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La psicologia italiana oltre la legge di ordinamento (56/89) e il suo confronto con la legge 4/13

17 Mar 15

A cura di Rolando Ciofi

La psicologia italiana ha acquisito dignità professionale nel 1989, grazie alla legge 56 del 18 febbraio. Legge che ha avuto una incubazione di poco meno di un ventennio. La legge è dunque frutto di quel mix culturale che va dai fermenti "sessantottini", al passaggio per "gli anni di piombo" per sfociare poi nel "compromesso storico" e nel modello consociativo. Ovviamente difficile per i giovani colleghi avere coscienza diretta di tutto ciò.



Rimandando i curiosi ad un articolo di molti anni addietro (vedi cap II di questo link)basti qui ricordare che dopo un ventennio di accese discussioni la legge venne varata grazie ad un accordo che sul piano professionale vedeva favorevoli medici (che si vedevano comunque confermata l'attività psicoterapeutica), buona parte dell'accademia (le prime facoltà di psicologia risalgono al 1972 e dunque nel 89 c'era già una classe accademica di psicologi proveniente da formazione medica o da formazione in ambito delle scienze umane e specializzazione americana), sindacato (AUPI) e scuole di formazione non psicoanalitiche (terapia familiare, comportamentismo, cognitivismo…). Sconfitti per autoesclusione gli psicoanalisti ed un mondo che nessuno nemmeno sospettava potesse esserci: i liberi professionisti.



In realtà i liberi professionisti c'erano e subito dopo l'approvazione della legge furono costretti ad organizzarsi in associazioni. Da lì un ventennio e più di turbolenze che solo oggi comincia a trovare un suo senso. Per comprendere il quale è opportuno fare un passo indietro.
 
 
Quali erano i veri obiettivi della legge 56/89?



1) Dare forma ad un mercato già esistente (quello della psicoanalisi e della psicoterapia), parzialmente liberalizzandolo e svincolandolo dalle continue diatribe (innumerevoli cause per esercizio abusivo della professione) con i medici che pretendevano di avere l'esclusiva su tale mercato.

2) Consentire agli psicologi di avere pari dignità professionale rispetto ai medici all'interno del servizio pubblico sanitario nazionale

3) Costruire la comunità professionale degli psicologi (psicoterapeuti)

4) Legare la formazione in psicoterapia ad un riconoscimento pubblico da parte dello stato



I punti 2 e 3 vennero rapidamente raggiunti (almeno in buona parte). Dunque non mi dilungo.
Il punto 4 pure, tra mille polemiche e infiniti passaggi ed aggiustamenti, è stato raggiunto. Oggi legittimamente ci chiediamo se si tratti del giusto modo, se ci sia un senso etico sufficiente, se non si siano incrostati privilegi non necessari, se il sistema sforni buoni professionisti, dove sia finita la psicoanalisi. Ma in ogni caso un sistema di formazione in psicoterapia c'è e non pare essere al momento esageratamente contestato.

Sul punto 1 invece, da subito, il caos è stato totale ed ancora oggi il CNOP non ha una strategia chiara e continua a collezionare autogol.

Cerchiamo di approfondire ed andare con ordine. Immediatamente dopo l'approvazione della legge gli psicologi, appena dotati del proprio Ordine, si trovarono di fronte ad una serie di problemi da dover affrontare con urgenza. 



Il primo, quello che tenne bloccato l'iter della legge per quasi un ventennio, fu alla fine il più facile da risolvere e in realtà venne risolto durante la stesura stessa della legge. Grazie ad un compromesso tra medici e psicologi la psicoterapia divenne una specializzazione (anzichè essere competenza di base) condivisa tra medici e psicologi. I contenziosi tra le due comunità professionali potevano così cessare, come in effetti sono cessati.

