Se mantengo il termine soggetto è affinché questo sia abolito1
J. Lacan
L’eroe del pragmatismo non è l’uomo d’affari che ha avuto successo, è Bartleby2
G. Deleuze
Godard e la rivoluzione
Il significante rivoluzione non sembra passarsela molto bene negli ultimi anni. In questi giorni è presente nelle sale italiane l'ultimo film del regista Michel Hazanavicius – noto per The Artist – il cui titolo, in italiano, è Il mio Godard. Il film è interamente dedicato ad un momento della vita, artistica e non, del regista “francese”. Si tratta di un film profondamente reazionario, in quanto trasforma un rivoluzionario, Godard3, in un fenomeno di moda e di costume. Se inizio da questo riferimento è perché si tratta di un film paradigmatico di come oggi il significante “rivoluzione” venga svuotato e neutralizzato. La stessa operazione viene compiuta in molti altri modi e in molti altri ambiti, ma l'esito – e probabilmente anche l'intento – è sempre quello di svuotare e neutralizzare il significante rivoluzione. Va anche detto che lo stesso risultato è prodotto – in tal caso probabilmente inavvertitamente – anche da chi in questi ultimi anni, spesso in modo ridicolo, si è fatto e si fa promotore di un rinnovamento della “faccenda” della rivoluzione.
Godard è un rivoluzionario non solo perché ha cambiato radicalmente il modo di fare cinema e sovvertito i suoi codici. Se avesse fatto solo questo non potremmo definirlo rivoluzionario. Possiamo invece definirlo un rivoluzionario, farne un paradigma dell'atto rivoluzionario, perché ha cambiato radicalmente il modo di fare cinema e sovvertito i suoi codici per affermare il reale del cinema – reale del cinema che è vedere il vedere.
La necessità della rivoluzione
Fatta questa premessa possiamo allora chiederci se il significante rivoluzione ha a che fare qualcosa con la pratica psicoanalitica e se la pratica psicoanalitica ha a che fare qualcosa con il significante rivoluzione. Se con rivoluzione intendiamo un cambiamento radicale volto ad affermare il reale allora dobbiamo dire che: 1) la pratica psicoanalitica ha a che fare con un atto rivoluzionario, cioè con un cambiamento radicale volto ad affermare il reale 2) la pratica psicoanalitica deve essere rivoluzionaria, cioè deve produrre un cambiamento radicale in chi vi si sottopone, volto ad affermare il reale. Abbiamo dunque due direzioni, la prima più moderata, l'altra più radicale. Cerchiamo ora di vedere di che cosa si tratta. Da subito però possiamo dire che per la pratica psicoanalitica non si tratta di potere “avere a che fare con” l'atto rivoluzionario o di potere “essere” rivoluzionaria ma si tratta di dovere “avere a che fare con” l'atto rivoluzionario o di dovere “essere” rivoluzionaria. La “rivoluzione” non è una possibilità che la pratica psicoanalitica può o meno realizzare ma di una necessità intrinseca alla sua pratica. Il fatto che la pratica psicoanalitica non riesca a compiere una rivoluzione – una rivoluzione per come la stiamo qui intendendo – o che a volte ci riesca e altre no, non fa diventare la rivoluzione una delle sue possibilità, non la toglie del campo della necessità (tale fatto apre però il problema dei limiti della pratica psicoanalitica, delle sue difficoltà ecc… ma questo è un altro discorso).
Come è il reale
Proviamo ora ad intendere cosa vuole dire cambiamento radicale volto ad affermare il reale nella pratica psicoanalitica. Possiamo subito dire che la pratica psicoanalitica deve – ripeto deve e non può – produrre un cambiamento radicale del rapporto del soggetto, di quell'essere vivente che chiamiamo umano, con il reale. Possiamo allo stesso tempo dire che la pratica psicoanalitica deve fare ciò tenendo presente che il reale è ciò che non cambia, che il reale è quel che torna sempre allo stesso posto. La pratica psicoanalitica deve dunque tenere presente che deve produrre un cambiamento radicale del rapporto del soggetto con il reale il quale non produrrà alcun cambiamento del reale – il quale in sostanza rimarrà immutato. In questo modo la pratica psicoanalitica denuncia che qualsiasi pratica, sia essa clinica, politica, educativa ecc…, volta a cambiare il reale è destinata all'impotenza e alle sue conseguenze nefaste.
Con la psicoanalisi possiamo intendere il reale in molti modi – nei precedenti incontri di questa rubrica abbiamo già dato diverse definizioni. Prendiamo il reale da tre versi: 1) il reale è il corpo pulsionale, ossia un corpo che spinge e si soddisfa di questo spingere – dunque è un corpo sempre soddisfatto, 2) il reale è il trauma in atto, un urto, un colpo, che insiste e non cessa un istante, 3) il reale è una potenza che è atto, dunque non una potenza che può diventare un atto, ma una potenza sempre perfettamente compiuta, realizzata.
