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La legge, la giustizia e l’hubris: Il caso Mimmo Lucano

9 Ott 21

A cura di Sarantis Thanopulos

L’“hubris” è un concetto fondamentale nella definizione della giustizia, mai preso in considerazione dai sistemi giuridici. Per la nota discrepanza tra giustizia e legge. Nel greco antico il termine indicava la crescita rigogliosa di una pianta che invade e impedisce lo sviluppo delle altre piante. Esso designava metaforicamente l’eccesso di protervia che porta ad oltrepassare la misura. La legge punisce l’infrazione delle regole, ma non contempla come suo oggetto diretto il superamento del limite. Spesso è essa stessa hubris, specie nei paesi oligarchici, ma anche in quelli democratici. Di ciò è un esempio grave la pena di morte. Nel nostro paese ha superato i limiti etici, nonché quelli stabiliti dalle leggi internazionali di soccorso, la legge Severino.

La giustizia è la forza che si oppone al venir meno del senso della misura. Più grave è il superamento della misura (da sempre legato al diritto di chi è senza scrupoli, del più spietato), più forte è l’opposizione tra il suo autore e la società dei giusti, la comunità della Polis democratica. Giusto e democratico è ciò che si compie con misura, equilibrio secondo le regole che in origine erano quelle della musica, del canto degli uccelli (Monica Ferrando). Più la legge si allontana dalla giustizia, più è hubris in se stessa. Nessuna logica giuridica la può assolvere del danno che infligge alla natura più intima e inviolabile delle relazioni umani da cui emanano i diritti umani, valori etici al di sopra di ogni altro diritto e di ogni legge. Si tenga presente che sulla giustizia si fonda la sanità psichica collettiva.

Nella condanna di Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di carcere, il doppio della condanna chiesta dal pubblico ministero, sono molte le cose che non convincono, a partire dalla mancata applicazione del principio del reato continuato (l’infrazione con azioni diverse, volte a realizzare un unico progetto criminoso, di una o più disposizioni di legge) e la contemporanea attribuzione del reato di associazione a delinquere a una persona a cui si riconosce di aver agito senza interesse personale. Sarà la pubblicazione delle motivazioni della sentenza a rendere più chiaro l’agire dei giudici e saranno i successivi gradi di giudizio a stabilire se essi hanno agito nel rispetto della civiltà giuridica e della legge. Esiste, tuttavia, un punto che fin da ora deve far riflettere: l’uso di un criterio computazionale nella valutazione della pena. Esso introduce una dimensione algoritmica nella gestione del rapporto tra Stato e cittadini che finora si è fatta strada in un paese non propriamente democratico, la Cina. Un magistrato non applica la legge alla lettera. Basterebbe aver letto Kafka per comprendere che non può pensare da ragioniere. Deve saper valutare le circostanze umane, i fattori sociali, culturali, politici e psicologici di cui la legge non tiene conto. Se si parla di “spirito della legge”, è perché nessuna legge è satura e a sé stante. L’ispirazione della sua “interpretazione”, che spetta a un soggetto responsabile, è la giustizia, il sapere condiviso su ciò che è umanamente sensato, misurato. Condannare un uomo dignitoso, incensurato, povero di sostanze materiali a una pena degna di un mafioso è, nella migliore delle ipotesi (in attesa di vedere confermata la validità del dispositivo della sentenza), un eccesso di “accanimento terapeutico”, un’ammonizione educativa nei confronti dei cittadini francamente, totalmente fuori luogo.

Sul piano della giustizia, la sentenza nei confronti di Mimmo Lucano è hubris.

I giudizi non devono ergersi al di sopra del senso della misura. Devono valutare in modo equilibrato, sereno. La serenità del giudizio non significa assenza di sofferenza psichica. Tra i servitori della città c’è molto più senso di responsabilità in chi soffre rispetto a chi dimentica la condivisione dei valori universali, convinto di stare bene con la propria coscienza.

 

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