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La spontanea “pet therapy” di un Poeta: “Uccelli” e “Quasi un racconto” di Umberto Saba

14 Mag 23

A cura di Sabino Nanni

        Amare (o anche solo tollerare) i nostri simili, pur conoscendoli fino in fondo, non è impresa facile. Alcune persone, particolarmente sfortunate nei loro rapporti umani, riversano completamente il loro affetto sugli animali domestici. Qualcuno si sente urtato da tale comportamento. Ci si crea, così, la falsa convinzione che l’amore per gli animali debba essere necessariamente incompatibile con l’affetto verso i propri simili. Umberto Saba la smentisce.
        Nelle sezioni “Uccelli” e “Quasi un racconto”, il Poeta parla del rapporto con i suoi adorati uccellini. Non c'è affatto contrapposizione con gli umani: in questi piccoli esseri Saba riconosce un modo di essere primitivo, spontaneo, ingenuo, pre-morale, incorrotto; un modo di essere che appartiene a tutti noi, nel fondo del nostro animo. Descrivendo il suo amore per gli uccelletti, Saba ci parla anche del rapporto che lo lega ai suoi ed ai nostri simili. Con la sua Arte, egli ne trae la possibilità di ricomporre le fratture che, nel corso della sua vita, si sono create con gli altri esseri umani e con sé stesso. Ne emerge una sorta di “pet therapy” auto-somministrata, compresa in profondità dalla sensibilità del Poeta, ricca di suggerimenti per i curanti che utilizzano anche questa possibilità terapeutica.
        Per inciso: i numeri di pagina, accanto a ciascun titolo, si riferiscono all’edizione Einaudi (1961) de “Il Canzoniere”. Ad ogni poesia segue un mio commento che può interessare chi, come me, si occupa della comprensione e della cura della mente umana. Alcuni di questi commenti sono già stati pubblicati, come articoli a sé stanti, in questa rubrica.

 

Uccelli

Cielo – pag. 540
La buona, la meravigliosa Lina
spalanca la finestra perché veda
il cielo immenso.
 
Qui tranquillo a riposo, dove penso
che ho dato invano, che la fine approssima,
più mi piace quel cielo, quelle rondini,
quelle nubi. Non chiedo altro.
                                                   Fumare
la mia pipa in silenzio come un vecchio
lupo di mare.

 

        Il Poeta s’immerge nel cielo immenso, illimitato, popolato da rondini capaci di muoversi liberamente. Ciò facendo egli quasi dimentica i suoi limiti sempre più ristretti, le sue forze sempre più scarse, la facile affaticabilità che lo costringe ad un quasi continuo riposo ed all’immobilità. Vecchiaia e regressione alla primissima infanzia, unendosi, gli restituiscono un temporaneo sollievo: egli, come allora, trae la sua vitalità dal proiettarsi in una madre (qui la Natura) e, tramite la sua pipa da vecchio lupo di mare, mantiene un legame oggettivo di carattere orale col mondo esterno.

 
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L’ornitologo pietoso – pag. 543
Raccolse un ornitologo pietoso
un espulso dal nido. Come l’ebbe
in mano vide ch’era un rosignolo.
 
In salvo lo portò con il timore
gli mancasse per via. Gli fece, a un fondo
di fiasco, un nido; ritrovò quel gramo
l’imbeccata e il calore. Fu allevarlo
cura non lieve, ed il dispendio certo
di molte uova di formiche. E ai giorni
sereni, ai primi gorgheggi, l’esperto
in un boschetto libertà gli dava.
“Più – diceva al perduto, e lo guardava
a terra e in ramo cercarsi – il tuo grazie
udrò sommesso”. E si sentì più solo.

 

        Pietà significa prendersi a cuore il destino dell’essere impotente, indifeso, privato dell’ambiente e degli esseri viventi che gli consentano di sopravvivere. Significa sentirsi quasi tutt’uno con lui, ed offrirgli ciò di cui l’individuo generoso sente ancora, in una parte di lui, il bisogno. L’ornitologo pietoso, come il Poeta, come la puerpera (e a differenza dei più comuni mortali), non ha perso il contatto con tale aspetto antico e fragile del suo animo. Potendo, così, comprendere le necessità di chi è stato prematuramente espulso dal suo nido, coglie il suo bisogno d’essere aiutato ad irrobustirsi e a crescere; coglie anche i segni del momento in cui prevale l’esigenza d’essere indipendente e libero. Finisce, così, il rapporto intimo, fatto di magnanimità e gratitudine; e l’essere generoso, la cui pietà è ora divenuta inutile, torna a sentirsi solo.

 
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Il fanciullo e l’averla – pag. 544
        S’innamorò un fanciullo di un’averla.
Vago del nuovo – interessate udiva
di lei, dal cacciatore, meraviglie –
quante promesse fece per averla!
 
L’ebbe; e all’istante l’obliò. La trista
nella sua gabbia alla finestra appesa,
piangeva sola e in silenzio, del cielo
lontano irraggiungibile alla vista.
 
Si ricordò di lei solo quel giorno
che, per noia o malvagio animo, volle
stringerla in pugno. La quasi rapace
gli fece male e s’involò. Quel giorno,
per quel male l’amò senza ritorno.

 

        È qui illustrato un atteggiamento tipico del fanciullo, e del fanciullo che c’è in ciascuno di noi: quando può, regredisce a quella fase in cui gli altri non sono percepiti come dotati di una propria esistenza autonoma, di un’effettiva realtà; essi sono solo un “fascio di proiezioni” (Winnicott, Ogden) la cui ragion d’essere è unicamente quella di soddisfare i desideri del piccolo. Appagati il desiderio di possesso e la curiosità, per il bambino l’averla diviene come un oggetto inanimato che non serve più, e di cui ci si può dimenticare. Solo quando per noia o per malvagità gli usa violenza, il fanciullo riscopre, o scopre per la prima volta, l’esistenza autonoma del volatile e, con essa, il desiderio di libertà dell’uccellino e la sofferenza per esserne stato privato. L’averla, infatti, dimostra in modo tangibile di sapersi difendere, di saper contrapporre la sua violenza alla violenza subìta, di non aver perso il desiderio di volar via, d’essere viva. Come avviene in tante relazioni fra esseri umani, il fanciullo inizia ad accorgersi della realtà del piccolo animale e ad amarlo solo nel momento in cui, entrato in un vero rapporto con lui, lo perde, e per sempre.  
        Non tutti gli esseri umani vivono la stessa esperienza maturativa del fanciullo di Saba: come dicevo più sopra, il fanciullo che c’è in noi ci porta “appena possiamo” a regredire a quell’antica fase della vita in cui il mondo era vissuto come un prolungamento di noi stessi, docile ai nostri comandi. Tale possibilità di regredire si offre a certi esseri umani che dispongono di un immenso potere economico e politico che nessuno riesce a contrastare. Anche i vani tentativi di ribellarsi di chi è sotto il giogo di costoro vengono soffocati grazie ai loro potenti mezzi. Questi vengono messi in moto dalla reazione emotiva con cui, in tali soggetti regrediti, viene preservato lo “universo narcisistico” in cui vivono: è la “rabbia narcisistica” (Kohut) con cui il soggetto tende ad annientare, come se non fosse mai esistito e non avesse il diritto di esistere, qualunque essere, persona o cosa che, per la sua natura, si discosti dalle aspettative onnipotenti del soggetto.
        È vana speranza pensare che possano recedere spontaneamente il delirio d’onnipotenza e l’incapacità di riconoscere la realtà degli altri di costoro. Questi “tiranni pazzi” continueranno ad essere tali finché il loro potere sarà incontrastato e finché la loro “rabbia narcisistica” sarà in grado d’annientare ogni ostacolo. Solo un’esperienza equivalente alla dolorosa “beccata dell’averla” della poesia di Saba potrà metterli in crisi. Ciò, tuttavia, non dipende da loro, ma da noi tutti, se vogliamo difendere la nostra libertà e fare in modo che la salute mentale prevalga sui disegni malati di quei potenti

 
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Quest’anno… – pag. 545
Quest’anno la partenza delle rondini
mi stringerà, per un pensiero, il cuore.
 
Poi stornelli faranno alto clamore
sugli alberi al ritrovo del viale
XX Settembre. Poi al lungo male
dell’inverno compagni avrò qui solo
quel pensiero, e sui tetti il bruno passero.
 
Alla mia solitudine le rondini
mancheranno, e ai miei dì tardi l’amore.

 

        “Quest’anno”, per il Poeta, il succedersi delle stagioni assumerà un nuovo significato. Per il giovane, la fine della bella stagione (preannunciata dalla partenza delle rondini) significa solo la conclusione di un episodio della vita, cui ne seguiranno altri del tutto simili: le rondini ritorneranno la prossima primavera, ed il ciclo ricomincerà. Viceversa l’anziano, cui l’autunno della vita si manifesta in mille modi, vede la partenza delle rondini come una separazione definitiva: al “lungo male dell’inverno” non seguirà una nuova primavera; e quel che è perduto, innanzi tutto l’amore, non potrà più tornare.