Il secondo problema riguardava la psicoanalisi. Gli psicoanalisti (quelli rappresentati dalle maggiori società scientifiche SPI, AIPA, CIPA etc..) decisero di "sfilarsi" dalla legge che pure in un primo momento avevano sollecitato. Sostanzialmente per non volersi confondere con gli psicoterapeuti. Loro pensarono dunque che la legge non li riguardasse (e da un punto di vista storico, alla lettura degli atti parlamentari, è certo che non li riguardi). Gli psicologi ignorarono tale distinguo ed alla fine la strategia risultò (quasi) vincente. Di fronte alla totale ambiguità delle grandi società di psicoanalisi, semplicemente mute sulla questione, i vari psicoanalisti o perchè medici, o perchè psicologi o perchè in grado di fruire delle norme transitorie della legge 56/89, ottennero la regolare iscrizione nell'elenco degli psicoterapeuti. Ma negli anni il problema si ripropose ed oggi è sorta la questione degli "psicoanalisti laici". Una questione antica, che risale allo stesso Freud e connaturata allo stesso statuto formativo in psicoanalisi. Uno psicoanalista infatti non si forma a partire dal titolo accademico posseduto all'inizio del suo percorso ma più propriamente a partire dalla sua analisi personale e formativa.

Il terzo problema (sicuramente il più rilevante) riguardava chi potesse definirsi psicologo. Sembrava chiaro che potesse definirsi psicologo chi fosse laureato in psicologia, almeno così la pensava chi aveva concepito la legge. Grande fu la sorpresa nel rendersi conto che le cose non stavano così. Si attendevano circa 5000 psicologi nel primo albo. Se ne censirono invece oltre 20000, la maggior parte dei quali non laureati in psicologia ma che esercitavano la professione nelle Università, negli Ospedali, nei Tribunali, nel privato. E non tutti erano "anziani". Presto si aggiunsero circa 1500 "trentaquattristi", giovani iscritti, senza laurea in psicologia e talvolta pure senza laurea alcuna, nel 1989, a scuole private di specializzazione in psicoterapia che avevano diritto a sostenere l'esame di stato ed entrare nell'albo. Come in effetti al termine di infiniti contenziosi così è stato.



L'Ordine aveva a quel punto (siamo nella seconda metà degli anni 90') la possibilità di effettuare scelte inclusive o di esclusione. Scelse la seconda strada. Il MoPI, l'associazione da me diretta, scelse la prima. La nostra proposta, prima di addivenire alla conclusione che era l'Ordine stesso l'ostacolo da abbattere, era quella di organizzare, all'interno dell'Ordine elenchi di counselor, di mediatori familiari, di coach etc… Insomma di includere e contemporaneamente differenziare. Abbiamo perso entrambi e purtroppo ha perso la comunità professionale nel suo complesso.

E' in quegli anni (siamo nella seconda metà degli anni 90') che nasce nel nostro paese il movimento del counseling e delle associazioni di tale professionalità rappresentative. Inizialmente si trattava di colleghi che avevano avuto difficoltà nell'accesso all'ordine o di scuole di psicoterapia non ancora riconosciute che trovavano, attraverso questa strada un modo di esistere e continuare a fare ciò che sempre avevano fatto prima della legge. Poi con il tempo il counseling ha preso la sua strada sempre più autonoma rispetto alla psicologia. 

Oggi psicologia professionale e counseling si confrontano davanti alla Giustizia Amministrativa.

Nonostante ciò personalmente ancora non dispero che possa esserci un mutamento di linea e che l'intero mondo professionale della relazione di aiuto possa trovare forme di raccordo e regole condivise che ne esaltino la variegata potenzialità complessiva mantenendo visibili le specifiche differenze. Trovo culturalmente modesto e intellettualmente poco apprezzabile il pensiero che pretenda di attribuire alla figura professionale dello psicologo la riserva per ogni relazione di aiuto. Trovo profondamente sbagliato per la comunità degli psicologi perseguire tale obiettivo.

