Sogno una professione psicologica nel prossimo futuro del tutto sprovincializzata dove non abbia più luogo appellarsi con il nome del padre fondatore o della teoria di riferimento, ma dove conti unicamente definirsi “bravo” o “non bravo” psicologo, e dove tale appellativo sia fondato sulle reali competenze e sulla reale utilità sociale dell’operare, dove sono le persone che si rivolgono allo psicologo coloro che ne stabiliscono ilvalore traendo dal suo lavoro vari benefici testimoniabili e tangibili.
Questo si sarebbe un criterio epistemologicamente forte. Detto in altri termini, criteri epistemologicamente forti sono la qualità reale in termini di esito e procedure del lavoro psicologico. Qualità a sua volta debitrice di una ricerca empirica e di esperienza sul campo ampia e condivisa.
Criteri epistomologicamente deboli sono invece quelli che connotano il mio lavoro in funzione dello strumento col quale opero, in funzione del tipo di training svolto o in funzione delle prospettive teoriche che mi danno accesso alla conoscenza pratica. Sono deboli perché lo strumento non predice quasi nulla dell’esito e dell’obiettivo del mio lavoro. Non esiste la bravura “per contagio da strumento”.
Eppure la scena psy italiana è assolutamente dominata in ogni angolo da questo tipo di criteri deboli. E quanto più sono deboli, tanto più si avvicinano ai criteri delle psicosette, dove la conoscenza viene trasferita per trasmissione iniziatica dal mediatore terreno del Verbo incarnato agli adepti, fidelizzati e affiliati a dovere. Oppure si avvicinano ai criteri acriticamente adesivi al linguaggio scientista biomedico, come patina sbiadita che copre uno spessore scientifico talora carente confuso con il mero tecnicismo.
La psicologia italiana potrà dirsi definitivamente sprovincializzata il giorno in cui non sarà più considerato serio (anzi sarà francamente ridicolo) definirsi freudiano, junghiano, cognitivista, gestaltico o sistemico, non sarà ammissibile cioè andare nel mondo con le medagliette fornite dalla scuola di specializzazione o dal formatore, analista, mentore o quant’altro, ma occorrerà misurarsi esclusivamente sul feedback sociale.
Personalmente trovo già limitante definire una professione a partire dall’oggetto specifico, di dominio inferiore, di cui si occupa (psicologo del lavoro, psicologia clinica, etc.) figuriamoci connotarla col nome di uno studioso di 50 o 100 anni fa. È qualcosa che attiene più alla religione che alla scienza. In un mondo normale non è pensabile che dal pensiero di uno studioso discenda una teoria della tecnica e una tecnica che vada a racchiudere o esaurire il compito di una professione.
E dunque lo psicologo con la medaglietta appiccicata sul berretto che si definisce – facciamo il mio caso – psicologo, psicoterapeuta, gruppoanalista, foulkesiano – assomiglia moltissimo a certi spagnoli dell’epoca coloniale con quella sfilza di cognomi roboanti: Antonio, Enrique, Ramiro, Garcia, Rodriguez, Gutierrez, Golzalo, de Castiglia, che alludono a quarti di nobiltà. Ma che a ben vedere più che quarti sono trentaduesimi se non sessantaquattresimi.
Sogno allora una scena psicologica italiana del futuro, del tutto de-tribalizzata e del tutto de-trombonizzata, ispirata al pensiero scientifico, inteso nell’accezione più elevata possibile, come forma di conoscenza più onesta e razionale che la nostra specie ha fino ad oggi escogitato, basata sui principi di ipotesi-verifica, confutazione e confronto incrociato delle esperienze, e soprattutto di cautela.
Nulla a che vedere con la vulgata scientista che corrisponde alla comoda (e quasi sempre opportunistica) semplificazione di certo empirismo industriale alla evidence based medicine. Ma anche e soprattutto niente a che vedere con la totale autoreferenzialità di certe orribili ed indigeribili neolingue che si sono prodotte negli ultimi decenni tra gli specializzati italiani.
Il motivo di questa deriva culturale della psicologia italiana è essenzialmente dovuto alla legislazione locale che ha dato anche piuttosto esplicitamente il compito alle scuole private di specializzazione in psicoterapia (più di 400 sedi autorizzate, ma ho perso il conto da anni, più della metà di tutta Europa) di occuparsi praticamente in esclusiva dell’identità professionale degli psicologi, andando a colmare di fatto la quasi totale assenza di responsabilità sociale delle facoltà di psicologia in relazione alla professione che contribuiscono a formare.
Da un lato l’università, sempre più irresponsabile, è diventata sempre più low profile e parcheggio buoi di orde senza meta di studentesse (l’80%) e studenti. All’uscita dalla giostra le scuole di psicoterapia si sono appostate per oltre 20 anni a reclutare (anche qui quasi sempre senza alcuna selezione) laureate e laureati allo sbando.
Dall’altro le scuole di psicoterapia, eccessive in numero, spesso improvvisate nel costruire training attendibili e sempre e comunque iperresponsabilizzate nel costruire in soli 4 anni un profilo professionale accettabile, hanno troppo spesso perso la sfida riducendosi a piccola lobby-diplomificio che sforna migliaia di specializzati all’anno. Ora la festa volge al termine e molte scuole sono alla frutta per mancanza di iscritti e la malinconia post-festum potrebbe produrre ulteriore psicosi depressive o maniacali oppure trasformarsi in un cambiamento produttivo.
In questa desolazione fatta di mancanza di vision e di programmazione politico-professionale, naturalmente esistono anche numerose eccezioni o molto più spesso esperienze patchwork creative e fruttose, che nonostante tutto rappresentano alcune eccellenze e un bacino di esperienze e risorse preziosissime. Ma si sa, gli italiani danno il massimo quando si trovano in situazioni contestuali pessime.
Il vento sta cambiando e il vecchio psicologo con la medaglietta sul berretto tramonterà prima o poi e con lui gli apparati che lo hanno sciaguratamente prodotto.
Cominciamo a pensare a riformare questi apparati.
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