 
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Merlo – pag. 547
Esisteva quel mondo al quale in sogno
ritorno ancora; che in sogno mi scuote?
Certo esisteva. E n’erano gran parte
mia madre e un merlo.
 
Lei vedo appena. Più risalta il nero
e il giallo di chi lieto salutava
col suo canto (era questo il mio pensiero)
me, che l’udivo dalla via. Mia madre
sedeva, stanca, in cucina. Tritava
a lui solo (era questo il suo pensiero)
e alla mia cena la carne. Nessuna
vista o rumore così lo eccitava.
 
Tra un fanciullo ingabbiato e un insettivoro
che i vermetti carpiva alla mia mano,
in quella casa, in quel mondo lontano,
c’era un amore. C’era anche un equivoco.

 

        La nostalgia di un mondo perduto spinge a ritornarvi nei sogni, per cui ci si chiede se quel mondo è davvero esistito. L’adulto ammette, sì, che quel mondo infantile oggettivamente è esistito, ma deve anche riconoscere che ne prova nostalgia grazie alle illusioni che allora nutriva; illusioni fondate su equivoci. Egli, allora, non dubitava che tutto quel che c’era intorno a lui avesse l’unico scopo di soddisfare i desideri e i bisogni suoi e del merlo con cui s’identificava. Illusioni ed equivoci che, tuttavia, animavano il suo amore di bambino: il sentimento più intenso che ciascuno di noi prova nel corso della sua vita.

 
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Rosignuolo – pag. 548
Dice il nostro maggiore
fratello, il rosignuolo:
 
Iddio, che ha fatto il mondo e se lo guarda,
non di te si compiace, uomo, che a un’esca
– ahi, troppo irrecusabile! – dividi
noi che abbiamo la casa in siepe o in fronda.
 
Si tace. E, dopo una nota pietosa:
 
La voce – dice – più meravigliosa
del silenzio, è la mia. Dei pleniluni
d’Aprile a quali infiniti si sposa!
 
Dice a te il tuo maggiore
fratello, il rosignuolo:
 
La dolcezza del mondo è una una una.
Solo a lei canto al lume della luna.  

 

        Nonostante la sua ingenuità e fragilità, il rosignuolo è definito “fratello maggiore” dell’uomo. Quest’ultimo possiede, sì, la forza, l’astuzia e la raffinata crudeltà che gli permettono d’imporsi sulle altre specie. Ad esempio, sfruttando la cieca fiducia dell’uccellino, l’uomo riesce a catturarlo con un’esca per lui “irrecusabile”, e a strapparlo al suo nido e ai suoi amori. Tuttavia, l’essere umano, proprio perché dotato più degli altri di empatia, di affetto verso gli animali in cui si riconosce, e di sentimento della Bellezza, riesce ad ammettere la propria inferiorità morale ed estetica nei confronti degli esseri meno ingegnosamente malvagi e capaci di produrre spontaneamente un canto meraviglioso. L’uomo è in grado d’avvertire il fascino dell’infinito; ma non è altrettanto capace, quanto il rosignuolo, di crearne spontaneamente e inconsapevolmente, col suo canto, l’atmosfera.

 
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Quasi un racconto 

Libreria antiquaria – pag. 558
Morti chiedono a un morto libri morti.
 
Illusione non ho che mi conforti
in questo caro al buon Carletto nero
antro sofferto. Un tempo al mio pensiero
parve un rifugio, e agli orrori del tempo.
Ma quel tempo è passato oggi, e la vita
con lui, che amavo. E di sentirmi inerme
escluso piango come tu piangevi
quando eri ancora bambino e perdevi
tra la folla la madre tua al mercato.

 

        Quando si è costretti ad affrontare gli “orrori del tempo”, si sente il bisogno di trovare un rifugio che preservi l’integrità della vita interiore: gli ideali di Verità, di Bellezza, di Amore che le danno un senso, le sane ambizioni che spingono ad avvicinarvisi, le attitudini che, almeno in parte, lo consentono. Tutto questo rischia d’essere travolto da eventi che tendono a distruggere quanto di autenticamente umano c’è in ciascuno di noi. Saba trova un rifugio nella sua libreria antiquaria, dove la carta stampata continua a parlargli dei valori di un tempo.
        Tuttavia gli avvenimenti orribili lasciano dietro di sé solo macerie: qualcosa, nel mondo interno di ciascuno, è stato irrimediabilmente distrutto. Il Poeta si sente come morto, così come morti gli appaiono coloro che continuano a chiedergli il conforto di un libro. Ora ci sono soltanto angoscia e solitudine; si risvegliano le antiche, terribili sensazioni del bambino abbandonato. Non ci sono più, così dice il Poeta, illusioni che leniscano tali sofferenze. Tuttavia lo afferma scrivendo una poesia. C’è qui il solito paradosso dell’Arte: anche nel momento in cui esprime una totale e irrimediabile disperazione, trova in sé stessa gli unici tipi possibili di consolazione: risveglia i sentimenti di Verità, di Bellezza e, con esse, di Amore per la vita.

 
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DIECI POESIE PER UN CANARINO

 
1 A un giovane comunista – pag. 559

        Viviamo in un’epoca di conflitti, di prese si posizione contrastanti che hanno provocato rotture dei rapporti fra amici di vecchia data, persino tra famigliari. Su particolari questioni spinose si sono formate come due fazioni che spesso usano i metodi della lotta politica per imporsi l’una sull’altra. Ciò comporta la soppressione della capacità di comprensione empatica dei propri avversari. Solo poche persone la conservano: sono coloro che posseggono una particolare sensibilità per la vita interiore, soprattutto i Poeti e tutti quelli che comprendono e sentono la Poesia. Sono gli unici, a giudizio di chi scrive, che hanno la possibilità di ricomporre le fratture; all’opposto, coloro che sono impegnati nella lotta politica possono solo esasperare i conflitti. Saba ce ne parla nella poesia “A un giovane comunista”. Qui egli cerca, senza riuscirvi, d’illustrare al ragazzo il significato profondo della grazia e del canto del suo canarino.

 
Ho in casa – come vedi – un canarino.
Giallo screziato di verde. Sua madre
certo, o suo padre, nacque lucherino.
 
È un ibrido. E mi piace meglio in quanto
nostrano. Mi diverte la sua grazia,
mi diletta il suo canto.
Torno, in sua cara compagnia, bambino.
 
Ma tu pensi: i poeti sono matti.
Guardi appena; lo trovi stupidino.
Ti piace più Togliatti.

 

        Se per “matto” s’intende colui che è al di fuori della realtà, chi dei due è “matto”? Il Poeta o il giovane militante politico? Quest’ultimo non ha dubbi: lui sì che è sano, così pensa, perché s’interessa a cose importanti, concrete, “reali”. Al contrario, a suo avviso, il Poeta è “matto” perché si occupa di sciocchezze: è preso da fantasticherie frivole, che lo portano ad attribuire tanto valore ad uno “stupido” uccellino.
        Il Poeta sa bene che è vero l’esatto contrario. Sa altrettanto bene che è impossibile farlo capire al ragazzo finché questi è preso dall’infatuazione per il suo leader. La passione fanatica del giovane è causa ed effetto di un modo primitivo di vedere il mondo che gl’impedisce di comprenderne la realtà. È frutto di una scissione e di una negazione degli aspetti tutt’altro che amabili del suo idolo, e di un’idealizzazione estrema di ciò che, a torto o a ragione, ne ritiene positivo.   
       All’opposto, il Poeta è a stretto contatto con la realtà interiore di sé stesso e dei suoi simili. Ogni aspetto di ciò che percepisce mette in moto, in lui, l’immaginazione creativa che gli permette di coglierne i significati emotivi profondi. Vede, nel canarino, un ibrido, e oggettivamente si sbaglia. Ma non è questo che conta: nella fusione di due nature diverse che (erroneamente) attribuisce all’animaletto egli vede sé stesso bambino. Anche Saba, infatti, fu un “ibrido” nato dall’unione di due esseri umani profondamente diversi fra loro. Anche il piccolo Saba, anticipando quel che presto diverrà il Poeta, seppe armonizzare le due nature dei genitori, tra di loro in conflitto ed entrambe da lui ereditate, ricomponendone la frattura tramite la sua grazia e il suo canto. Seppe ricondurre sotto il dominio della Bellezza il contrasto fra i due modi di essere di chi l’aveva messo al mondo. Si trattava del conflitto non solo fra due personalità, ma anche fra due culture e due mondi: quello ebraico materno e quello “gentile” e laico del padre.
        La capacità del Poeta d’armonizzare le diversità è all’opposto di chi, impegnato nella lotta politica, tende ad esasperare i contrasti e non conosce altro modo, per superarli, che non siano la sopraffazione e l’annientamento dell’avversario. Chi dei due è “matto”?  

 
 
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3 Palla d’oro – pag. 561
Con ali tese e il becco aperto a volte
egli perfino mi sfida… Non vede
sé, come vedo me stesso. Ed in questo
non vedersi è la sua felicità.
 
