Percorso: Home 9 Clinica 9 LA PRATICA “A DIVERSI” DI ANTONIO DI CIACCIA. COME LAVORARE CON I BAMBINI DETTI AUTISTICI E ADHD.

LA PRATICA “A DIVERSI” DI ANTONIO DI CIACCIA. COME LAVORARE CON I BAMBINI DETTI AUTISTICI E ADHD.

1 Giu 17

A cura di Annalisa Piergallini

Voglio dire la mia sulla polemica Miller-Recalcati. Io non sono diventata  psicoanalista né perché ho conosciuto Miller, che comunque, per volere stesso di Lacan, ci ha regalato i suoi Seminari, né per Recalcati. Recalcati l’ho conosciuto nei primi anni ’90 come insegnante dell’Istituto Freudiano, scuola, voluta da Miller, di specializzazione quadriennale in psicoterapia, di cui è tutt’ora direttore Antonio Di Ciaccia. Di Ciaccia è il traduttore delle opere di Lacan, ma si è anche inventato qualcosa di molto prezioso, la pratica a diversi, per trattare bambini e adolescenti con grosse difficoltà psichiche, però tutti in Italia conoscono Recalcati e molti meno Di Ciaccia. Lacan ci ha sempre detto: criticatemi, superatemi, siate contemporanei. Antonio Di Ciaccia s’è inventato qualcosa, oltre Lacan. Il lavoro a diversi.
Questa pratica viene usata, in Italia e in diversi paesi del mondo, da tante Istituzioni terapeutiche, educatori, insegnanti, assistenti sociali, assistenti domiciliari psichiatrici e non, privati e non, insegnanti di sostegno, operatori di case-famiglia, comunità con utenti psichiatrici, artiterapeuti, psichiatri, neuropsichiatri, psicoanalisti, anche nella solitudine del loro studio.
Nel 1974, a 31 anni Di Ciaccia era in analisi da Lacan e Lacan allora gli raddoppiò il costo della seduta, così lui, anche per riuscire a pagarlo, fondò l’Antenne 110 e la pratica a diversi. Effetti del transfert, sul soggetto, su quel soggetto.
Ex sacerdote, Di Ciaccia non aveva difficoltà a lavorare nelle Istituzioni della Dolto, grande donna d'azione, che ha scelto il nome dell'Antenna.
Ma si accorse che con alcuni soggetti, autistici, giovani psicotici, non funzionava. Così fondò l’Antenne, a Bruxelles, un’Istituzione  che quando la visitai io aveva 15 bambini in residenziale, tra cui nevrotici gravi, autistici, psicotici; quelli che per la psicoanalisi sono psicotici, oggi vengono certificati autistici o adhd. Mentre tra gli adhd ci sono anche nevrotici.
Qui si tratta di aiutare i bambini a uscire dall’isolamento, a dare una nuova mobilità alle ribellioni schematicamente distruttive di alcuni cosiddetti adhd, si tratta di riuscire a reggere un lavoro impossibile, a volte, di salvarsi la vita.
Uno: gli operatori dell’Antenne si alternano nel lavoro con i bambini, e questo aiuta a non cadere nel rapporto immaginario a-a’ che è l’antipsicoanalisi freudiana, nelle Istituzioni, come negli studi psicoanalitici, ecco perché a diversi.
Due: gli operatori non fanno interpretazioni, ma devono: parlare al soggetto normalmente, anche se questo è un soggetto completamente mutacico.
Tre: il lavoro degli operatori, loro sono davvero obbligati a svolgere le attività dei laboratori, e a divertircisi.
Quattro: i laboratori non sono precostituiti, ma sono ogni volta inventati, a seconda della carta d’identità inconscia, degli interessi dei bambini, e dagli incontri con gli operatori.
Lasciate che vi mostri di che parlo.
L’Antenne 110 di Bruxelles ospita, alcuni anche di notte, bambini autistici, psicotici, nevrotici, gravi. Avevo diciannove anni e non avevo mai visto un’Istituzione del genere.
Si trova in realtà un po’ fuori Bruxelles, a Genval, in mezzo al verde, c’è una casa, una villa dei primi del Novecento con tre piani e un giardino, con i giochi dei bambini. Virginio Baio, che era l’attuale direttore, dopo Antonio Di Ciaccia, ci raccontò di come il precedente direttore aveva messo la presa del suo desiderio sulla Psicoanalisi e si era inventato un modo per lavorare con questi bambini.
Virginio aveva un giubbino di pelle un po’ vissuto e un po’ ’70. In macchina mentre ci accompagnava all’Antenna, ci spiegava che aiuta la clinica trovare se il soggetto ha una sua posizione soggettiva, una sua identificazione simbolica, o che fluttui cercando di costruirsene una. Sembrava molto semplice e gioioso dalle sue parole, aveva l’entusiasmo di un bambino.
