L’obiettivo è chiaro: colpire i capisaldi della libertà di pensiero ed espressione e della convivenza pacifica e della tolleranza sui quali, tra gli altri, si fondano i principi della nostra civiltà. Colpire questa civiltà è il messaggio forte che ci giunge. Inquieta che a eseguire tali atti siano stati dei trentenni di seconda generazione, nati e cresciuti in Francia, certo, con passati criminali, ma del tutto organici al nostro mondo e ai nostri stili di vita, convertiti nel giro di pochi anni ad una visione del mondo che li ha spinti a immolarsi in un’orgia di sangue.
Come si è potuta costruire questa follia?
Cambiamo per un momento scena. Andiamo su qualcosa di apparentemente lontano, e cioè il libro di uno psicologo studioso delle religioni “Grandi Dei” di Ara Norenzayan dell’University of British Columbia in Canada (rimando alla lettura o a questa recensione per una riflessione più ampia su questo testo), traggo da esso e condivido l’idea che le religioni abbiano assolto nella storia dell’uomo a fondamentali scopi pro-sociali rispondendo, dall’antichità in poi, a esigenze multiple sia di controllo sociale che di riferimento identitario per comunità che diventavano numericamente sempre più vaste e complesse nelle quali i legami di sangue e la conoscenza diretta non erano più sufficienti a definire le appartenenze, i legami, i valori comuni, ma si rendeva necessario il riferimento a valori comuni ultraterreni, soprattutto attraverso la statalizzazione delle religioni come accaduto con Costantino e poi con l’Islam successivamente.
Detto in altri termini ed usando una metafora informatica, le religioni sono state i “software” con i quali le società del passato hanno fatto girare i sistemi operativi sociali, hanno dato struttura, identità, appartenenza e contenuti a civiltà fino alle porte della modernità. Dei software che fino a ieri hanno costruito la pro-socialità della nostra specie.
Nella nostra epoca secolarizzata, dopo illuminismo, rivoluzione industriale, modernità e tardo modernità, subentra un nuovo “software”, che chiamiamo per brevità “liberismo”, poi “neoliberismo” cioè globalizzazione, perfezionato lungo l’arco di un paio di secoli, svincolato da spiegazioni metafisiche e calato nella realtà economico-politica di popoli e nazioni. Nel bene e nel male, questo nuovo software, specie dopo il crollo del muro di Berlino, nell’1989, è l’unico che ha caratteristiche di universalismo. Si propone inoltre (e purtroppo) come l’unico mondo possibile, insostituibile, immodificabile.
Le grandi religioni non assolvono dunque più agli scopi identitari, almeno non più nello stesso modo rispetto al passato, e le mire evangelizzatrici ed universalistiche delle religioni monoteiste, tendenti cioè a convertire tutto il mondo al proprio credo ritenuto l’unico vero, si ridimensionano. Subentra con fatica e lentezza (e non certo in tutto il mondo) l’idea della convivenza e tolleranza tra religioni diverse e del loro localismo e legame con le tradizioni regionali. Tra le tre religioni monoteistiche l’Islam sembra quello che però conserva più delle altre la vocazione all’universalismo e alla conversione.
Ed ecco che la vicenda della violenza inaudita di quei cittadini francesi assume, in questa chiave, significati differenti, che possiamo definire disidentitari: un’ossessione disidentitaria che si contrappone alla disidentità della nostra epoca. Universalismo economico-politico e universalismo religioso si ritrovano su questa scena in un corto circuito conflittuale che ha caratteristiche di novità e che preoccupa non poco, specie se si immagina l’estensione del fenomeno.
Infatti, questi trentenni francesi hanno assunto la contrapposizione di universalismi fino a pensare al sacrificio estremo. Hanno cioè inteso l’universalismo dell’Islam fondamentalista come mondo di valori alternativo a quello della società in cui sono nati e vissuti. Un tentativo di negare un campo di codici semantici, di cui la libertà di espressione e di sberleffo e il relativismo culturale sono semplici corollari, per affermarne un altro molto più arcaico e semplificato ma con le stesse caratteristiche universalistiche.
Certo, non stiamo parlando di bonzi che si danno fuoco o di martiri della fede che si immolano, né di asceti orientali che si sentono assediati da valori alieni, ma di criminali, non più ragazzini, che hanno un disprezzo della vita estremo maturato nella periferia più degradata del primo mondo. Dobbiamo quindi presumibilmente immaginare che il disagio psichico e sociale di queste persone abbia reso particolarmente permeabile e manipolabile le loro menti e le abbia consegnate di fatto ad una dinamica di fanatismo e di polarizzazione paranoicale piuttosto importante.