Moto perpetuo non si ferma un breve
momento……………………………….
………………………………………….
sempre ha qualcosa da fare e la cosa
che fa lo prende interamente. In canto
(sia gioia o pena) in trilli si diffonde.
…………………………………………
 
Viene lenta la sera. Lentamente
tace, si gonfia. Fiducioso al sonno
si chiude, e in sé, come una palla d’oro.

 

        Il Poeta vede nel suo uccellino, che egli accudisce con affetto materno, un bimbo piccolo. Le cure della madre preservano questo bambino immaginario dalle angosce che una prematura coscienza di sé gli causerebbe. Egli può far sfoggio di una forza che, nella realtà oggettiva, non possiede e che solo l’accondiscendenza materna gli fa credere di possedere. Ciò gli consente di vivere sereno, di dedicarsi anima e corpo alle attività che ritiene importanti, di esprimere col canto lo stato d’animo del momento; e tutto questo senza mai essere paralizzato dall’angoscia della propria impotenza, o dal senso di colpa per avere “volto lo ciglio al suo Fattore”. Gli consente anche, quando preso dalla stanchezza, d’abbandonarsi al sonno, fiducioso del fatto che le cure materne interiorizzate lo proteggeranno.

 
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4 I libri – pag. 562
I libri che ti rendo, amico (e sono
meravigliosi) io non li ho letti. È molto
se vi ho dato uno sguardo. A me riposo
è il libro vivo che, se i tuoi non vale,
vale quanto una favola. Per lui,
vecchio fanciullo, questa volta ancora,
nel mondo dei volatili mi perdo.
 
Copio i suoi usi e costumi. Gli amati
bagni – disperazione di mia moglie –
sono una festa ai miei occhi. E le foglie
che nel becco qua e là porta. La vita,
lei che tanti giocattoli mi ha tolto,
mi rende al fine il più innocente: in gabbia
nato un uccello che in gabbia non soffre.
Puoi d’un vecchio sorridere. Puoi anche,
se più ti piace, perdonargli.

 

        Nel profondo dell’anima, noi non siamo esclusivamente quel che la nostra età suggerisce: anche in vecchiaia, continuiamo ad essere il giovane che il mondo esterno non vede più, continuiamo ad essere il bambino oggettivamente scomparso. Più che senza tempo, esiste in noi una dimensione che contiene tutti i tempi: anche quello dell’infanzia, l’età in cui il gioco era l’attività preferita e la più importante.
        La vita del Poeta, in passato, gli “ha tolto tanti giocattoli”; ossia, con le sue vicende tristi e angoscianti ha più volte minacciato di distruggere il suo piacere di esercitare la propria immaginazione creativa: quella che, nell’attività ludica infantile trova la sua espressione più innocente e genuina. Ora, a tarda età, ha trovato il suo “giocattolo”, vale a dire un oggetto transizionale nel quale una parte del suo mondo interno può rispecchiarsi, riprendere vita e assumere le sembianze di un oggetto della realtà esterna. Si tratta di un canarino nato in gabbia: un essere, quindi, che non può vivere la propria condizione come quella opprimente di un prigioniero. Al contrario, protetto dalle insidie del mondo, si dedica serenamente, e con grazia, a tutto ciò che gli serve per sopravvivere.
        Per il Poeta, l’uccellino rappresenta come un “libro vivo”, una “favola” che ci parla di un mondo in cui dominano la spontaneità infantile e la felicità, fatta di poche cose, che solo un bimbo sa provare. Per il Poeta, “vecchio fanciullo”, tutto ciò è necessario, e preferibile rispetto ai libri “seri” (di cui pure riconosce la bellezza e il valore) che l’amico gli ha prestato.

 
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5 Canarina azzurra – pag. 563
Meravigliosa canarina azzurra
ti sceglievo a compagna. La più bella,
la più rara al mercato. Una gran dama.
 
Eros ha le sue leggi; è un dio difficile
non solo – sembra – agli umani. L’uccella,
immessa appena nella gabbia, subito
saltò da te per un bacetto. (Come
ti conoscesse da sempre). E tu come
piccolo drago inferocito, subito
(forse geloso di lei) la scacciavi.
Durò tre giorni lo strazio; ed all’ultimo
parve opportuno separarvi. Ancora
coi tuoi radicchi ti consoli. E a un tratto
non canti più, rechi nel becco intorno
filo ed altro che trovi e stimi atto
a un nido inesistente. M’hai deluso,
e con me quella che mi disse: “Devi
comperarle una moglie”. Ed ira e pena
mi fai. Pure la colpa è tua, se colpa
v’è, v’è mai stata, in queste cose…  

 

        Di fronte ad un eventuale oggetto d’amore, sono possibili due reazioni. La prima è l’idealizzazione subitanea (il “colpo di fulmine”). Essa, se contraccambiata, produce quel fenomeno chiamato “luna di miele”. La seconda reazione è, all’opposto, un rifiuto istintivo, spesso violento. Le due reazioni talora possono trasformarsi l’una nell’altra: la luna di miele può concludersi con il crollo del rapporto, nel momento in cui si scopre che si è amato l’altro per quel che non è. Il rifiuto iniziale (se accompagnato da una paradossale attrazione per la persona che si sta disprezzando) può sfociare nell’amore. Ciò succede quando i motivi d’ostilità vengono superati con il possesso dell’altro: “Non c’è più ragione d’invidiarti perché ora sei mio/a”.
        Alla base di entrambe le reazioni c’è un forte investimento affettivo nei confronti di un oggetto d’amore ideale. Nel caso del colpo di fulmine, il soggetto s’illude d’averlo trovato nella realtà, salvo poi ricredersi. Nel caso del rifiuto violento c’è un grosso ostacolo allo sviluppo dell’amore: non si possiede ancora l’altra persona; le sue qualità (sotto sotto apprezzate ed amate) sono un possesso esclusivo dell’altro; possesso invidiato perché non condiviso col soggetto. Può essere che l’altra persona non possegga del tutto le qualità dell’oggetto d’amore ideale; nel qual caso, la reazione è l’indifferenza, e non un attivo rifiuto.
      Ci sono esseri umani che, come il canarino di Saba, sono incapaci di passare dal rifiuto all’amore. Costoro non smettono di sognare un “nido” creato con qualcuno che amano. Tuttavia tale sogno non potrà mai divenire realtà: il nido che preparano è “inesistente”. Il Poeta esprime un dubbio che tale ostinato rifiuto sia una vera e propria colpa. È un dubbio giustificato: il canarino vive in una gabbia, non ha potuto scegliersi liberamente la sua compagna, la pur deliziosa canarina azzurra gli è stata imposta.
        Anche gli esseri umani possono avere una loro “gabbia” (interiore e/o esterna) che ostacola le loro libere scelte. È possibile, ad esempio, che la vita nella famiglia d’origine sia talmente invivibile che la persona non ancora emancipata, pur di allontanarsene, si getti fra le braccia del “primo che capita”; in tal modo il rapporto di dipendenza e di schiavitù interiore viene semplicemente spostato (e non superato), attraverso il legame con una persona inadatta ad aiutare il soggetto. È possibile che la persona fragile ceda alle pressioni di altri, finendo per accettare un coniuge che non desidera.
        Eros è un dio difficile; e, se non si capiscono le sue leggi (se non si comprendono in profondità le esigenze affettive dell’animo umano, quelle proprie e quelle altrui), è assurdo e inutile giudicare le cose in modo moralistico, dando a qualcuno la “colpa” dei drammi che continuamente succedono.

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6 Quasi una moralità – pag. 564
Più non mi temono i passeri. Vanno
vengono alla finestra indifferenti
al mio tranquillo muovermi nella stanza.
Trovano il miglio e la scagliuola: dono
spanto da un prodigo affine, accresciuto
dalla mia mano. Ed io li guardo muto
(per tema non si pentano) e mi pare
(vero o illusione non importa) leggere
nei neri occhietti, se coi miei s’incontrano,
quasi una gratitudine.
                                      Fanciullo,
od altro sii tu che mi ascolti, in pena
viva o in letizia (e più se in pena) apprendi
da chi ha molto sofferto, molto errato,
che ancora esiste la Grazia, e che il mondo
– TUTTO IL MONDO – ha bisogno d’amicizia.

