Appena inizia un nuovo anno, ho l’abitudine di collegarmi alle principali banche dati per vedere quali sono i primi articoli scientifici nel mio settore di interesse che sono stati pubblicati: un po’ come i servizi alla Studio Aperto sui primi nati dell’anno, solo in versione un po’ più nerd.
Quest’anno ha catturato l’attenzione un articolo di Kaussner e colleghi dell’università e centro di salute mentale di Wurzburg, in Germania. L’indicazione bibliografica, ovviamente, è Kaussner et al., 2020: il titolo esatto è “Treating patients with driving phobia by virtual reality exposure therapy – a pilot study”. Come è possibile pubblicare come studio pilota l’uso della realtà virtuale per superare la paura di guidare, tecnicamente nota col famigerato nome di amaxofobia? Mi incuriosisco e apro l’articolo, cercando di capire con l’animo cattivo del rigido reviewer come mai non sia stato bocciato.
Togliendo i panni che avvolgono questo neonato articolo, trovo una dettagliata procedura di intervento, che certifica la pubblicazione su PlosOne, non certo un giornale di ripiego per la realtà virtuale, soprattutto per quanto concerne gli aspetti tecnologici. Il menu prevede:
- Due sedute preparatorie di psicoterapia;
- Cinque sedute di realtà virtuale simulativa per l’esposizione;
- Un test finale di evitamento nel traffico reale
- Una seduta psicologica conclusiva
- Contatti di follow-up qb, in questo caso a 6 e 12 settimane.
I risultati? Chiaramente soddisfacenti, perché quando è ben contestualizzata nell’intervento clinico, la realtà virtuale simulativa è ormai una certezza. Niente di nuovo insomma, se non per il fatto che utilizzarla in modo corretto è sempre una sfida, muovendosi tra le possibilità organizzativa e la gestione della relazione col paziente. C’è qualcosa di ulteriormente nuovo, tuttavia, ovvero un suo utilizzo situato: le sessioni di realtà virtuale avvenivano in un abitacolo, personalizzato il più possibile sulle necessità del paziente, anche sulla base della gerarchia di esposizioni prevista. L’arricchimento del contesto in cui avviene la realtà virtuale ne aumenta sicuramente l’efficacia, anche una automobile ferma può aumentare il senso di presenza in una situazione di movimento nell’ambiente virtuale. Banalmente, essere seduti sul sedile dell’auto offre tutta una serie di sensazioni corporee che permettono di sentirsi maggiormente coinvolti nell’ambiente.
E cercando tra le altre “culle” degli articoli neonati nel 2020, troviamo un articolo dal titolo imponente “Virtual Reality Experience: Immersion, Sense of Presence, and Cybersickness” di Servotte e colleghi che pur con uno studio sul contenuto diverso ovvero relativo all’ambito formativo ospedaliero, sottolineano come tutto ciò che aumenta il senso di presenza nell’ambiente, diminuisca la cybersickness. Torniamo quindi ad una rassicurante certezza su cui poter poggiare la nostra attività clinica: quanto più personalizziamo anche il setting in linea con l’esperienza virtuale fornita, tanto più aumentiamo il senso di presenza e di comfort del paziente con la realtà virtuale, in modo tale che le uniche attivazioni emotive possano essere quelle elicitate dall’ambiente virtuale.
Il senso di cybersickness (nausea e vertifgini da eccessivo uso di device in ambito digitale) può aumentare nel contrasto tra la percezione tra l’auto in moto riprodotta nel visore e la consapevolezza di essere invece fermi in un abitacolo? Può essere, sicuramente però abbiamo le certezze scientifiche sufficienti per provare ad utilizzarla in questo senso. Sappiamo poi che ogni paziente con la propria storia clinica è un mondo a sé, ma i paralleli e i meridiani del nostro intervento sono saldamente tracciati e possiamo portare con fiducia le evidenze scientifiche nella nostra pratica clinica.
E cercando tra le altre “culle” degli articoli neonati nel 2020, troviamo un articolo dal titolo imponente “Virtual Reality Experience: Immersion, Sense of Presence, and Cybersickness” di Servotte e colleghi che pur con uno studio sul contenuto diverso ovvero relativo all’ambito formativo ospedaliero, sottolineano come tutto ciò che aumenta il senso di presenza nell’ambiente, diminuisca la cybersickness. Torniamo quindi ad una rassicurante certezza su cui poter poggiare la nostra attività clinica: quanto più personalizziamo anche il setting in linea con l’esperienza virtuale fornita, tanto più aumentiamo il senso di presenza e di comfort del paziente con la realtà virtuale, in modo tale che le uniche attivazioni emotive possano essere quelle elicitate dall’ambiente virtuale.
Il senso di cybersickness (nausea e vertifgini da eccessivo uso di device in ambito digitale) può aumentare nel contrasto tra la percezione tra l’auto in moto riprodotta nel visore e la consapevolezza di essere invece fermi in un abitacolo? Può essere, sicuramente però abbiamo le certezze scientifiche sufficienti per provare ad utilizzarla in questo senso. Sappiamo poi che ogni paziente con la propria storia clinica è un mondo a sé, ma i paralleli e i meridiani del nostro intervento sono saldamente tracciati e possiamo portare con fiducia le evidenze scientifiche nella nostra pratica clinica.
Kaussner, Y., Kuraszkiewicz, A. M., Schoch, S., Markel, P., Hoffmann, S., Baur-Streubel, R., … & Pauli, P. (2020). Treating patients with driving phobia by virtual reality exposure therapy-a pilot study. PloS one, 15(1), e0226937.
Servotte, J. C., Goosse, M., Campbell, S. H., Dardenne, N., Pilote, B., Simoneau, I. L., … & Ghuysen, A. (2020). Virtual Reality Experience: Immersion, Sense of Presence, and Cybersickness. Clinical Simulation in Nursing, 38, 35-43.
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