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LA MALATTIA DELL’IDENTICO: IL VELENO DELL’ESSERE

18 Set 15

A cura di Mario Galzigna

"Una malattia che tocca l'essenza dell'essere e le sue possibilità centrali d'espressione e che si applica a tutta una vita […] Una malattia da cui l'anima è affetta nella sua più profonda realtà e che ne infetta le manifestazioni. Il veleno dell'essere. Una vera paralisi. Una malattia che toglie la parola, il ricordo, che estirpa il pensiero" [ANTONIN ARTAUD]

Una malattia che occorre conoscere, sviscerare, mettere in scena, per poterla redimere e guarire. Iniziano qui le cronache di un Io che sprofonda e che si smarrisce. Cronache della caduta, che preludono alle cronache di una possibile risalita. Il buio angoscioso della discesa agli inferi e il chiarore rasserenante di un'ascesa risolutrice: le drammatiche dell'anima – le cronache dell'anima – giocano tutta dentro questo enigmatico contrappunto.
Se ci si allontana, solo per un attimo, dal fluire della vita – dal trascorrere ininterrotto degli avvenimenti, dal tumultuoso intrecciarsi delle azioni umane – emerge sùbito, nitida e terrificante, l'immagine di un soggetto e della sua risibile compattezza. Un profilo di fragilità, di debolezza,di assoluta e irrimediabile caducità.
Non ci conforta la possibile bellezza di ciò che è caduco. Non ci ha mai confortato, non ci ha mai accecato, l'effimero piacere dell'immanenza: la concretezza illusoria, la falsa stabilità di ciò che si vede, si sente, si tocca.
Il soggetto, l'individuo, la persona: questi concetti vuoti, queste maschere arroganti dell'identità, rappresentano lo strumento e il sostegno delle nostre paludate e superficiali certezze.
Sono concetti antichi e ingannatori, dietro i quali solo la nostra ironia, caparbia e battagliera, può farci intravvedere moltitudini, paesaggi, volti, pluralità disseminate e senza nome. Lo specchio della nostra identità ci restituisce un'immagine rifratta, spezzettata, decomposta.
Sento, assieme a Borges, "la fatica dello specchio che non si placa in una sola immagine". La fatica dipende comunque dalla vana pretesa di rinchiudere il soggetto entro l'alveo rassicurante di una sola immagine. Superare questa fatica, risolverla, significa accettare l'irruzione disordinata del molteplice, rinunciando alla pretesa di addomesticarlo, di piegarlo alla logica ormai logora di un Io coerente e unitario, di un Soggetto sovrano e fondatore. Non so se Borges volesse dire questo. Mi piace pensare che la "fatiga" di cui parla, attribuendola allo specchio, sia quella che discende dall'ostinato e morboso attaccamento all'Uno, all'IDENTICO, ai suoi presunti ed effimeri Nomi, alla sua Storia, il più delle volte angusta e menzognera.
L'incanto polimorfo dell'infanzia sfuma e si dilegua, con il passare degli anni, ed il grande poema di un IO PLURALE, sognato da Borges – "este poema de un yo plural" – rischia continuamente di sfaldarsi nella prosa del mondo, o di annullarsi nella trivialità del quotidiano e delle sue norme. Occorre, oggi, riproporre, riprendere, rilanciare, ricreare il sogno di Borges.

 

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