 

        Chi possiede la “Grazia” dispone della risorsa umana che consente di preservare la vitalità, la creatività, i sentimenti di Bellezza e di Verità, la buona disposizione d’animo verso gli altri. Lo preserva dall’effetto devastante di tutte quelle insidie della vita che, nei più fragili e nei meno fortunati, sopprimono quanto c’è in loro di più elevato e di propriamente umano, rendendoli meschini, grettamente egoisti, sgarbati, incapaci di buoni sentimenti, ipocriti, irrimediabilmente colpevoli.  
        La parola “Grazia” (Lessico Universale Italiano, Vol. IX, pag. 369 e seg.). deriva dal latino “gratia” che, a sua volta, deriva da “gratus” (gradito, riconoscente). Condensa diversi significati: 1) “Qualità naturale di tutto ciò che, per una sua intima bellezza, delicatezza, spontaneità, finezza, leggiadria, o per l’armonica fusione di tutte queste doti, impressiona gradevolmente i sensi e l’animo altrui” [Bellezza: l’individuo dotato di grazia avverte la propria bellezza (esteriore e/o interiore) riflessa negli occhi altrui che lo guardano; non solo capisce di cosa si tratti, ma ne vive anche un’esperienza che coinvolge il suo essere; ne acquisisce il sentimento – Spontaneità: contatto con la Verità di sé stesso] – 2) “Buona disposizione dell’animo verso altri, favore, benevolenza, amicizia: prendere in grazia… qualcuno” [Benevolenza: capacità di ravvisare le buone qualità (attuali o potenziali) di una persona, anche quando non sono evidenti, e di premiarle con atti di generosità. Se l’individuo benevolo non ha sbagliato il suo giudizio (se ha colto la Verità dell’altro), ottiene, in risposta alle sue manifestazioni di stima, la riconoscenza dell’altro. Si crea, così, un circolo virtuoso] – 3) “Concessione straordinaria (di un benefizio, d’un favore o d’altra cosa richiesta) fatta, per atto di generosità, da un altro personaggio o in genere da maggiore a minore” – Una concessione di estrema importanza è, per la teologia: 4) “L’aiuto soprannaturale che Dio concede all’uomo per guidarlo nella via della virtù e concorrere alla sua santificazione”.
        Il Poeta, com’è sua abitudine, vede nel suo rapporto con gli uccellini (riflesse o puramente immaginate) le più importanti realtà umane. Vi coglie l’origine prima della “Grazia”. Innanzi tutto, l’instaurarsi di un rapporto di fiducia fra chi riceve qualcosa di vitale importanza (come il cibo) e chi lo offre. Nel primo, si sviluppa gradualmente la capacità di contenere la paura e il sospetto. Nel donatore, tale sviluppo viene favorito dalla sensibilità e dalla prudenza: evita qualsiasi passo falso (un tono aspro della voce, un brusco movimento) che potrebbe far ripiombare l’altro nel timore e nella diffidenza. Vengono poi il gesto di generosità e, se esso viene riconosciuto come tale, la gratitudine.
        Chiunque abbia fatto esperienza di Grazia è in grado di riprodurla nei suoi rapporti con gli altri esseri viventi. È anche in grado, come dicevo, di preservarla dagli effetti distruttivi di tutto ciò che è fonte di sofferenza e frustrazione. Affinché questo avvenga, è necessario che la Grazia si sia saldamente insediata nel mondo interno; e questo è possibile soprattutto se il soggetto l’ha vissuta in epoca precoce. La sensibilità del Poeta gli permette di coglierne la radice in un rapporto felice di tipo materno-nutritivo. I credenti affermeranno che questa è una manifestazione di Dio sulla terra. I laici porranno l’accento su quanto di essa, in questa vita terrena, è osservabile. Quel che non cambia, nell’uno e nell’altro modo di vedere (che non necessariamente si escludono l’uno con l’altro) è che la Grazia è l’unica realtà interiore su cui può fondarsi il destino favorevole di ogni essere umano; e, quando e se possibile, la sua felicità.

 
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8 Pretesto – pag. 566
C’è tanto miglio alla finestra. E i passeri
si azzuffano tra loro; in gabbia due
vaghi uccelletti che pensavo il nido
facessero concordi. È tutto un grido
di collera. E il mangiare avanza sempre,
sprecato. Che per noi non sia e quei piccoli
una ragione di guerra, un pretesto?

 

        Dall’alto della nostra posizione di persone evolute assistiamo, con il sorriso di chi si sente superiore, alle zuffe insensate di questi esseri primitivi, come se la cosa non ci riguardasse. La rivalità per il possesso del cibo rappresenta, per questi uccelletti, un “casus belli” che coinvolge tutti nella rissa, anche quelli che si supponeva fossero legati da un rapporto d’amore, avendo costruito insieme un nido. La contesa, agli occhi dell’osservatore esterno, si rivela del tutto irragionevole: il cibo è abbondante, ce ne sarebbe per tutti; in più, nella furia distruttiva della rissa, molto ne va sprecato.
        La sensibilità del Poeta, tuttavia, lo porta ad esprimere un dubbio: noi umani, che nella nostra storia non siamo mai riusciti ad evitare le guerre, siamo davvero del tutto superiori a questi animaletti? Non esiste anche in noi un fondo di narcisismo primitivo e intollerante che talora riemerge anche negli individui più maturi e nei popoli più evoluti? Si tratta di quel modo primordiale di vedere il mondo che ci porta a pretendere d’essere gli unici ad avere il diritto di nutrirsi (a possedere tutto ciò che è prezioso, come il cibo, o la ricchezza, o il potere), mentre gli altri, che vorrebbero fare altrettanto, vengono visti come nemici da annientare.
        È convinzione diffusa che il motivo ufficiale delle guerre non sia quello vero e che si tratti, in realtà, di ragioni economiche. C’è, tuttavia, motivo di pensare che tali ragioni rappresentino spesso, a loro volta, un pretesto: in realtà, una convivenza pacifica e/o un rapporto di collaborazione, garantirebbero prosperità per tutti, anche una crescente prosperità. Certamente c’è sempre qualcuno che trae vantaggio dalle guerre; tuttavia costui condanna sé stesso, per il resto dei suoi giorni, a vedere insidiato il suo bottino; ci saranno, inevitabilmente, altri conflitti e, prima o poi, il vincitore di ieri diventerà lo sconfitto (il derubato, lo sfruttato) di domani.
        Ed il “cibo”, che avrebbe potuto essere abbondante per tutti, andrà sprecato.

 
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9 Risveglio – pag. 567
Rissano tutto il giorno, a notte dormono,
come gli altri uccelletti, piuma a piuma.
(A riparo suppongo di un nemico,
qui dove sono, improbabile). Sveglio
prima ancora dei passeri, tra poco,
lo so, mi chiameranno. Creature
di Dio e del sole, oggi per voi ricordo
la mia balia adorata, lei che prima
mi regalava un lucherino e, ignara
del mio destino, m’insegnò ad amarvi.

 

        Il momento del risveglio è quello in cui ogni essere vivente riemerge da un’esperienza in cui deve fare i conti unicamente con sé stesso, protetto da stimoli esterni disturbanti o insidiosi. Ne riemerge ed affronta il mondo esterno e la vita della veglia. Gli uccelletti che, svegli, incontrano le cure amorevoli del Poeta, gli rammentano la sua adorata balia che, con la sua dedizione affettuosa, gli permise di superare il trauma dell’abbandono da parte della madre, e di riconciliarsi con la vita. La balia insegnò al piccolo Saba ad amare questi esseri primitivi, ingenui, indifesi, in quanto “creature di Dio e del sole”, ossia amarle per il solo motivo d’essere creature viventi. Fu lo stesso tipo di amore che la donna nutrì per lui bambino, ignara di ciò che il piccolo sarebbe diventato crescendo: se un grand’uomo, o un essere mediocre, o meschino; se destinato ad un futuro di gloria, o di sconfitta e umiliazione. Lo amava (e gli permise di amare sé stesso e gli animaletti in cui si rispecchiava) perché frutto di quel prodigio, prodotto da Dio e dalla natura, che è la nascita della vita.

 
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10 Amore – pag. 568
Questa mattina, e come li portavo
alla finestra, ebbi sorpresa lieta.
Si scambiavano in becco il cibo, oggetto,
ieri ancora, di tanta lite. È il modo
 – il loro – di baciarsi e dirsi grati
l’uno all’altro di esistere. È già il nido

 

