atmosfera. A me tocca la barba bianca. Marianna depone il bambinello nella mangiatoia. Me lo aveva portato mia madre da Gerusalemme. Rimettiamo a letto gli ultimi girovaghi del reparto, facciamo ancora tra di noi il punto della situazione. Verso l’una mi ritiro. Comincio a scrivere il diario della notte, passate le tre le palpebre mi si chiudono. Alle cinque il cicalino trilla. Mi ero appoggiato da poco. Stavo sognando. Due enormi otri di terracotta, antichi, graffitati, retti da un’armatura di ferro battuto. Stavo cercando di decodificarne l’epigrafe. Cosa sono questi otri? Cosa contengono? Perché così grandi? Cosa nasconde l’enigma della scritta in sanscrito? Quando stai sognando il cicalino penetra nel sonno e nel sogno. Il risveglio comporta che il sogno effonde nella veglia. E’ il collega del PS. Un uomo di circa quarant’anni, Giosi, accompagnato da 8 carabinieri, ammanettato. Ha rotto il braccio alla madre, durante una colluttazione che avuto il suo apice al termine del cenone della vigilia. Sconosciuto ai servizi. Mi predispongo ad affrontare l’impatto con il freddo. Uscendo le luci intermittenti dell’abete mi ricordano che è Natale. L’erba delle aiuole è coperta di una brina cristallina e ghiacciata. La luna mi sembra cresciuta ancora, stanotte, di un altro spicchio. Ma forse sono io che vedo le cose più grandi. Il PS mi accoglie con un’onda di calore. Il ragazzone è corpulento, parla correttamente l’italiano, un italiano scandito, come di chi parla poco o di chi è stato a lungo all’estero. Non ha molto voglia di parlare. Ma si lascia fare il prelievo ematico e l’elettrocardiogramma. Chiedo pure DAU. Parlo con due giovani uomini che lo hanno accompagnato, imparentati. Mi descrivono la classica cena di Natale, la famiglia riunita, il classico palazzielllo di queste zone dove vive la famiglia trigenerazionale-allargata. Il palazziello è la cellula della nuclearità e dell’inedia italiana, o di sicuro meridionale, ovvero la coagulazione del microclan familiare. L’unica città stato affettiva e vischiosa che ancora resiste alla globalizzazione, l’unico welfare, il pozzo di San Ptrizio delle contraddizioni invevase, delle autonomie impossibili, delle separazioni e delle individuazioni congelate: il palazziello di famiglia dove nonni genitori e figli convivono dislocati ai vari pianerottoli..odiandosi e amandosi.  Per un lavandino otturato, stanotte, a mezzanotte e quarantacinque, dopo che si è mangiato e bevuto, è degenerata la discussione. La belva della follia, che covava strisciante da anni, è venuta fuori. Si è scatenata una vera e propria paranoia da combattimento. La madre, mater familias, madre, grande madre e regina della notte, ha cercato di interporsi tra il colluttanti, e il satana imbestialito con uno spintone l’ha fatta volare contro gli spigoli dei mobili. Quando la paranoia esplode nel suo ultimo atto, neanche la mater familias, la mater matriarca mediterranea, Demetra o Cibele, colei che tutti castra, colei che, come la provvidenza manzoniana, atterra e suscita, affanna e consola, è riuscita più a frenare il vento della pazzia. Rovinando contro i mobili e a terra si è fratturata braccio e costole. Il resto è cronaca, sirene spiegate nella notte. Due pattuglie dei carabinieri addosso più i parenti non lo fermavano. Il bestia ha dato addosso anche ai carabinieri ingiuriandoli. Due ambulanze del 118. La famiglia che si divide tra due pronto soccorsi. Ortopedico e psichiatrico. Che epilogo di Natale. Giosi è vissuto a Londra. Come ormai tanti di queste parti. Faceva il lavapiatti. Torna qualche anno fa e da allora non esce più di casa. E’ perseguitato da un ignoto. A nessuno rivela l’identità dell’ignoto che lo perseguita. E’ nato nel 1978. Festeggerà, il nostro Giosi, i quarant’anni della 180 inchiodato al  letto di un SPDC, stanotte, con la madre che lo denuncia, in un altro ospedale, per lesioni personali gravi, un processo ed un arresto che lo aspettano Quando rientro in reparto, scendendo dall’ambulanza che trasporta Giosi, accorgo che è l’alba. Il tubare, uguale e insistente, delle tortore mi segnala repentinamente che è l’alba. Come il grido rauco del gabbiano risvegliò Soreen, ricordandogli che era solo. E’ finalmente l’alba. E’ comunque l’alba di un mondo diverso. “Il capitano non tiene mai paura, dritto sul cassero, fuma la pipa, in questa alba fresca e scura che rassomiglia un pò alla vita”. Dal giardino dell’SPDC l’airone non c’è più. Si è dimesso volontariamente, come volontariamente si era ricoverato. Sei fuggita altrove libertà? Lo smonto arriva puntuale, alle otto. Sono riuscito almeno a fare una doccia calda e a sbarbarmi. Oggi è Natale. Buon Natale a tutti. Anche ai miei trecento ignoti compagni di nottata. Prendo la Tangenziale attraversando sui viadotti una città addormentata. Deserta. Dov’è finita la notte elettrica e veloce? Dove è finito il Novecento?  La nebbia fascia il lago d’Averno come in una gouache del Settecento napoletano. Le isole nel mare come perle nella nebbia, che circonda i Camaldoli, il Vomero e Capodimonte.  “E il capitano disse al mozzo di bordo: "Signor Mozzo, io non vedo niente. 
C'è solo un pò di nebbia che annuncia il sole. Andiamo avanti tranquillamente". 


 

 

 

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4 Commenti

  1. admin

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    PSYCHIATRY ON LINE ITALIA HA BISOGNO DELL’AIUTO DEI SUOI LETTORI PER CONTINUARE AD OFFRIRE I SUOI CONTENUTI SCRITTI E I SUOI VIDEO.
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    Grazie per ciò che farete, grazie dell’attenzione.

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  2. c.pontalti

    Buon Natale fatto, si dice a
    Buon Natale fatto, si dice a Roma, mio caro Gilberto capitano,. e buon anniversario alla legge 180. Sarà un anno di celebrazioni, di parole e parole e parole. Dov’è il gabbiano della nostra gioventù?

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    • gilbertodipetta

      Quel gabbiano non ha più le
      Quel gabbiano non ha più le ali. Ma quel gabbiano è le ali…..
      Buon anno Corrado, Maestro e Compagno di strada.

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  3. annalisapiergallini

    Davvero molto bello questo
    Davvero molto bello questo testo, limpido.
    “…alternando fermezza e dolcezza in quella miscela che non sapremmo mai più ripetere, senza recitare mai lo stesso copione…”
    Nulla si ottiene se si prova a copiare, in fondo a fuggire, da lì dove siamo pagati per essere;
    nell’emergenza non si può dimenticare, nel quotidiano, alla fine, pure

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