Alla luce di quanto sopra credo che i tempi siano oggi maturi per operare, almeno sul piano politico professionale, un salto di livello 



1. E' ormai emerso che sul piano istituzionale psicologia professionale e counseling professionale sono due distinti segmenti nel complessivo panorama delle professioni intellettuali nel nostro paese. Ognuno di questi segmenti ha le proprie rappresentanze associative (Ordine e Cup gli psicologi, Associazioni e Colap i counselor), ognuno di questi segmenti è collegato a realtà associative internazionali, organizza i propri congressi professionali e scientifici, intrattiene rapporti con lo Stato. La mossa dell'Ordine Nazionale degli psicologi di rivolgersi al TAR, indipendentemente da ciò che ne penseranno i Giudici, rende plasticamente evidente questo stato di cose. Davanti al Giudice amministrativo non si pone una questione di "abuso di professione" ma una ben più complessa questione di come si intenda l'organizzazione delle professioni. E non va davanti al Giudice un singolo soggetto od una singola associazione, ci va l' Ordine, Assocounseling, il MISE, il Ministero della Salute. Chiaro che la diatriba durerà molti anni e finirà nel caso peggiore davanti alla giustizia europea. Ma nel frattempo l'esistenza di questi due mondi è accertata. E, come ben sa chiunque si sia occupato un poco di politica nella vita, quando una realtà sociale esiste si può tentare di plasmarla ma non la si può semplicemente eliminare. 

2. In conseguenza di questa prima riflessione trovo che la discussione tesa a stabilire cosa differenzi un counselor da uno psicologo o da uno psicoterapeuta rimanga valida sul piano culturale ma sia ormai obsoleta su quello politico professionale. Con ciò non voglio esimermi dall'esprimere il mio pensiero anche su questo aspetto. Pensiero che potrei così sintetizzare: Credo che entrambe i mondi abbiano risorse da mettere a disposizione della società nel campo della relazione di aiuto, risorse più tecnico scientifiche gli psicologi , risorse più aspecifiche e maggiormente contaminate dal pensiero orientato dalle scienze umane i counselor. Secondo questa semplice categorizzazione molti psicologi (fenomenologi, psicodinamici, gestaltisti etc..) possono a buon diritto ritenersi counselor, mentre nessun counselor può definirsi psicologo sia perchè la legge lo vieta sia perchè di norma non possiede il bagaglio tecnico scientifico che ogni laureato in psicologia ha nel proprio curriculum. 

3. Ritengo che nell'immediato futuro il dibattito si sposterà dal campo della ricerca delle differenze a quello della migliore presenza sul mercato. E qui, sembrerà curiosa la mia affermazione ma corrisponde esattamente a ciò che penso, il mondo della psicologia ordinistica parte molto svantaggiato. Premesso che il mercato chiede trasparenza, tutela del cliente consumatore, corretta concorrenza, qualità delle prestazioni controllate e controllabili, vediamo quali sono gli handicap della psicologia professionale (ordinistica):

a) Il primo problema è oggettivo, direttamente derivante dalla legge di ordinamento e dalle scelte che la comunità ha fatto nel tempo. Infatti a termini di legge l'Ordine non può negare l'iscrizione (e dunque il diritto a lavorare) a nessuno psicologo in possesso della laurea in psicologia e che abbia superato l'esame di Stato. Analogamente non può richiedere al proprio iscritto ulteriori requisiti che non siano quelli previsti per legge (non può richiedere curricula sempre aggiornati, non può rilasciare certificati di competenza periodici, non può riconoscere specializzazioni che non siano quelle di legge etc…). Insomma l'Ordine è una struttura ingessata ed ingessante per modificare la quale necessitano interventi legislativi che peraltro nessuno sente l'esigenza di richiedere.
b) il secondo problema è culturale. Gli psicologi non sono ancora entrati nell'ottica di una professione modernamente concepita e dunque anche quando la legge lo consenta o addirittura lo preveda manifestano fortissime resistenze ad aprirsi alle esigenze del mercato. Valga come esempio il caso dell'aggiornamento permanente, obbligatorio sia per legge che per deontologia, che viene regolarmente disatteso con la connivenza capziosa dello stesso Ordine Nazionale degli Psicologi. Ma gli esempi possono essere molteplici, si veda il naufragio dell'esperienza dell'Ordine Lombardo, sotto la presidenza Bergonzi, tendente a rendere ostensibile la specializzazione dei singoli colleghi iscritti a quell'Ordine, si veda la scarsissima partecipazione dei colleghi alla vita della comunità, si veda la tendenza di tanti colleghi a sentirsi "bravi e competenti" unicamente in base ad un timbro che accerta la loro iscrizione all'Ordine. 