        Da un giorno all’altro, gli uccellini mostrano d’essere pervenuti a quel tipo di evoluzione che, anche negli umani, non riesce mai ad essere completa e stabile: il passaggio da un’esperienza dell’altro (in quanto tale, indipendentemente dalla sua particolare natura) visto come rivale da sottomettere o da annientare, ad una in cui il soggetto e qualcuno degli altri sono “grati l’uno all’altro di esistere”. Il carattere di tale esperienza evoluta è riassunto dai due significati, legati fra loro, della parola “grato”: “gradito” e “riconoscente”.
       Nella situazione illustrata dal Poeta, il motivo del reciproco gradimento e della reciproca gratitudine è la pura e semplice esistenza in vita di entrambi. Ciò rimanda a quei rapporti fondamentali che sono legati alla nostra stessa natura biologica. Se la nostra esistenza in vita ci è gradita, dovremmo essere riconoscenti verso i genitori, che ce l’hanno donata. Purtroppo, tale sentimento è talora contrastato da esperienze che ci hanno fatto sentire di non essere del tutto graditi a chi ci ha messo al mondo: esperienze di veri o presunti maltrattamenti subiti, d’incomprensioni, di abbandono. Qui la reciprocità dei sentimenti di gradimento e di gratitudine viene difficilmente ripristinata (e talora, purtroppo, ciò diviene impossibile).
        Crescendo, si va incontro ad un altro rapporto, legato alla nostra natura biologica, che può essere reciprocamente valorizzante: quello d’amore fra uomo e donna. Qui ciascuno dei due, più è consapevole del pregio delle proprie qualità e attitudini, più saprà comunicare l’importanza che attribuisce alla persona cui tali aspetti di sé stesso, sono stati offerti in modo privilegiato o esclusivo. Più vedrà riconosciuto il pregio di ciò che offre, più si rafforzerà il sentimento del proprio valore. Il risultato di tale relazione è la creazione di altri esseri viventi cui apparterranno le qualità apprezzate di entrambi. La loro esistenza in vita sarà gradita, e si proverà gratitudine per la loro pura e semplice comparsa nel mondo di chi esiste.
        Ecco perché, se nasce un rapporto d’amore, “è già nido”: è già possibile godere, in parte o del tutto, direttamente o per interposta persona, quella condizione primordiale (quella in cui s’inizia ad esistere nel ventre materno, e poi fra le braccia della mamma) in cui si è ritenuti degni di tutte le cure e di tutto l’amore che ci occorrono, per il puro e semplice fatto di esistere, senza che ci sia la necessità di fare qualcos’altro per meritarseli: la “llaneza” di Borges. È la condizione da cui origina il sentimento di “sacralità” della vita, e soprattutto della vita umana.
        Come nel rapporto fra genitori e figli, anche in quello fra uomo e donna la “llaneza” è spesso contrastata da sentimenti e comportamenti che rendono non più gradita l’esistenza l’uno dell’altro. È l’eterna lotta fra amore e odio, il che equivale alla contesa fra evoluzione e regressione, fra vita e morte, fra Eros e Thanatos. Tuttavia, se la nostra specie non si è estinta è perché finora Eros ha prevalso. Dipende da noi che continui a prevalere.

 
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Un orientale – pag. 569
Il racconto – una sfida al mio destino,
che incombe grave e minaccioso (è quello
di tutto il mondo) – un Orientale (ed io
lo sono, almeno in parte; e il falso oblio
dei mali è all’oppio che lo chiesi) in tempi
o migliori o diversi, egli l’avrebbe
per te favoleggiato un po’ altrimenti.
STORIA sarebbe il suo nome DI UN VECCHIO
POETA E DI UN GIOVANE CANARINO.

 

        Saba, data la sua origine ebraica dal lato materno, sente d’appartenere in parte al Medio Oriente, il luogo in cui le principali Religioni ebbero origine. Egli si accosta a quest’aspetto mistico della sua natura con una “visione binoculare” (Bion), ossia considerandola contemporaneamente da due punti di vista contrastanti.
        La fede in Dio rappresenta una “sfida al destino grave e minaccioso” che incombe sugli esseri umani. È la certezza dell’esistenza di un Padre che ci ama, che farà prevalere la giustizia premiando gli aspetti di noi più incorrotti e spiritualmente più elevati. L’altro punto di vista che qui il Poeta sembra adottare è quello pessimista e dissacrante: egli vede nella Religione (con chiaro riferimento a Marx) una sorta di “oppio” che consente ai popoli d’ignorare e dimenticare i mali che governano il mondo e che li affliggono. La fede, secondo il Poeta, potrebbe prevalere “in tempi migliori o diversi” da quello in cui vive, ma non in quest’ultimo. Eppure, benché negandolo, egli sceglie di fatto il punto di vista opposto a quello pessimista: nei suoi versi ha scritto davvero la “storia di un vecchio poeta e di un giovane canarino”.
        Nell’uccellino vede riflesso l’aspetto originario, incorrotto e più autentico della propria umanità. Si tratta di una storia volutamente “favoleggiata”, ma proprio per tale consapevolezza non è una favola, ossia una fuga nella fantasia: è il reale confronto fra il vecchio Poeta disincantato e la vitalità incontaminata e ingenua del giovane animaletto; una vitalità che finora nessun male del mondo ha potuto sopprimere del tutto.

 
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Invio – pag. 570
Dopo tre anni di silenzio ho scritto
pochi versi. Non posso
mandarli a te, di cui sì cara m’era
(mi sarebbe) una lode. (Ignoro l’animo
con cui li accoglieresti). Ma trafitto
mi sento il cuore da una punta acuta
come un rimorso.

 

        Saba qui allude a quanto troviamo scritto nella Prefazione: “nella ‘lettera aperta’ premessa ad Uccelli… vi avevo formalmente promesso che non avrei scritto più poesie…” (…) “non è stato senza un senso di rimorso e quasi di vergogna che ho mancato alla promessa.”. Al Poeta, per essere un vero Poeta, occorre mantenere sotto il suo controllo le proprie tendenze narcisistico-esibizioniste. Esse trovano, sì, espressione nel rivelare ad altri quel che avviene nel proprio mondo interno, ma, per risultare accettabili, devono porsi al servizio dell’Arte. Devono, cioè, rendere noto il lavoro interiore di tipo riparativo, compiuto dall’Autore, il cui scopo è ripristinare la pienezza della vita contro tutto ciò che vi si oppone, a cominciare dall’esistenza della morte. Devono, inoltre, esprimersi in una forma che renda tale lavoro comprensibile e fruibile anche per il lettore.
        Il fallimento dell’Artista è segnalato dal sentimento di vergogna, che compare quando le tendenze esibizionistiche vengono frustrate. È il rischio che corre il Poeta anziano, che si esprime con un linguaggio e parla di argomenti che possono non appartenere più alle nuove generazioni. A tale sentimento si aggiunge quello di rimorso, come se il tornare ad immergersi nella vita fosse una sorta di usurpazione di un diritto che dev’essere prerogativa dei giovani.  
        Sempre nella Prefazione, Saba cita i due ultimi versi de ‘I libri’: “Puoi d’un vecchio sorridere. Puoi anche, / se più ti piace, perdonargli”. Le residue manifestazioni di vitalità dell’anziano possono essere “perdonate” ed accolte con un sorriso di simpatia (che maschera un vago sentimento di compassione) a condizione che egli abbia accettato di ritirarsi dalla vita attiva, rinunciando al ruolo di co-protagonista per assumere quello di vecchio saggio, che viene consultato solo in caso di necessità. Un ruolo, questo, che prelude al ritiro definitivo dall’esistenza.

 
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Le mie poesie – pag. 573
Il buon Carletto mi diceva: “Vedo
che proprio deve farle”. Devo come
la gallina fa l’uovo. Questo un giorno
me lo disse mia figlia. (Aveva allora
dieci o undici anni). Immaginava,
con tutto il mondo in miniatura, chiudere
suo padre in una gabbia. Il vino e i cibi
erano buoni, anzi eccellenti. In cambio
sua madre o lei tra le sbarre carpivano
il mio lavoro d’ogni giorno in vari
multicolori bei fogli volanti.

 

        La creatività del Poeta (soprattutto di un Poeta come Saba) è qui ricondotta al modo di essere ed alla voce del bambino che sopravvive in noi. Una voce ingenua, incorrotta e, proprio per questo, capace di cogliere, in modo diretto, fantasioso e senza distorsioni, le realtà interiori più importanti – Colpisce, in questa poesia, il linguaggio semplice, comune, privo di quelle espressioni e di quei termini sofisticati che spesso usano i Poeti; un linguaggio che potrebbe essere comprensibile anche ad un bambino –
        Saba, per il tramite dell’ingenuo Carletto e della figlia, allora ancora piccola, illustra quel che è essenziale nella sua produzione poetica: è un’attività spontanea, che proviene dalla sua stessa natura, e non frutto di un compito assegnato da qualcuno, o di un proposito cosciente, o di un’auto-imposizione; egli scrive poesie così come la gallina fa l’uovo.
        Il bambino creativo che c’è in lui ha bisogno d’essere preservato dall’impatto diretto e brutale con le insidie del mondo: dev’essere protetto, come la gabbia protegge il canarino. Nello stesso tempo, il mondo dev’essere presente accanto a lui. Tuttavia deve trattarsi di un mondo “in miniatura”; un mondo che, benché riproduzione fedele di quello esterno, non dev’essere fatto di cose più grosse di lui, che egli non sarebbe in grado di affrontare. Infine, la sua natura fragile ha bisogno d’essere sostenuta dalle cure e dall’amore di chi lo circonda.  
        Come il bambino, anche il Poeta può sopravvivere solo se il suo particolare modo di essere e la sua stessa esistenza sono sorretti da chi gli vuole bene: dai familiari e, se riescono a sentire la bellezza dei suoi versi, dai lettori.

 
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Momento – pag. 576
Gli uccelli alla finestra, le persiane
socchiuse: un’aria d’infanzia e d’estate
che mi consola. Veramente ho gli anni
che so di avere? O solo dieci? A cosa
mai mi ha servito l’esperienza? A vivere
pago a piccole cose onde vivevo
inquieto un tempo.