Ma proprio a partire da questa polarizzazione paranoicale, siamo proprio sicuri che la scena della conflagrazione tra civiltà e universalismi sia quella che sta effettivamente avvenendo sotto i nostri occhi o viceversa dobbiamo smarcarci da questa semplificazione e immaginare invece, come in fondo ci suggerisce S. Zizek, filosofo e psicoanalista sloveno, che il conflitto tra civiltà, cioè tra occidente e fondamentalismo, sia un “falso conflitto”, “un circolo vizioso di due poli che si generano e si implicano a vicenda”, un conflitto cioè nato e cresciuto per inscenare una dialettica in realtà apparente e assente in quanto già morta da secoli, e cioè tra universalismo religioso e universalismo economico?
Un conflitto cioè che propone a tutti noi l’apparenza di scegliere tra un mondo immodificabile, cioè il nostro, ed un mondo medievale (che è in realtà solo la periferia del primo). Un fenomeno di incorniciamento nel quale tertium non datur e dove menti deboli e feroci ci distraggono dalla possibilità di ricercare nuovi valori alternativi ad entrambi.
Condivido la metafora
Condivido la metafora informatica, le religioni come “software” con i quali le società del passato hanno fatto girare i sistemi operativi sociali. Rimanendo in questo territorio, possiamo ricordare che un software – se genera errore e va in loop – si può correggere. Si individua l’istruzione sbagliata e la si sostituisce con altra, che preveda magari più ‘uscite’ e non soltanto un AUT AUT….
Cara Simonetta l’aut-aut è
Cara Simonetta l’aut-aut è spesso una forma di inganno, mi pare, specie se serve a giustificare leggi speciali liberticide
Caro Luigi,
concordo in linea
Caro Luigi,
concordo in linea di massima con il tuo ragionamento.
C’è solo un passaggio che non mi convince. Laddove dici:
“Infatti, questi trentenni francesi hanno assunto la contrapposizione di universalismi fino a pensare al sacrificio estremo. Hanno cioè inteso l’universalismo dell’Islam fondamentalista come mondo di valori alternativo a quello della società in cui sono nati e vissuti. Un tentativo di negare un campo di codici semantici, di cui la libertà di espressione e di sberleffo e il relativismo culturale sono semplici corollari, per affermarne un altro molto più arcaico e semplificato ma con le stesse caratteristiche universalistiche.”
A mio modo di vedere il relativismo culturale quasi mai è stato nei fatti un corollario dell’universalismo liberista e neoliberista. Lo è stato, da un certo punto in poi, nelle speculazioni degli etnologi. Ma anche loro all’inizio hanno contributo a costruire un corollario etnocentrista a giustificazione dell’acculturazione violenta del III mondo da parte degli stati colonialisti. Poi si sono allontanati dall’etnocentrismo, per sposare il relativismo culturale. Ma intanto i colonialisti di ieri e di oggi, cioè gli stati colonialisti e le multinazionali, hanno continuato ad operare nell’ottica etnocentrica, semmai imbellettandola di tanto in tanto con qualche nuage relativista.
Ma sopratutto i popoli che hanno tentato di emanciparsi dal giogo dell’acculturazione violenta non hanno posto al centro delle ragioni delle loro lotte nè il relativismo culturale, e neppure l’impossibile ritorno alla cultura precoloniale (vedi la critica di Fanon al concetto di “negritude”). Sono partiti dal concetto che la loro “nuova cultura nazionale” doveva nascere lungo il processo di emancipazione, e grazie ad esso. Fanon è stato il più lucido interprete di questa esigenza di emancipazione e di autonomia. Purtroppo questo filone, che fu fecondo di interessanti esperienze fino all’inizio degli anni 70, fu ucciso nella culla, spesso usando proprio l’integralismo religioso come agente killer di questi processi. A cominciare proprio da quella sua Algeria libera dove, poco dopo la liberazione tutto il vecchio gruppo dirigente fu “fatto fuori” più o meno metaforicamente, aprendo la strada – di lì a pochi anni dopo – ai tagliagole fondamentalisti che non si chiamavano Isis, ma che operavano già come l’Isis.
Comunque molto interessante ed utile il tuo ragionamento!
Dino Angelini
Grazie Dino di questo
Grazie Dino di questo articolato commento. Mi sembra che il relativismo culturale sia comunque un prodotto della modernità e del clima culturale occidentale che probabilmente è ad unico uso e consumo interno di questo mondo e rappresenta una semplice facciata.