La cancelliera Merkel è stata sconfitta nel suo collegio elettorale dalla destra xenofoba. Le masse dei profughi ospitati dalla Germania hanno minato il suo consenso apparso, fino ad oggi, inossidabile. Il primo posto (in arretramento) ottenuto dalla SPD, con Linke e i verdi in netto calo, è magra consolazione. I partiti sconfitti si interrogheranno sulla convenienza di un ripiegamento su posizioni più prudenti. Nel fare questo perderanno l’ennesima occasione di preferire la strategia alla tattica.
La paura dello straniero non è necessariamente rivolta a colui che è di un’etnia diversa, di un’altra lingua. I greci della Turchia, in esodo di massa un secolo fa, hanno trovato nella “madre patria” un’accoglienza ostile. Utilizzati perlopiù nei mestieri più umili, sono stati a lungo confinati in baraccopoli nella periferia delle grandi città. Gli istriani hanno avuto un destino migliore, ma non proprio benevolo e i tedeschi dell’Est stentano ancora a integrarsi nella patria riunita.
Nell’opposizione ai profughi, si possono individuare due cause aspecifiche e una specifica. Le cause aspecifiche sono il sentimento di essere invasi, quando i senza terra arrivano in modo massiccio e rapido, e quello di essere derubati, quando non è possibile stabilire con loro relazioni vere di scambio. Il secondo sentimento è una costruzione puramente psichica: serve per allontanarsi da una posizione desiderante, quando questa comporta un investimento unilaterale, un atto di donazione a “perdere”. Più che la paura di un impoverimento reale pesa la ferita narcisistica. La rinuncia contingente è avvertita come diminuzione di sé permanente (in società opulente che fanno del loro benessere il centro dell’amor proprio o nei strati sociali più deboli).
La causa specifica del rigetto dei profughi è il vissuto di sradicamento di cui sono portatori. È un vissuto contagioso perché entra in rapporto con la dimensione psichica di “esilio” presente in ognuno di noi. Ci costituiamo come soggetti sociali attraverso una sequenza di esili da un’età all’altra, da un contesto affettivo-relazionale a quello successivo (a partire dall’esperienza fondamentale della separazione dalla nostra madre). E ogni nostra relazione con l’altro richiede la possibilità di un reciproco esilio: dell’uno nel modo di essere dell’altro. L’esperienza dell’esiliarsi, condizione necessaria del sogno, del lutto e della relazione erotica, viaggia pure a ritroso nel tempo, nel nostro passato e in quello delle generazioni che ci precedono.
Il sentirsi sradicati priva la dimensione psichica dell’esilio della sua natura isterica, antinomica: essere cittadini della propria terra e, al tempo stesso, abitare come apolidi l’altrove che appare all’orizzonte. Al cospetto del rifugiato si attiva lo spettro dello spaesamento, sempre presente nel desiderio di esiliarsi, la preoccupazione di perdersi nel proprio sogno senza più ritrovarsi nella realtà. Il rischio è di espellere il migrante che sogna in noi.
Chi governa dovrebbe avere il coraggio di dire ai cittadini che fare spazio, donare in modo unilaterale, non è impoverimento né misericordia/sacrificio. È un investimento per il futuro loro e dei propri figli, crea le condizioni per essere ricambiati, quando lo scambio di doni sarà diventato possibile. L’unico modo per rendere vivibile un mondo sempre più in movimento e irrequieto, proteggerlo da smottamenti catastrofici. Tuttavia, se non si affronta il nodo di una società sempre più arbitraria e ineguale, chi è disposto a scommettere un solo soldo sull’avvenire del dono unilaterale, sulla bontà dell’incontro fondato sull’esilio?
0 commenti