 

        Tutto ciò che evoca nel Poeta le vacanze estive dell’infanzia riporta alla luce in lui la stessa vitalità che si risvegliava allora. Era il periodo in cui l’ambiente familiare diveniva più permissivo, e trovavano maggior spazio la spontaneità e il gioco. Ora, anziano, scopre che il bambino vivace e fantasioso che egli fu a dieci anni non è mai morto, e constata con stupore che tutta l’esperienza di una vita ha prodotto, in lui, solo un unico, benché importante, cambiamento: la sua acquisita capacità di assaporare fino in fondo il gusto delle “piccole cose”: il gioco, l’esperienza transizionale in cui egli può dar forma alle sue realtà interiori; le stesse piccole cose che allora, non comprendendone pienamente il valore e temendo di trascurare le cose più “importanti”, viveva con inquietudine.

 
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Lina e la canarina azzurra – pag. 578
“Come a lei t’avvicini emette chiari
argentini suoi ciu così ploranti
che ti feriscono l’anima. Pianti
che vengono dal fondo della vita,
dell’esistere, e trovano la gola
sua d’uccelletta”. “I suoi non sono pianti –
mi dice Lina – tu esageri”. Mai,
se parla a mio conforto, le ho creduto.
 
Ed una falsa pietà mi ha perduto.    

 

        Il Poeta avverte, nei “ciu” della canarina quando qualcuno le si avvicina, qualcosa di primordiale che accomuna tutti gli esseri viventi: l’angoscia e gli atteggiamenti imploranti di ogni essere fragile al suo primo impatto col mondo. È un’antichissima esperienza le cui tracce permangono nel fondo dell’anima di ciascuno e che, se evocata in persone particolarmente sensibili come il Poeta, risveglia lo stesso strazio di quel tempo. La moglie Lina, non sopportando che il suo uomo soffra, cerca di confortarlo riportandolo a quella che lei pensa sia la “realtà”: il verso della canarina, così gli dice, non è altro che una vaga espressione di disagio di un animaletto; sentirlo come pianto è un’esagerazione. Saba non può prestarle ascolto: quella della donna è una pietà “falsa” perché, pur di consolarlo, gli propone un’immagine inautentica e superficiale del mondo; e, in risposta a tale falsa pietà, egli finisce per sentirsi incompreso, ancor più solo, perduto.

 
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Lettera – pag. 581
Linuccia mia, perdonami se invece
di una lettera attesa mando ancora
una poesia. Tuo padre che si fece
di te sostegno, che da te rinacque
(e sia per poco, sia per ricadere
da più alto) è ubriaco. E non di vino.
 
Sappi che il libro andrà pel suo destino
col nome che gli hai dato tu: AMICIZIA.

  

        Mettere al mondo un figlio, sostenerlo nella sua crescita e infine, avendolo aiutato a rendersi autonomo, vederlo andare per la sua strada: tutto questo risveglia intensi sentimenti contrastanti. C’è l’orgoglio del genitore che si dimostra all’altezza del suo ruolo, che rinasce e torna a crescere insieme alla propria creatura, e che raggiunge il culmine della gioia (una sorta di ebrezza) quando il lavoro è compiuto. Una gioia, tuttavia, che, come l’ebrezza, non è disgiunta da una crescente malinconia: la creatura andrà per il suo destino; un destino ormai diverso e sempre più contrastante rispetto a quello del genitore. Mentre il figlio raggiunge il culmine dell’età adulta e feconda, il genitore ricade nell’impotenza: è il declino, privo della speranza di potersi risollevare, di chi è vecchio. È un’esperienza che si ripropone ad ogni opera creativa, anche quando si concepisce nella mente l’idea di un libro, lo si scrive, lo si porta a compimento e, infine, pubblicandolo, lo si lascia nelle mani degli altri, dotato ormai di un’esistenza tutta sua, destinato a sopravvivere al suo autore.

 
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Il bagno del passero – pag. 582
C’era sul davanzale una scodella
piena d’acqua. Era là dimenticata.
Era l’alba. (L’avevo io là posata;
ma per altri). Venuto per il pane
suo quotidiano la scopriva un passero.
Stupito si guardò (o mi parve) intorno.
V’immerse prima la testina; poi
(il mondo è tutto casa sua, e la mia
col resto) entrava tutto quanto in quella.
Breve fu il mio stupore ed il suo sguazzo.
Improvviso partì come venuto.
 
Io credo in queste cose, io che ho creduto
sempre nei miei modelli. E se più biasimi
n’ebbi che lode, non è stato sempre
– come illusa tu pensi oggi – un sollazzo.

 
Ai miei modelli – pag. 583
Anche lui mi diceva, come il giovane
comunista, che siete stupidini,
l’amico che mi fu diletto tanto,
che avrei per il suo bene dato il canto
più dolce e la mia vita anche.
                                                  Ma voi
volate sopra le miserie umane.
E quando all’alba spuntare rivedo,
tra le griglie da me lasciate aperte,
vostri cari musetti; in dubbio sempre
tra il desiderio e la paura – il dono
vi tenta e il rischio vi trattiene – o ramo
farvi di cosa che sporga, se v’amo
è come un bimbo ed un vecchio. Ma il vecchio
sa più cose, ed adora la purezza.

 
Che serve all’uomo anche la sua grandezza,
se il mistero per lui resta mistero,
e ha perduto per via la grazia?

     

        Il bimbo ama gli uccellini perché riconosce in questi piccoli esseri la stessa qualità che appartiene anche a lui: la Grazia che, di solito, si perde dopo i primi anni di vita, che qualcuno recupererà temporaneamente e in parte durante l’adolescenza e che pochissimi, come il Poeta, manterranno per tutta la vita. “Grazia” è la parola-chiave di queste due ultime poesie, così come lo era stata in “Quasi una moralità” (pag. 564).
        Come scrivevo nel commento a questa poesia, il concetto di Grazia condensa l’idea di Bellezza, di benevolenza, e di dono straordinario. È dotato di “Grazia” chi sente d’essere in armonia col mondo (il mondo è “tutto casa sua”); chi gode di quel dono straordinario che è la vita ed avverte in tale dono un atto di benevolenza; infine chi, in virtù di tali esperienze, sa trasmettere agli altri e a sé stesso un sentimento di Bellezza.
        Il bimbo, come l’uccellino, non ha bisogno di ricostruire col pensiero l’esperienza della Grazia: essa è compenetrata nel suo essere, egli “è” la Grazia allo stato puro. Il vecchio Poeta riscopre tale purezza in virtù della sua esperienza di tutti gli altri aspetti, meno importanti, della vita. Si è reso conto che quel che rende grande l’uomo, la capacità di pensare, lo porta inevitabilmente a scontrarsi col “mistero” del mondo, a rompere l’armonia originaria; armonia che deve faticosamente ripristinare con la sua Arte.
        Non altrettanto accade alla maggior parte degli esseri umani che, nel corso della loro esistenza, “hanno perduto per via la Grazia”. Questo fa sì che costoro, di fronte a questo dono divenuto per loro inaccessibile, divengano ostili verso il Poeta, che l’ha preservato. Lo trattano con freddezza, con mal celato disprezzo, lo fanno oggetto di biasimo perché (come tutti gli invidiosi) privano di ogni valore e colpevolizzano ciò da cui si sentono esclusi. Il “gioco” di questo “vecchio fanciullo” che è il Poeta (i suoi canarini nei quali ritrova la purezza originaria della Grazia) non può, perciò, essere sempre per lui un “sollazzo”.

 
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Ognuno a sé stesso è fedele – pag. 584
L’assenzio della vita, anche il suo miele,

ho nel cuore. Operoso per me stesso,
aiuto, come posso, gli altri. E gli altri
sono, a volte, più chiusi…
…………………………………………….
 

        Il Poeta afferma di aver assimilato (o, meglio, di non aver scacciato dalla coscienza e dimenticato) “l’assenzio della vita”. L’assenzio è, innanzi tutto, sinonimo di amarezza. Evoca anche il liquore fortemente alcolico che, inebriando, suscita un senso di confusione. Afferma, inoltre, d’aver assimilato “il miele”, ossia le dolcezze che possono confortare chi è amareggiato. A differenza di chi, dimenticando rapidamente le disillusioni della vita (soprattutto quelle più dolorose: le più antiche) e non riuscendo più a comprendere quelle altrui, si chiude nel proprio egocentrismo, il Poeta continua ad averle presenti; il che lo rende “operoso per sé stesso”, nello sforzo di medicare le ferite che le avversità hanno prodotto nel suo mondo interno. Nello stesso tempo, rendendo noto con la Poesia il suo lavoro interiore, aiuta alche gli altri a svolgerlo. Lo fa “come può”, ossia con gli strumenti di cui dispone un Artista.
        Non dissimile è la situazione del (vero) curante: anche lui, “operoso per sé stesso” lega questo lavoro auto-riparativo al suo compito terapeutico, aiutando nel contempo sé ed i suoi pazienti. Lo fa anche lui “come può”, ossia per quanto gli consentono la sua cultura scientifica ed i suoi strumenti tecnici.