Ci parlava di alcune imprese di Antonio Di Ciaccia. Una volta Rafael, un bambino di dodici anni, appena arrivato, aveva dato fuoco alla macchina del direttore, ma Antonio l’aveva subito invitato a cena a casa sua, servito e riverito.
C’era una ragazzina una volta all’Antenne, si chiamava Christine, aveva tredici anni allora, prendeva droghe, si dava sessualmente a chi le capitava, scappava di casa, passava la notte fuori. I genitori, non sapendo più che fare, l’avevano portata lì. Una notte l’operatore in turno, disperato, aveva telefonato al direttore: Christine aveva combinato un casino. Quando il direttore era arrivato, Christine era al centro della stanza con un coltello in mano, si era tagliata, sanguinava, e minacciava gli altri bambini, che si erano appiccicati spaventati alle pareti.
Antonio era rimasto impassibile e le aveva strillato: ma come ti sei conciata? Perché non vai a chiedere alle operatrici come si trucca una donna??!???
Il punto, ci spiegava Virginio mentre guidava, era che Christine non era una bambina delirante, era ben salda nella sua identificazione, un nome insomma ce l’aveva, solo che aveva scelto un nome che la portava a fare azioni pericolose per lei e per gli altri. Oggi la chiamerebbero borderline, in realtà quest’etichetta, di moda ormai da quasi cinquant’anni, non è che un grosso calderone, che clinicamente non ci aiuta affatto. Credere che esista una linea di demarcazione non è così sciocco quanto pensare di poter abitare su quella linea.
Tornai in Italia e mi laureai in psicologia. Avevo 25 anni quando andai a lavorare all’Antenna 112 di Venezia, orientata a questa pratica. Veramente sta a Marghera, ma in meno di 15’ si sta a Venezia. Una comunità terapeutica residenziale e non, per bambini fino ai 14 aa. psicotici, autistici e nevrotici gravi.
Il lavoro non era semplice, gli operatori si avvicendavano. Dopo nemmeno un mese un’operatrice si licenziò perché aveva trovato un bambino in un lago di sangue nella vasca da bagno. Bisognava evitare lanci di coltelli e tentativi incendiari, molestie sessuali, parole o frasi ripetute all’inverosimile.
I bambini erano gravi, solo i gravi, e dopo lunghissime liste d’attesa, entrano in comunità, in più sette di loro, ci dormivano anche. La notte alcuni non dormivano proprio. Eri solo.
Saimon se s’arrabbiava tirava i capelli così forte che gli rimanevano i tuoi capelli in mano. Dexter, 12 anni, ti dava dei calci forti con le sue scarpe a carrarmato. Se ti andava bene quella giornata, un paio di bimbi avevano cercato di farti bere la loro pipì. Anche per questo ho deciso di scrivere di questa pratica clinica, perché ci sono educatori etc che ogni giorno hanno a che fare con tutto questo, o in ogni caso, con un lavoro estremamente delicato, stressante psichicamente e fisicamente, nonché rischioso.
L’operatore che andavo a sostituire era stato ricoverato all’ospedale perché picchiato da un minore.
Ma io non avevo paura, per motivi miei, e perché sapevo dai miei maestri come orientarmi: Virginio Baio mi ha insegnato la pratica, e anche la poesia del lavoro con i bambini cosiddetti psicotici. Ci curano, dice lui, solo che noi non sempre riusciamo a farci curare.
I concetti di Lacan da cui parte Antonio Di Ciaccia sono: immaginario, simbolico e reale; l’inconscio è strutturato come un linguaggio etc etc… Per orientarci prendiamo adhd, autismo, disturbo-oppositivo-provocatorio… sono classificazioni quelle del dsm e simili che sono fondate solo sull’asse immaginario, cioè come si comportano i soggetti… quello che si vede. L’io del soggetto, non la posizione del soggetto. Il bello di Lacan è che ha letto Freud con gli occhi di una serie di altri linguaggi, come la matematica, e in particolare la topologia. Il piano dell’io è quello immaginario, l’asse a-a’ dello schema elle.

