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La scorrettezza grammaticale eloquente: il terapeuta, il paziente e il Poeta

29 Set 18

A cura di Sabino Nanni

Se vogliamo metterci nei panni di chi ci sta parlando, ci conviene mettere da parte quello che potremmo chiamare il “Superio professorale” che ci porterebbe a prestare attenzione, innanzi tutto, alla correttezza grammaticale di quanto ci viene detto. Spesso una scorrettezza di questo genere comunica quel che la persona sta provando nel modo più efficace. Prendiamo, ad esempio, il paziente che, nel corso di un colloquio clinico, ci dice: “se la cura fallisce, io m’ammazzo”. Ovviamente, la drammaticità di queste parole porta il terapeuta ad ignorare la correttezza grammaticale, ed a prestare attenzione alla disperazione che il paziente sta cercando di comunicare. Se, però, a seduta terminata (“a biglie ferme”) riesaminiamo questa frase, ci è chiaro che la forma grammaticale corretta: “se la cura fallisse, io m’ammazzerei” avrebbe reso in modo meno efficace quel che il paziente voleva dire: l’uso del congiuntivo e del condizionale avrebbe posto la scena rappresentata nel campo delle ipotesi e della fantasia. Viceversa, l’uso dell’indicativo (il modo della realtà) ci fa capire che il paziente sta rappresentandosi la scena in modo vivido, quasi fosse reale e presente. Il Poeta usa talora l’espediente della forma grammaticale scorretta per raggiungere più prontamente le emozioni del lettore.

Riporto, qui sotto, quanto osserva Ogden a proposito del primo verso di una poesia di Frost: “I have been one acquainted with the night”:

“questo verso, che di primo acchito sembra una semplice frase, ad un esame più attento rivela una certa complessità. Non è chiaro come si debbano leggere le prime parole “I have been one”: se si pone l’accento su “I”, oppure su “have been”, oppure su “one”, ne risultano tre differenti “suoni della frase”, ciascuno con una particolare sfumatura di significato. Ciò rende il verso enigmaticamente vivo. La grammatica, in modo quasi impercettibile, viene alterata. La forma grammaticale corretta del primo verso sarebbe: “I am one who has been acquainted with the night”; tuttavia, l’alterazione della grammatica, operata dal Poeta, dissolve la collocazione immediata nel presente, e crea una sorta di passato che è anche presente (“present perfect”) ed un presente che, in qualche misura, è già passato, ossia un tempo che non è  chiaramente identificabile. “I have been one”: lo sono stato, e lo sono ancora? Oppure lo sono stato fino ad epoca recente? Oppure lo sono stato, ma non so se lo sono ancora?”
E’ mia opinione che, non solo per comprendere una poesia, occorra conoscere la lingua originale in cui è stata scritta, ma che sia anche vero il contrario: per comprendere in profondità lo spirito di una lingua, occorre farlo attraverso la Poesia. A me pare che, per capire bene che cos’è il “present perfect” (forma che in italiano non esiste, e che viene erroneamente confusa col passato prossimo), la poesia di Frost e il commento di Ogden mi siano stati particolarmente d’aiuto. Inoltre (fatto particolarmente importante per chi pratichi la psicoterapia, ma anche per chiunque voglia capire bene i propri simili), la sensibilità che il Poeta ci permette di affinare, anche riguardo a quel che viene comunicato tramite il linguaggio, è essenziale, non meno degli altri requisiti. La forma grammaticale corretta si adatta particolarmente al “linguaggio del pensiero”, rendendolo “chiaro e distinto”, inequivocabile; tuttavia il linguaggio delle emozioni è diverso: se una persona vuole comunicare quanto di vago ed ambiguo sta provando, deve necessariamente alterare la grammatica. Ogden, nell’articolo del 1999 di cui ho citato più sopra un passaggio, ci offre un mirabile esempio di tutto questo, confrontando la sua lettura di una poesia di Frost con quella delle dichiarazioni di una paziente in seduta.
PS: mi riferisco all’articolo di Thomas Ogden: “The music of what happens' in Poetry and Psychoanalysis” pubblicato su: Int. J. Psychoanal. Vol. 80, N° 5, pag. 979 – 1999  

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