 
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Nostalgia – pag. 585
Con occhi intenti seguono ogni mossa
delle mie mani industri a rinnovare
la gabbia al novo giorno. Un’ombra appena
d’apprensione superstite, visibile
al buon custode. Contentezza provano
che m’occupi di loro, e quella esprimono,
se intendo il loro linguaggio, in sommessi
brevi trilletti.
 
Ma forse è umana illusione che ai tetti
degli uomini e alle cure siano paghi.
Una gabbia è una gabbia; e in cuore vaghi
serbano indistruttibili ricordi
delle Canarie, dei natii boschetti.

 

        Il Poeta vede, nel comportamento degli uccelletti, il riflesso di un antico rapporto di dipendenza. Di esso, accanto alla contentezza per essere oggetto d’amorevoli attenzioni, non gli sfugge quella vaga inquietudine che, in uno sviluppo sano, porterà all’emancipazione.
        Pur con “un’ombra d’apprensione superstite” (retaggio delle angosce suscitate dal riconoscimento dell’alterità dell’oggetto d’amore), i piccoli hanno imparato ad avere fiducia in chi si prende cura di loro. Sembrano soddisfatti di tale “felice” rapporto di dipendenza; tuttavia il Poeta non può ignorare il sentimento di frustrazione di chi è stato privato della libertà.
        Vengono in mente i sentimenti di Odisseo, relegato per sette anni nella “gabbia dorata” dell’isola di Ogigia. Qui Calipso l’aveva trattato nel modo più amorevole, offrendogli persino la promessa dell’immortalità. Ma “una gabbia è una gabbia”, ed Odisseo, pur riconoscendo le cure affettuose della sua ospite, non può fare a meno di provare una struggente nostalgia per la sua patria; il che significa desiderio di tornare alla sua condizione di adulto libero, con tutte le responsabilità che comporta il suo ruolo di padre, di marito e di sovrano.
        Quel che, per Odisseo è Itaca, per gli uccelletti sono le Canarie, ossia quella Madre Natura che, offrendo loro le condizioni più favorevoli per la sopravvivenza, permetteva loro d’essere liberi, senza dover dipendere da qualcun altro che li proteggesse dalle avversità. Anche l’essere umano serba il ricordo delle sue “Canarie”: l’epoca in cui una “madre ambiente” invisibile (non riconosciuta come vera e propria persona distinta da lui), preservando il piccolo da ogni pericolo, alimentava l’illusione di una libertà incontrastata. La nostalgia per quella libertà perduta, saldandosi con la spinta evolutiva, produce un potente impulso all’emancipazione. L’individuo rinuncia anche alle cure più amorevoli dei genitori per assumersi lui le responsabilità della sua vita.
        Ecco come la nostalgia per l’epoca più antica può alimentare la voglia di crescere. Il desiderio di tornare indietro, in condizioni sane, spinge ad andare avanti. Tuttavia se l’individuo, agli inizi della sua vita, non ha assaporato fino in fondo il gusto di una sia pur illusoria libertà, non proverà il desiderio di recuperarla. Resterà per sempre un bambino dipendente, e la felicità resterà per lui un miraggio irraggiungibile.

 
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Il nido – pag. 587

        L’esistenza e l’efficacia della “madre-ambiente” interiorizzata (Winnicott, Ogden) richiede, almeno periodicamente, una conferma da parte di un ambiente “placido e disteso” (P. Levi) in cui essa possa rispecchiarsi: la casa in cui si abita, la presenza di familiari ed amici, lo scenario di una natura florida, un ambiente sociale di cui ci si possa fidare. Tuttavia, se tale funzione auto-protettiva è compromessa o crollata in virtù di un’esperienza traumatica antica o recente, a nulla vale il contatto con un ambiente favorevole. Lo si capisce bene quando si commette l’errore di credere che offrire ad un grave depresso una situazione o un ambiente abitualmente considerati lieti possa portargli sollievo. Il malato penserà a quel che ritiene d’aver perso per sempre: a quanto “erano stati belli” quell’ambiente o quella situazione quando non c’era ancora, dentro di lui, l’inferno; e questo pensiero lo renderà ancor più depresso.
        Le caratteristiche della madre-ambiente invisibile e protettiva, quale realtà interiorizzata e/o intersoggettiva (ossia condivisa con altri), coincidono con quelle di ciò che i credenti chiamano “Divina Provvidenza”. Diamo due nomi diversi alla stessa realtà; ed ognuno è libero di credere, o non credere, che si tratti di una manifestazione di Dio sulla terra. Anche lo stesso scetticismo dei laici atei nei confronti della Divina Provvidenza” coincide con l’atteggiamento che noi tutti teniamo nei confronti della madre-ambiente: ce ne accorgiamo solo quando la sua funzione protettiva ci viene a mancare, e arriviamo a negarne l’esistenza; tuttavia la ignoriamo quando, molto più spesso, godiamo del suo aiuto: lo attribuiamo esclusivamente a noi stessi, anziché a lei.
        Tutti abbiamo bisogno, almeno di tanto in tanto, di rifugiarci in un “nido” protettivo che rispecchi e confermi l’esistenza del nido interiore offertoci dalla madre-ambiente: l’esperienza primordiale interiorizzata dell’utero che ci accolse e, successivamente, delle braccia materne che ci sostennero e delle mani che ci accudirono. Quando un evento avverso, o traumatico, mette in pericolo o distrugge tale nido esterno, ne cerchiamo un altro, che possa sostituirlo e preservare il nido interiore. Lo descrive bene Umberto Saba in questa poesia in cui attribuisce caratteristiche umane ai suoi uccellini. Parlando della canarina che stava covando, ci dice:

Aggiustavo il tuo nido in cui preziosa,
dimentica del cibo, o quasi, covi.
E mi rammenti un’incisione (nuovi
vi mettevo i colori) in lode della
Natura o (tutto non ricordo) in quella
della Divina Provvidenza…

        L’immagine di una madre che accudisce e protegge i suoi piccoli evoca, nel Poeta, quella di una Natura idealizzata, o meglio, quella della Divina Provvidenza. Tuttavia, tale funzione protettiva va, a sua volta protetta: se il “nido esterno” è minacciato, occorre abbandonarlo e cercarne uno più sicuro:

Fosse
un’incauta mia mossa od altro, presa
di uno spavento insolito alla stretta,
il caro luogo abbandonavi…

        Che cosa guida la canarina nella ricerca di un nido esterno più sicuro? Nel suo caso è, molto probabilmente l’istinto, eredità dei suoi avi. Meno evidente è ciò che guidò Saba (e lo preservò da uno stato post-traumatico quale quello di Primo Levi), il quale perse per ben due volte, e nella tenera infanzia, il suo nido esterno protettivo: abbandonato dalla madre naturale ed affidato ad una balia, fu poi sottratto a questa quando la genitrice lo rivolle con sé.
        Tutti, in maggiore o minor misura, attraversiamo esperienze di abbandono. Si tratta di quei vissuti, definiti da Winnicott “agonie primitive” in cui ci si sente come dissolvere, ed il mondo accogliente e rassicurante sembra scomparire insieme a noi. Tutto, come ci dice Primo Levi, sembra “volto in caos”, ci si sente al centro di un “nulla grigio e torbido”. È una sorta di lager che ci rende prigionieri e ci paralizza, togliendoci ogni possibilità di sottrarci ad una situazione infernale. Ci occorre, più che mai, ritrovare la Divina Provvidenza (la madre interna che ci soccorre), attraverso l’aiuto di chi è capace di rappresentarla e ripristinarla.
        La disgrazia di Primo Levi (che pure fu dotato della sensibilità di un grande Artista) fu d’essersi ostinato a lungo ad attraversare l’inferno del suo mondo interno da solo, senza un Virgilio che lo riportasse a “riveder le stelle”. Quando, finalmente, si arrese ed accettò l’aiuto di una valida terapeuta, era ormai troppo tardi: il deterioramento della sua vita interiore (di cui conosciamo anche la base biologica) era tale che finì la sua vita col suicidio. Umberto Saba, a differenza di Levi, non fu mai abbandonato del tutto. Conservò, pertanto, quella fiducia nella possibilità di farsi aiutare che gli consentì d’entrare in analisi col dott. Weiss. Questo lo aiutò, a sua volta, a valorizzare appieno il suo talento di Artista: la Poesia ha sempre una funzione riparativa e auto-riparativa.
      Anche noi terapeuti (come tutti coloro che vogliono soccorrere i propri simili) dobbiamo ritornare interiormente nell’inferno in cui cademmo nel passato, nel momento in cui ne condividiamo empaticamente l’esperienza col paziente. Non farlo, limitarsi ad una comprensione fredda e puramente intellettuale della sofferenza del malato, non ha alcuna reale efficacia. Possiamo, tuttavia, tornare ad uscire da quel luogo di dannazione, ed aiutare il malato ad uscirne, se ci affidiamo al nostro Virgilio, espressione della Divina Provvidenza. Si tratta di un personaggio immaginario (tuttavia erede dell’esperienza con persone reali), con cui possiamo dialogare, e che è dotato di tutte le virtù dei nostri genitori, dei nostri maestri, del nostro analista, di tutti coloro che in passato seppero aiutarci; e l’esperienza dell’inferno, del caos, della dissoluzione, del lager, può essere finalmente lasciata alle spalle, e non soltanto evitata.