Seguiamo Lacan, i suoi Seminari, così come Miller ce li ha trasmessi, perché sfido voi a capire tutto ciò senza i Seminari di Lacan, solo dagli Scritti e poco più.
Bisogna reperire se il bambino è diventato soggetto, e non gioca continuamente a farsi soggetto, come nell’autismo, se ha trovato nella madre un altro regolato, da un altro significante padrone, che rende servo, ma non oggetto.
Il così detto, da Lacan, Nome-del-Padre, poi diventato i nomi del padre, poiché solo significanti, qualunque invenzione può tenere purché annodi i tre cerchi col sinthomo: immaginario, reale e simbolico.
Se il bambino è sintomo della coppia genitoriale è un conto, se è oggetto della madre è un altro.
Se il bambino è oggetto della madre è nelle fauci del coccodrillo e non c’è paletto che tenga senza uno dei nomi del padre, cioè il primo significante scelto e dimenticato. Qui non ci sono catene di significanti da srotolare, non c’è da indagare, cercare, scuotere, provocare. Con un bambino nevrotico occorre provocarlo, risvegliarlo alla vita brulicante di linguaggio, scuoterlo dalla sua identificazione originaria, interrogarlo, provocarlo su se è libero come si dice o schiavo del primo significante da cui ha arrotolato eliche di dna self-made che si continuano a tessere finché morte non ci separi.
Insomma all’Antenna 112 c’era un giardino e facevamo laboratori splendidi, visto che la pratica a diversi comprende diversi laboratori, quanti? Almeno uno diverso per ogni bambino diverso, insieme a diversi bambini, e diversi operatori.
Visto che dalla teoria geniale di Lacan Di Ciaccia aveva capito che con i soggetti in posizione psicotica, autistici, paranoici e schizofrenici occorreva tenere la posizione di non sapere, non fare interpretazioni, essere una guida che segue, come dice Virginio, perché proporre apriori un laboratorio di qualunque cosa e non inventarselo? C’era il giardinaggio perché a Michele piaceva il giardinaggio, balletti tipo show televisivi perché Saimon amava fare il coreografo e il ballerino. In un altro laboratorio sfogliavamo riviste di lavatrici, arrivò Jack che voleva sempre cucire borse, e Dexter cercava cose nelle mappe, a volte perfino riuscendoci. Il mio compito nell’ora di ricerca cose sulle mappe, per esempio gli stadi o le stazioni, era di non indicare: eccola!
Di Ciaccia precisava come non ci si doveva mai mai mettere in posizione immaginaria, ma sempre nel posto del terzo simbolico, con questi bambini, con i pazienti psichiatrici, e anche con gli altri analizzanti, anche se per motivi diversi.
Gli autistici te lo fanno vedere bene, se gli fai una domanda nell’asse a-a’ non ti rispondono, per esempio, ma ci si può anche finire all’ospedale. Non mettersi nella posizione a-a’ vuol dire non sapere, non interpretare, non giudicare, non essere innamorati della persona, non odiarla, non farsi muovere dai sentimenti, ma muoversi con sentimento d’amore verso ciò che il bambino inventa.
Ora è vero che stai lavorando, ma siccome è difficile non cadere nell’immaginario e godere immaginariamente nella relazione a due, l’autostrada dell’odio e dell’amore, addormentarsi all’ombra della pulsione di morte, se non si sta facendo qualcosa di piacevole, bisogna proprio voler essere lì e non altrove. Di Ciaccia è davvero preciso quando dice che l’operatore deve divertirsi in quello che sta facendo.
Vi faccio un esempio: Michele voleva fare l’allenatore, ma non era noioso fargli qualche passaggio all’aria aperta, chiacchierando, ma ci sono attività che, siamo umani, proprio ci infastidiscono da morire, o momenti in cui è particolarmente difficile non mettersi sull’asse immaginario, per esempio quando Fisher prese a darmi dolorose manate sulle cosce e ci aspettavano 45’ di viaggio in macchina. E siccome se c’è un’attività che mi distrae è inventare storie ho cominciato a inventarne una, sono riuscita a distrarmi dal dolore, che fa anche lui effetto godimento e fa scivolare sempre più nell’asse a-a’, e lui ha smesso.

A cura di B. de Halleux, "Qualcosa da dire" al bambino autistico, Borla (con testi di Antonio Di Ciaccia e di Virginio Baio)
Martin Egge, "La cura del bambino autistico", Casa Editrice Astrolabio 

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