Ma anche in Italia, come in ogni luogo del mondo occidentale la società chiede ai professionisti.

– di rispondere ad un preciso codice deontologico

– di rendere pubblicamente consultabile il proprio curriculum

– di rendere noti i settori nei quali il professionista è maggiormente competente

– di aggiornarsi durante tutto l'arco della vita professionale e rendere pubblicamente consultabili i percorsi di aggiornamento seguiti

– di documentare una effettività della professione (non è sufficiente essere iscritti ad un Ordine o Associazione per mantenere le competenze occorre esercitarle)

– di adeguarsi alle normative di legge (assicurazione, privacy, consenso informato, POS etc…)

– di non operare in condizione di monopolio



Naturalmente ciò che accadrà dipenderà molto dalle scelte che le varie associazioni di counseling faranno a tutela della loro credibilità e da come la comunità degli psicologi saprà riformarsi ma trovo che questi saranno in un prossimo futuro i nuovi terreni di confronto.
 
 
3. L'ultima riflessione riguarda la strategia. Non ha più senso immaginare, come era immaginabile venti anni or sono, un Ordine che includa i vari rami della "famiglia" delle professioni di ambito psicologico. Gli Ordini, tutti gli Ordini, sono nel nostro ordinamento agonizzanti, non hanno più l'autorevolezza di proporre operazioni di così ampio respiro.



Trovo che in una prospettiva di medio lungo termine la strada non possa essere che quella di disarticolare per consentire riaggregazioni, dunque nello specifico di rendere professione autonoma la psicoterapia ed il counseling nelle sue varie forme propedeutico ad essa. 

Trovo che anche la psicologia, oggi schiacciata dalla sua sostanzialmente unica specializzazione, avrebbe molto da guadagnare da questa riorganizzazione ritrovando prestigiosi spazi in ambiti più specifici. Ma sulla strada di una trasformazione così radicale, a meno che non intervengano fattori esterni (leggasi Europa) gli ostacoli sembrano al momento enormi.



Vediamo i più rilevanti:

a) gli psicologi (e presumo anche i medici) non vogliono vedersi privati di una (più o meno) importante riserva professionale. Gli attuali psicoterapeuti, comunque lo siano diventati, si sentirebbero "scippati" di qualcosa di prezioso. Ciò almeno sinché esistono gli Ordini così come noi siamo abituati a viverli, una eventuale abolizione o anche solo modifica radicale del sistema ordinistico certo cambierebbe le carte in tavola e potrebbe funzionare da catalizzatore.

b) la psicologia (con scelta che personalmente considero sciagurata) ha voluto essere professione sanitaria. Scorporare la psicoterapia diventerebbe un oggettivo indebolimento all'interno dei servizi pubblici. E, al di là dell'indebolimento, porrebbe comunque una questione di riorganizzazione dei servizi stessi.

c) le scuole di specializzazione in psicoterapia, private, organizzate secondo il sistema dei riconoscimenti ministeriali, hanno nella loro maggioranza supportato l'attuale sistema e sempre nella loro maggioranza, potrebbero opporsi, con il peso delle loro lobby al cambiamento.



I problemi quindi, come si vede, sono enormi. Ma con le idee chiare circa gli obiettivi potrebbero essere affrontati. Diversamente il mondo andrà avanti lo stesso ma per la psicologia professionale nel nostro paese si delinea un clima sempre più asfittico.

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