 
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Divertimento – pag. 588
Con voi nella mia vecchia casa entrava
della fresca Natura un soffio. E forza
mi fu di separarvi un’altra volta.
Suo diritto è covare in pace, e pace
tu non le davi, l’inquietavi spesso.
Corre assiduo di gabbia in gabbia adesso
quel chiamarvi pietoso; e il bene fatto
dalle mie mani, come chiaro mostri
sol che a te m’avvicini, tu lo pensi
un ingiusto castigo, una vendetta.
 
Per divertirti apro una scatoletta
musicale. Il dolor del mondo n’esce
in un suono così mite che riesce
a commuovermi quasi. Ascolti. Un poco
tenti imitarla sopraffarla. O i vostri
sono cuori volubili e leggeri!

 

        Il Poeta, nella triste tranquillità della sua vecchia casa, trova sollievo nell’ospitarvi il “soffio della fresca Natura”. Ritrova, nei suoi canarini, la spontaneità e la vivacità delle passioni che animarono i primi anni della nostra vita. Sono passioni instabili, volubili, contraddittorie, non ancora frenate (e private della loro vivacità) dal rigore della logica e dal dominio dell’istanza morale. Il canarino, preso dalla gelosia, non lascia covare in pace la sua femmina. Incapace di comprendere le ragioni dell’esserne allontanato, vive tale separazione come “ingiusto castigo” e come fonte di puro dispiacere. Saba “quasi” si commuove alla musica che esprime il dolore della perdita: il “dolore del mondo”, pur lenito dalla dolcezza e dal tono sommesso delle note. Il canarino, invece, ne viene preso del tutto perché le sue passioni sono incontenibili. Sopraffatto dalla musica, cerca a sua volta di sopraffarla col suo canto.

 
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Da Leonardo – pag. 589
Apro un libro, non brutto in sé né bello,
per noia, a caso, e vi getto uno sguardo.
Che pietà ritrovarvi, da Leonardo,
il tuo scheletro fragile d’uccello!
 
Ma tu non puoi vederlo, tu che quello
ti stimi di noi due più forte. E in parte
anche sei, che da me dipendi, e l’arte
non ho, e ne soffro, di spiegarti cosa cui
m’obblighi il mio ufficio di custode.
 

        Leonardo, nelle sue opere scientifiche, mostra il potere dell’istanza razionale volta alla scoperta della nuda Verità; scoperta possibile solo prescindendo da ogni preoccupazione d’ordine estetico (il libro non è “né brutto né bello”), o morale, o dal sentimento e dal desiderio. Il Poeta, nell’opera di anatomia di questo grande, nota quanto appaia povero e fragile, quando spogliato della vita e dell’anima, il substrato materiale dell’esistenza dei suoi adorati uccelletti.
        Immediatamente, tuttavia, la dimensione soggettiva dell’esistenza (la vita e l’anima) rivela tutto il suo potere: il canarino, come l’essere umano da piccolo, vive la “illusione primaria” (Winnicott) del possesso di una straordinaria forza, superiore anche a quella del suo “custode”; e questo benché tale illusione sia possibile solo grazie alla generosità e alla dedizione del custode stesso.
        C’è qui la riedizione di un rapporto antico in cui spiegarsi e capirsi del tutto non è possibile: nessuno che si dedichi a cure materne primarie può avere l’arte di far riconoscere al bimbo quanto egli sia debitore della generosità di chi lo accudisce. Se lo facesse, distruggerebbe l’illusione primaria, che al piccolo è indispensabile, e dimostrerebbe di non essere sufficientemente generoso e materno. Solo la madre all’altezza del suo ruolo sa essere “umile e alta più che creatura”: umile al punto da accettare d’essere considerata come “schiava” ma, proprio per questo, alta al di sopra di ogni altro essere umano.

 
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È tutto vero – pag. 591
È tutto vero. I canarini fanno
– ieri mi disperavo quasi – il nido.
E Giacomino mi scrive: “Il tuo libro
è bello, è molto bello. Accordi statua
arcobaleno. È questa tua stagione
tarda, senza rancori, che mi piace”.
È tutto vero. Ma è più vero ancora
che sono stanco a morire; che a vivere
– non è per noi che si deve, è per altri –
SOLO DI SOLITUDINE HO BISOGNO.
 

        Dopo aver attraversato tutte le sventure della sua vita, il Poeta quasi si stupisce che la sorte gli offra ancora piccole o grandi soddisfazioni. Anche come frutto delle sue cure amorevoli, i canarini hanno fatto il nido; il suo talento d’Artista, così come si è evoluto in tarda età, ottiene il riconoscimento dell’autorevole critico Giacomo Debenedetti. Il giudizio positivo di quest’ultimo non dipende dal rapporto d’amicizia che pure lo lega a Saba. Il critico, infatti, coglie nel libro del Poeta un effettivo equilibrio, che egli apprezza, fra “statua” e “arcobaleno”. La statua è un’effigie, un blocco di materia inanimata dalle illusorie sembianze umane, che evoca l’immobilità perenne della morte. L’arcobaleno è simbolo di rinascita.
        L’età senile di Saba, quindi, sta producendo i suoi pregevoli frutti. È un’età “senza rancori” in cui prevale la saggezza di chi ha conosciuto la vita ed è consapevole del carattere insensato di quasi tutti i conflitti. Tuttavia questo dipende anche dalla stanchezza, per cui l’anziano si ritira dalle lotte faticose che appassionano i giovani. Nonostante sia “stanco a morire”, c’è ancora qualcosa che lo lega alla vita: il suo lavoro riparativo-creativo di Poeta che, a questo punto, egli svolge più per amore degli altri che di sé stesso.
        Paradossalmente, però, per dedicarvisi, egli ha bisogno di rarefare i suoi contatti con questi altri, di concentrarsi sulla sua vita interiore senza esserne distolto. Il Poeta, per continuare a vivere dedicandosi agli altri, “solo di solitudine ha bisogno”.

 
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Dialogo – pag. 592
LUI
Di me diranno, quando sarò morto:
Povero vecchio disperato e solo.
Cantava come canta un rosignolo
 
LEI
Non sei un rosignolo; sei un merlo.
Fischi più forte la sera; e nessuno
può strapparti di becco il tuo pinolo  
 

        La rappresentazione di quel che realmente siamo non può essere soltanto frutto di come percepiamo noi stessi: occorre anche l’immagine di noi che possono restituirci due occhi che ci guardano dall’esterno. Il Poeta percepisce, di sé, solo la disperazione e il senso di solitudine di chi intravvede la fine della propria esistenza – Sembra non rendersi conto che il fatto, di per sé, di tradurre in versi tali sentimenti testimonia la sua persistente capacità di vincere sia la disperazione, sia la solitudine – Ha anche bisogno di fare i conti con quel che, di lui, percepisce la sua compagna: Saba non è fatto solo della spiritualità che s’esprime nel canto commovente dell’usignolo; è anche fatto di esigenze corporee che egli cerca di soddisfare con la prepotente vitalità ed il sano egoismo del merlo: nessuno può “strappargli dal becco il suo pinolo”, ossia quel che gli serve per sopravvivere.

 
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Al lettore – pag. 595
Questo libro che a te dava conforto,
buon lettore, è vergogna a chi lo crebbe.
Parlava come un vivo ed era (avrebbe
dovuto, per decenza, essere) morto.
 

        Saba conclude questa sezione del Canzoniere riprendendo quanto già accennato nella Prefazione e nella poesia “Invio” (pag. 570): il conflitto fra, da un lato, la “vergogna” che gli suscita il mettere a nudo, nelle ultime opere, la propria vita interiore di vecchio e, d’altro lato, la sua ispirazione poetica che finisce, prepotentemente, per affermarsi ed esprimersi. Dice di parlare “come” un vivo, ma in realtà “è” vivo più che mai, e lo dimostra con la sua fecondità di Artista. Il conflitto che deve fronteggiare è l’ultima versione di ciò che contrappone vita e morte (Eros e Thanatos).
        In vecchiaia, si tende a regredire al sistema di valori narcisistico-arcaico del “tutto o nulla”: se la vivacità e il vigore dell’età giovanile non sono più recuperabili del tutto, allora meglio il nulla, ossia il completo ritiro dalla vita. Ecco, quindi, come le istanze narcisistiche primitive possono porsi al servizio della pulsione di morte.  
        Tuttavia, a dispetto di quanto Saba pensa di credere, la sua Arte dimostra d’essere più forte di lui: continua ad essere fonte di vita; e lo è più che mai nel momento in cui affronta l’avvicinarsi della morte. Fino a quando i nostri occhi non si chiudono per sempre, noi siamo vivi, e (se disponiamo di creatività artistica, o prendiamo a prestito quella del Poeta) possiamo, fino all’ultimo, essere pienamente e veramente vivi.

 

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