Pietro, settant’anni (mio coetaneo, quindi), professore di Lettere e Filosofia in pensione, mi interpella per un problema legato a uno stato di insonnia all’addormentamento.
“Non le chiedo farmaci”, mi dice. Quelli cerco di evitarli, perché mi sono documentato e ho capito che inducono tolleranza, con la conseguenza di aggravare l’insonnia. Mi rivolgo a lei per cercare di risalire alle cause di una mia specifica forma di angoscia, così come facevo tanti anni fa, quando mi sottoponevo a un’analisi durata poi dieci anni”. Mi fa il nome dell’analista che l’ha avuto in cura per così lungo tempo, verso il quale conserva un rapporto di devozione e gratitudine, e capisco le ragioni per le quali la ripresa di tale rapporto non sarebbe oggi più possibile.
“Quello che mi accade è che se la sera stento un po’ ad addormentarmi, vengo colto da una forma di angoscia che mi tiene sveglio tutta la notte, o per lo meno fino a quando crollo, alle prime luci dell’alba.
È un’angoscia molto spiacevole, e spesso comincio a temerne l’insorgere la sera, subito dopo cena. Rimango nervoso e depresso. Poi vado a letto, e inizia il tormento. A volte, invece mi addormento subito, e allora dormo profondamente fino al mattino, risvegliandomi ben riposato. Altre volte, infine, mi capita di addormentarmi subito, ma di svegliarmi verso le cinque del mattino, magari alla fine di un sogno.
Il fatto curioso è che l’insonnia mattutina non mi provoca alcuna angoscia. Rimango sveglio, mi metto a pensare a cose che mi fanno piacere o che stimolano la mia creatività (Pietro è uno scrittore dilettante che produce novelle di una certa introspettività e bellezza stilistica). A volte mi alzo e mi metto a scrivere. Aspetto il sorgere del sole con tranquillità. A volte, persino con allegria”.
“Mi rivolgo a lei, prosegue, perché mi sono ricordato di qualcosa della mia infanzia che mi pare abbia relazione con la mia insonnia. Avevo pochi anni, forse cinque o sei (mio fratello nacque cinque anni dopo di me), quando trascorsi un lungo periodo soffrendo la medesima angoscia all’addormentamento che provo ora. Proprio uguale.
Per lungo tempo avevo richiesto la presenza di mia madre accanto, al momento del sonno. Mi addormentavo massaggiandole il bulbo oculare “come se fosse un capezzolo” (questo me lo diceva il dottor M., l’analista precedente). Mia madre sopportava pazientemente, tenendo una palpebra chiusa.
Poi accadde qualcosa che non so, le abitudini cambiarono. Forse fu per la gravidanza di mio fratello, o forse perché i miei ritennero che fosse giunto il momento di svezzarmi. Cominciarono a lasciarmi sveglio nel letto, e io iniziai a non dormire.
L’insonnia era qualcosa che mi spaventava molto; e l’idea di andare a letto (sempre molto presto, come pretendeva mia madre) divenne presto un vero e proprio incubo.
Ricordo bene un dettaglio. All’epoca usavo dire le preghiere prima di addormentarmi. Per tutta la loro durata mia madre restava con me, facendomele ripetere e invocando benedizioni per tutti i numerosi parenti, una sfilza che allungava un po’ il momento del distacco. Siccome allora parlavo con il Signore Iddio dandogli, correttamente, del Voi, concludevo sempre le preghiere con le parole: “fate che mi addormenti”. Ma quell’invocazione, per un tempo che allora mi sembrava interminabile, non sortiva effetti degni di nota. Era diventata parte di un rituale.
D’altra parte, mia madre voleva che dormissi, e credo che qualche volta abbia risposto a quella mia difficoltà con irritazione.
Mia madre aveva per il mio “andare a dormire presto” una vera e propria “mania”, una specie di ossessione.
Il silenzio scattava alle otto e mezza, le venti e trenta. A quell’ora bisognava essere a letto. Poi la Rai mise in onda “Carosello”, e allora quello divenne il contentino della buonanotte. Però ricordo distintamente che sia io che mio fratello, mentre i “grandi” rimanevano comodamente seduti davanti alla TV, ci alzavamo e ci dirigevamo alla camera da letto marciando come soldatini. Era questo, probabilmente, un modo di protestare, peraltro inascoltato. Bisognava obbedire, e basta.
Però la cosa si protrasse a lungo. Avevo già quattordici anni, quando la tromba del silenzio continuava a suonare sempre alla stessa ora.
Ricordo che all’epoca, l’estate, in campagna, tutti i bambini con i quali trascorrevo la giornata, andavano a letto dopo di me. Un’estate, poi, mi innamorai di Flavia, una ragazzina che a me sembrava (e forse era) bellissima; ma non avevo alcuna idea sul da farsi, se non confidarmi con il mio migliore amico, che, quanto a ragazze, ne sapeva ancor meno di me.
