Esistono modi d’essere apparentemente invidiabili: individui che sembrano non conoscere l’angoscia, il dolore, la delusione, la tristezza. Costantemente di buon umore, queste persone appaiono sempre straordinariamente vivaci ed attive. Che tale condizione, definita “personalità ipertimica”, abbia carattere patologico (o premorboso) lo dimostra il crollo cui costoro vanno incontro in un certo momento della loro vita: essi cadono in gravi stati depressivi, o ansioso-depressivi, che, quanto più compaiono tardivamente, tanto più sono difficilmente superabili e curabili. Prima che ciò avvenga, questi pazienti attraversano momentanei stati di crisi che, se colti nel loro significato, possono rappresentare occasioni per prevenire il peggio. Umberto Saba ce ne offre una mirabile illustrazione nella poesia “Il beato”, in cui l’ipertimico parla in prima persona:
“Io non posso soffrire. Io sono tale,
per lieto arbitrio degli dèi, che niuna
pena mi tocca, e vivo tra una cuna
e una bara, ignorando il vostro male.
Forse sono io stesso un Immortale.
Guardami ben: vedi tu in me pur una
traccia del tuo dolore? E quanto aduna
tristezze in voi me a rattristar non vale.
Tanta bontà è nel mio cuore, che un gioco
m’è la guerra; ogni volto si fa bello
s’io l’affisso, ogni voce è una canzone.
E se dar mi potessi un’ora, un poco
del tuo dolore, io ti darei per quello
l’alta letizia di cui son prigione.”
Perché l’ipertimico, momentaneamente in crisi, sente (di solito confusamente) la sua letizia come una prigione interiore? Se lo si ascolta con attenzione e pazienza (senza tappargli la bocca con una prescrizione frettolosa di farmaci ansiolitici o antidepressivi), di solito si comprende, e si aiuta il paziente a comprendere, che un buonumore in gran parte fittizio gl’impedisce di entrare in contatto con la parte più genuina di lui stesso: una parte capace di provare dolore, ma anche, quando possibile, un’autentica gioia. Oltre che con se stesso, il cronico stato ipomaniacale dell’ipertimico non gli permette di stabilire un contatto empatico con gli altri: la grandiosità (sospetta d’essere “immortale”), la negazione della sofferenza e della morte (la guerra per lui è “un gioco”) creano una barriera fra lui e i suoi simili che gli rende impossibile partecipare non solo al dolore, ma anche alla gioia altrui. La sua è una prigione che lo esclude dalla vita affettiva reale. Quando, prima o poi, l’ipertimico si scontra brutalmente con la realtà tragica della separazione e della perdita, egli si trova del tutto impreparato interiormente a resistervi, e rischia di soccombere.
Che cosa contribuisce a creare questa condizione? Saba ci suggerisce che essa nacque “per lieto arbitrio degli déi”. Dato che gli “déi” della nostra infanzia furono le persone che ci misero al mondo, possiamo supporre (e spesso lo verifichiamo nelle analisi) che, all’origine, i genitori del futuro ipertimico decisero che la sua vita sarebbe dovuta essere esclusivamente “lieta”; lieta come loro, vedendo nel figlio un prolungamento di se stessi, desideravano fosse la propria vita. Decisione, questa, “arbitraria” (la parola “arbitrio” significa anche “abuso della libera volontà”) in quanto non tenne conto dell’effettiva indole della persona che avevano messo al mondo, né della realtà di quella che sarebbe stata la sua esistenza. Spetta ai genitori, nella fase precoce della vita del bambino, comprendere e dare un nome alle esperienze soggettive del piccolo, rendendogliele così pensabili (la funzione “contenitore/contenuto” di Bion). I genitori dell’ipertimico si rifiutarono d’accogliere in loro stessi (“contenere”) i messaggi di sofferenza provenienti dal figlio, e di restituirglieli in una forma che gli rendesse i suoi vissuti non travisati, e più sopportabili ed affrontabili. Il piccolo si trovò, così, completamente abbandonato, lasciato con le sue deboli o inesistenti risorse ad affrontare il mondo.
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