La pratica psicoanalitica deve cambiare radicalmente il rapporto del soggetto con 1, con 2 e con 3, sapendo che questo cambiamento radicale non modificherà minimamente né 1, né 2, né 3. Abbiamo più volte detto che questo cambiamento radicale è volto ad affermare il reale – se e solo se è così si può parlare di rivoluzione – dunque ad affermare sia 1, sia 2, sia 3. Cerchiamo allora a questo punto di capire che cosa si intende qui per “affermare il reale”.
Due vie
Possiamo cercare di intendere questo affermare il reale riprendendo le due vie, quella più moderata e quella più radicale, alla quale abbiamo accennato poco sopra. Cercando di spiegare brevemente come si declinano queste due vie si capirà qualcosa in più di cosa voglia dire “affermare il reale”. Partiamo allora da una domanda: che tipo di cambiamento e dunque di affermazione del reale la pratica psicoanalitica deve produrre?
La via moderata (riformista)
La via moderata (riformista) indica che il cambiamento radicale del rapporto del soggetto con il reale è volto ad arrivare a fare un buon uso del reale. Che cosa vuole dire “fare un buon uso del reale”? Vuole dire arrivare a fare del rapporto con il reale un modo per aumentare la propria intensità e non un modo per distruggere e/o spegnere la propria intensità. Questa via moderata contiene al suo interno una variazione che l'avvicina alla via radicale di cui ci occuperemo tra poco. Questa variazione sostiene che il cambiamento radicale che la pratica psicoanalitica deve produrre è volto a farsi causare dal reale – farsi giocare dal reale. Questa via moderata e riformista, ha (come detto) a che fare con l'atto rivoluzionario, in quanto concepisce la necessità di un cambiamento radicale volto ad affermare il reale, affermazione – ed ecco l'aspetto moderato – concepita nei termini di cambiamento del rapporto con, cioè cambiamento del rapporto con il reale.
La via radicale (rivoluzionaria)
La via radicale (rivoluzionaria) sostiene che il cambiamento radicale del rapporto del soggetto con il reale è volto a diventare reale. Poco fa abbiamo visto tre definizioni di reale, dunque diventare reale vuole dire: 1) diventare un corpo che spinge, 2) diventare un urto, 3) diventare un atto. Qui dunque affermare il reale vuol dire diventare reale, vuol dire che il cambiamento del rapporto del soggetto con il reale determina un diventare reale di questo stesso soggetto, di questo stesso soggetto che ha attraversato il processo dell'analisi. Ma, a scanso di equivoci, in tal caso pericolosi, è fondamentale una precisazione. La pratica analitica deve produrre un diventare reale ma può produrre un diventare reale in un unico e solo punto! In un unico e solo punto la soggettività che ha attraversato il processo analitico diventa reale, punto in cui la soggettività che ha attraversato il processo analitico cessa di essere tale – di essere soggetto – e diventa reale. Il soggetto che ha attraversato il processo analitico, che ha terminato un'analisi, continuerà ad essere soggetto, ad avere cioè un rapporto in parte buono e in parte cattivo con il reale, continuerà a volere padroneggiare o rifiutare il reale, a sognare o evitare il reale ecc…ma in un punto sarà decaduto come soggetto e diventato reale. Possiamo poi ipotizzare che questo diventare reale abbia effetti su tutta la soggettività, che ci sia in sostanza un eco, una risonanza di questo diventare reale in tutta la soggettività in questione – ma questa è un'ipotesi e non una necessità del processo di un'analisi.
Altra precisazione. Il punto in cui si produce il diventare reale non è un punto di libertà, non è un punto in cui il soggetto può finalmente disporre del reale. Il punto in cui si produce il diventare reale è al contrario un punto di necessità assoluta, è l'affermazione di una necessità assoluta, è il punto in cui non si può non affermare quel corpo, quell’urto, quell’atto che si è.
Politica
La seconda via, quella radicale, è quella che “ad oggi” è a rischio di estinzione nella pratica psicoanalitica. La ragioni di questo rischio incombente sono molteplici. A mio avviso la ragione fondamentale è la psicoanalisi stessa, sempre più presa a legittimarsi attraverso altro, sempre più presa dal consenso, sempre più supina alle sfide della clinica. Occorre al contrario uno sforzo di teoria, l’insistenza nel maneggiare una teoria di una pratica che non siamo ancora in grado di realizzare – non è forse questo uno dei grandi insegnamenti di Gödel? – per mantenere aperta questa seconda via, che al netto del fallimento a cui è inevitabilmente esposta, rimane decisiva per la pratica psicoanalitica come pratica simbolica del reale.