Soprattutto, Flavia non doveva intuire quello che provavo: altrimenti -ne ero certo- sarebbe stata la fine. Sapevo bene che, in qualche modo, per realizzare un sogno d’amore, bisogna a un certo punto scoprire le carte; ma mi sembrava sempre troppo presto. E così, probabilmente, Flavia non seppe mai di essere diventata l’oggetto dei miei sogni.
Ricordo ancora una calda sera d’estate, bellissima, con tutta la gente del paese, soprattutto villeggianti, comodamente seduta a godere il fresco sulle panchine della piazza della chiesa. Io mi mantenevo in una posizione un po’ defilata, rimanendo in contemplazione estatica di Flavia che chiacchierava con le sue amiche, senza farmi notare troppo. Allora, il massimo che potevo concedermi per farmi vedere un po’ (cioè: il massimo del corteggiamento) era quello di passarle davanti ostentando distrazione e indifferenza, di tanto in tanto.
A un certo punto, il campanile della chiesa suonò l’ora fatidica, e subito spuntò, dal nulla e dal buio, la mia pestifera cuginetta Benny, che con una voce incredibilmente stentorea, e decisamente sproporzionata alle dimensioni corporee di una bambina di nove anni, urlò: «Pietro! Tua mamma dice che è ora di andare a dormire! Vieni a casa subito!». La voce salì sopra il brusio delle persone presenti, e io mi sentii sprofondare. Flavia era a pochi passi, e non poteva non aver sentito. In più, mentre mi avviavo mestamente al seguito di Benny che mi riconduceva a casa da brava pastorella, sentii nettamente la voce della madre di Flavia dire in dialetto: «bambini mandati a dormire già a quest’ora! Proprio non capisco!». La frittata era fatta.
La ragione per la quale ho chiesto di incontrarla sta nel fatto che vorrei comprendere. Non le sto chiedendo di prendermi in analisi: sono troppo vecchio per queste cose. Ma vorrei capire. Perché l’angoscia che provo ora è la stessa che provavo i primi anni, in seguito trasformatasi in vergogna sociale. E ciò che mi incuriosisce di più (e che un po’ mi consola) è la differenza fra le emozioni che provo al momento dell’angoscia serale in confronto a quella mattutina.
Sà, se ci penso, la questione è complessa. Io ho insegnato Epica e Mitologia per molti anni ai miei studenti, e uno dei miti su cui tornavo più spesso era quello di Persefone. Immagino che lei lo ricordi: è un mito antichissimo che racconta, a suo modo, l’avvicendarsi delle stagioni, il rinnovarsi della vita, la semina e il germoglio, l’andare sotto terra e il tornare alla luce.
Figlia di Demetra, dea delle messi, Persefone viene rapita da Hades re degli Inferi, che la trascina nel suo mondo sotterraneo. Disperata, Demetra va a cercare la figlia, scende al Tartaro e incontra Hades, riuscendo a convincerlo a lasciar libera la sposa per sei mesi all’anno. Così, Persefone vivrà sei mesi sotto terra e sei mesi alla luce del sole, proprio come un chicco di grano.
Crede che c’entri qualcosa?
Le dirò di più. Ogni volta che viene l’ora solare io sono sempre piuttosto triste e comincio a contare il tempo che mi separa dal ritorno dell’ora legale, cioè della luce protratta fino a tarda serata.
Già il ventun dicembre, in piena “notte” invernale comincio a consolarmi pensando che le giornate si allungano. E così, il ventun giugno, in pena luce serale, comincio, magari sorridendo fra me, a pensare che il sole declina verso il basso.
Avevano ragione i seguaci di Mitra a temere che il sole sparisse, e poi a festeggiare la sua invincibilità! Anch’io sono un po’(senza esagerare) uno di loro.
Quello che però non capisco è il perché di tutto questo. Ed è qui che vorrei sentire il suo pensiero.
Crede che mia madre mi abbia inconsciamente trasmesso qualcosa di spaventoso, almeno tanto quanta era la mia paura di allora, che oggi si ripresenta? Forse un pensiero impensabile? Ne aveva abbastanza di me, dopo tante ore di luce e di accudimento? O rendendo omaggio a una parte insoddisfatta e legata a una precedente depressione post-parto, voleva rinchiudermi per un po’ in un luogo buio? Non vedermi nato, vivo, separato da lei? O aveva semplicemente paura che se non fossi stato messo sotto vuoto, avrei potuto rompermi, corrompermi, ammalarmi, morire? O questo era anche un po’ un desiderio inconfessabile? E soprattutto perché il sopraggiungere del buio mi fa ancora paura? Forse perché la mia vita inclina verso il buio?” (Anche la mia, pensai).
Lo so. Lei non può avere una risposta a tutto questo; ma mi ha fatto piacere, almeno, mettere in fila questi ricordi.
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