Percorso: Home 9 Rubriche 9 CLINICO CONTEMPORANEO 9 ‘ La tempesta emotiva’. Il compito di un clinico è quello di contrastare questa deriva diagnostico-assolutoria.

‘ La tempesta emotiva’. Il compito di un clinico è quello di contrastare questa deriva diagnostico-assolutoria.

11 Mar 19

A cura di Maurizio Montanari

La ‘diagnosi ‘di tempesta emotiva’ grazie  alla quale un uomo reo di aver strangolato la moglie ha ottenuto un alleviamento della pena, sembra aver riportato indietro le lancette del tempo, cronologico e clinico, evocando  mai sopiti sensi patriarcali di possesso diffusi trasversalmente nel corpo sociale. Resta stupito dall’eco di questa sentenza solo chi non ha prestato orecchio in questi anni ad una sempre maggiore torsione della clinica forense artatamente utilizzata, in molti casi, per ottenere un alleggerimento delle condanne penali inflitte ai picchiatori di donne.  

Ricordo l’amarezza in sala, diverse estati orsono, quando partecipai alla presentazione del libro di Giovanna Ferrari  Per non dargliela vinta, che descrive  la vicenda della figlia ammazzata a coli di pietra dopo averle teso un tranello sottocasa dal compagno ritenuto preda di uno ‘scompenso emozionale’, e per il quale è stata esclusa la premeditazione.  Da quel momento ho iniziato, con interesse clinico,  ad appuntarmi la sequela di diagnosi posticce sfornate per attenuare il peso della legge che gravava sulle spalle di tanti uxoricidi: ‘allentamento della capacità di intendere’, ‘ disturbo dissociativo momentaneo’ e, su tutti, l’immancabile ‘raptus’.
Da cosa sono dunque mossi questi uomini che, non tollerando la libertà di azione e pensiero della propria compagna o moglie, arrivano ad ucciderla quando infrange i loro desiderata di dominio illimitato o quando diventa un intralcio sacrificabile  ad un’altra scelta di vita? Soffrono davvero di disturbi mentali? 

Ne ho trattato in diversi articoli in questa rubrica, e corro  qua il rischio di essere ripetitivo. Nella maggioranza dei casi si tratta di individui che intendono lucidamente e senza vizio alcuno di mente la donna come un oggetto inalienabile, sopprimibile qualora essa osi ribellarsi alle loro spire possessive.  «Ho perso la testa perché lei non voleva più stare con me. Le ho detto che lei doveva essere mia e di nessun altro. L’ho stretta al collo e l’ho strangolata» avrebbe dichiarato , secondo i quotidiani, Michele Castaldo.
In tante delle storie che finiscono come quello di Riccione gli attori sono uomini che vessano, incombono e tengono sotto lo scacco dell’angoscia la vittima,  come i protagonisti dell’Amore Molesto’ di Mario Martone.   Il perverso sadico, figura ben nota alla clinica, che ho qua diverse volte trattato,   non ha altro fine che non sia il puro piacere di somministrare sofferenza attraverso un  controllo radicale, sia fisico che mentale della donna degradata a oggetto. Questi individui non prevedono la morte della prescelta come obbiettivo finale. L’uccisione è la risposta alla messa in scacco delle loro feroci attenzioni , quando essa decide di svincolarsi o, in altri casi, quando diventa un intralcio ad un altro progetto di vita (si pensi al massacro di Motta Visconti).   Terrorizzati dalla femminilità e dalla cifra di libertà in essa insita, risolvono l’enigma di ciò che per loro costituisce  un perturbante ingabbiandolo o annientandolo. 

Urge pertanto un’azione culturale che contrasti la riduzione di questi crimini entro categorie diagnostiche. E questo, credo, sia compito essenzialmente di chi di occupa di clinica. Chi scrive su quotidiani, chi va in tv, chi è solito tenere pubblici seminari: a ciascuno, secondo le proprie forze, è richiesto eticamente di porre la clinica come elemento di dissuasione e contrasto di queste serie di ‘fake news’ diagnostiche, ricercate ed esaltate dai media. Patologizzare l’odio per la donna e la violenza verso il suo libero essere, assolve ad una tragica funzione riparatrice, rivela l’intento assolutorio che la società adotta nei confronti di ciò che ritiene malato, presupponendo un pentimento che il sadico non conosce, o evocando stati morbosi di incapacità di intendere delle quali il perverso, che sceglie sempre lucidamente, non è affetto. L’abuso di etichette patologizzanti  allontana  da noi il crimine diluendo le responsabilità soggettive, distoglie l’attenzione dal fatto che un comportamento culturalmente acquisito e condiviso in larga parte  non deve trovare alcuna giustificazione se vestito coi panni della devianza o, peggio, della malattia. La scorciatoia assolutoria è lì, lastricata di desideri moraleggianti o ‘terapeutici’. Sapere che uccidere la donna trova un humus fertile nel quale attecchire, anziché una risposta sociale di forte condanna (che deve  trovare noi clinici in prima linea), porta questi individui all’autoassoluzione, certi di poter contare su ciò che scriveva Dostoevskij : ‘Per quanto mi riguarda personalmente, io altro non ho fatto nella mia vita se non portare all’estremo ciò che voi avete osato portare soltanto sino a metà’.

Mentre scrivo, arriva  la notizia del tentativo di suicidio dell'omicida in questione. La perversione insegna  che non siamo certo nel campo del pentimento o della vergogna, che individui come questo non possiedono. Quanto piuttosto nell'estremo tentativo di sottrarsi alla lex degli uomini, poiché questi individui, sino alla fine, non riconoscono altra legge che non la propria. Chiamarsi fuori in casi come questi rappresenta il tentativo di ribadire il concetto che la lex perversa, in questo caso quella del dominio e della sopraffazione, è un 'altra legge’. Rivedendo il documentario di Zavoli ' La notte della Repubblica', si nota come le affermazioni di diversi  irriducibili, alcuni dei quali suicidatisi in carcere, attestino esattamente questo: Io non riconoscerò mai la legge che vuole piegare la mia. Non le riconosco alcun valore. Questo Stato merita solo il mio disprezzo. Chiamarsi fuori, per non essere giudicato da una legge alla quale non si riconsce alcuna autorità.   

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