Deleuze
La seconda via ha nello sforzo teorico di Gilles Deleuze un possibile alleato, per dirla con Lacan, un possibile aiuto contro4. Il filosofo francese ha in effetti insistito su un punto del quale la psicoanalisi, se è interessata a questa seconda via, la via radicale, deve tenere conto. Il punto al quale mi riferisco è quello dell’immanenza. Si tratta di una questione complessa ma che intercetta perfettamente la differenza tra la nostra via moderata, quella in cui si tratta di avere un rapporto con il reale (il che definisce una posizione di trascendenza rispetto al reale) e la nostra via radicale, quella in cui si tratta di diventare reale (il che definisce una posizione di immanenza reale). Ad esempio, Deleuze non pone al centro della sua riflessione il rapporto che il soggetto ha con il nomade, con l’immigrato e con lo zingaro, ma pone al centro della sua riflessione «come diventare il nomade, l’immigrato e lo zingaro»5; al contempo non pone al centro come il soggetto possa avere un buon rapporto con il corpo pulsionale – quello che lui chiama corpo senza organi – ma come il soggetto possa diventare un corpo pulsionale; e ancora Deleuze non pone al centro come il soggetto possa diventare un soggetto cangiante, flessibile, variabile, ma come possa diventare una «variazione continua»6. Gli esempi possibili sono tantissimi, ma non si tratta qui di produrre un elenco. Si tratta di mettere a fuoco un aspetto. La via moderata, trascendente, afferma il primato etico del soggetto capace di rapportarsi al reale. La via radicale, immanente, afferma il primato materialista del reale. La via moderata afferma l’importanza del negativo, cioè di una certa distanza dal reale, per conquistare un po’ di salute, cioè di affermazione del reale. La via radicale afferma che c’è la grande salute, cioè che in un punto – e per Lacan solo ed esclusivamente in un punto (qui forse c’è molta differenza da Deleuze) – c’è un diventare reale.
Ripetizione
Si è detto e scritto spesso di un Lacan scettico nei confronti di qualsiasi movimento rivoluzionario. Quando nel Seminario XVI Lacan riconduce il termine rivoluzione al lessico astronomico, nel quale rivoluzione indica un movimento attorno ad un centro che riporta un astro al proprio posto7, si assiste in effetti all’intreccio tra ripetizione e rivoluzione. In quest'ottica per Lacan rivoluzione non indicherebbe altro che un movimento ripetitivo che torna sempre sullo stesso punto8. L’intreccio rivoluzione-ripetizione ha fatto scrivere e dire, a molti interpreti di Lacan, che per lo psicoanalista parigino la rivoluzione è appunto un movimento ripetitivo, sterile, con il quale e nel quale non si cambia niente e non si afferma niente. Non dico che questa interpretazione non sia corretta, tutt’altro. Dico però che non è esaustiva. La questione è ampia e ci porterebbe lontano dalla nostra riflessione. Mi limito a dire che nelle pagine in cui Lacan accosta rivoluzione a ripetizione è molto presente il punto di ripetizione al quale si sta riferendo, cioè quello del sintomo. L'insistenza sul punto del sintomo ci deve fare capire che la sovrapposizione rivoluzione-ripetizione non va tanto a detrimento del modo di intendere la rivoluzione, quanto a rivelare in cosa consista esattamente la ripetizione nel processo psicoanalitico, è cioè che la realizzazione della ripetizione all'interno del processo analitico è una rivoluzione. La ripetizione-rivoluzione come movimento circolare che torna sempre allo stesso punto è esattamente il movimento di una psicoanalisi – dunque è il movimento della pratica psicoanalitica. Un’analisi è un movimento circolare che torna sempre allo stesso punto fino a quando questo punto non viene affermato anziché rilanciato nel movimento. Il punto in questione è il punto di reale al quale abbiamo fatto più volte riferimento. In questo modo, e solo in questo, accade il diventare reale, accade l'affermazione del reale. In questo modo e solo in questo si realizza quella ripetizione che è la rivoluzione.
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1 J. Lacan, Piccolo discorso all’ORTF, in Altri Scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 225.
2 G. Deleuze, Bartleby o la formula, in G. Deleuze e G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet, Macerata, 1993, p. 39.
3 Cfr. tra l’altro, R. Turigliatto, Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema, Castoro, Milano, 2009.
4 J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il sinthomo, Astrolabio, Roma, 2006.
5 G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata, 1996, p. 35.
6 G. Deleuze, Un manifesto di meno, in C. Bene e G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata, 2002, p. 98.
7 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre, Seuil, Parigi, 2006, in particolare lezione del 21 maggio 1969.
8 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre, Seuil, Parigi, 2006, in particolare lezione del 21 maggio 1969.
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