Il sistema sanitario nel nostro paese e, con pochissime eccezioni, in tutto il mondo è in crisi. A partire dalla crisi della ricerca medica che ha origini epistemologiche e finanziarie.
Per dirla con Foucault, la scienza medica dovrebbe guardare il suo oggetto al tempo stesso con sguardo sapiente e sguardo vergine (che vede senza il pre-giudizio della conoscenza già acquisita). Da tempo nei medici lo sguardo sapiente tende a esiliare lo sguardo vergine. La medicina si è assoggettata al paradigma delle “evidenze”: dati clinici o di laboratorio considerati come prove a sé stanti. A dispetto del fatto che nessuna evidenza ha un valore reale se non serve a indicarci ciò che evidente non è. Si usano mezzi tecnologici potenti per affinare la visione e la conoscenza del già visto, del già conosciuto. Ciò ha permesso di migliorare molto le prestazioni di cura in campi già battuti, ma non nei territori incerti. Manca una comprensione davvero innovativa del funzionamento dell’organismo umano e l’epigenetica, lo studio della complessa relazione tra fattori genetici e ambientali che ne garantisce la sanità o lo fa ammalare, affascina ma stenta a decollare.
La progressiva riduzione delle sovvenzioni pubbliche a favore degli investimenti privati, vissuta come un sollievo dagli Stati, mostra oggi tutti i suoi limiti e i danni che ha provocato. Il dominio degli investitori privati, che ha generalizzato la visione speculativa delle case farmaceutiche sulla salute, ha gradualmente spostato il centro di gravità della ricerca dall’interesse scientifico all’interesse di lucro. Con due conseguenze molto serie: l’incentivazione degli studi in grado di dare risultati immediatamente sfruttabili sul piano economico e la frammentazione e dispersione dello sforzo conoscitivo in direzioni scoordinate tra di loro. Sono state abbandonate intere aree di indagine che non offrono possibilità di un successo rapido in termini di visibilità, carriera e vantaggi economici. Tra queste il campo degli studi sul Covid.
In Italia alla crisi mondiale della ricerca medica si è aggiunta la regionalizzazione federalista del SSN, una riforma improvvisata fatta sotto la spinta di forze separatiste che ha favorito una grave iniquità tra cittadini sul piano delle cure e ha portato a una seria violazione di un fondamentale diritto costituzionale. Il diritto alla salute non è solo un diritto inalienabile di ogni singolo cittadino, è anche un bene comune che garantisce la serenità e la fiducia nelle proprie forze dell’intera comunità nazionale. La regionalizzazione della salute pubblica come di fatto si è realizzata da noi (al di là delle belle parole e intenzioni) ha determinato la distribuzione ineguale delle risorse tra le diverse aree del paese (minando la sua coesione), la privatizzazione selvaggia dei servizi di cura (che ha raggiunto il suo acme in Lombardia) e una riduzione forte del personale medico e infermieristico (l’assunzione di medici cubani dalla Regione Calabria è uno scandalo) che lavora in prima linea, salvando vite, in condizioni del tutto insoddisfacenti dal punto della sua condizione economica e psicofisica. Ha dato il colpo di grazia alla salute mentale.
In tempo di elezioni è questione di onestà sottolineare che il ministro Speranza ha fatto uno sforzo di inversione di tendenza encomiabile. In una sua intervista su questo giornale Sandra Zampa, che come sottosegretario ha colto l’importanza della salute mentale per la democrazia e la società, ha posto un obiettivo dirimente: fermare la privatizzazione e riequilibrare il rapporto tra regioni e governo nazionale a favore di quest’ultimo.
Proteggere la salute di tutti, attraverso modalità di prevenzione e di ricerca che solo lo sguardo globale delle istituzioni della Polis può garantire, ci consente di godere del nostro vivere. Altrimenti saremmo esposti a una precarietà sanitaria continua e vivremo per non morire.
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