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Lacan, Rovatti e la filosofia come esercizio

26 Ott 20

A cura di vastopolis

Sarà perché ho un debole (non un pensiero debole) per le interviste, sarà perché adoro “aut aut” (la Rivista che dirige magistralmente dal 1976) e non ne perdo un numero, sarà perché i suoi libri (tutti) non hanno l’ambizione e la spudoratezza di voler insegnare ma soltanto (e vi pare poco?) di aiutare a pensare, sarà perché ha fatto “coppia” con Salvatore Veca ed è stato allievo di Enzo Paci, sarà perché ritiene che la vita sia un mettersi in gioco, a me “La filosofia è un esercizio”, di Pier Aldo Rovatti, sollecitato dalle domande di Nicola Gaiarin, edito da La nave di Teseo, ha provocato un effetto rigenerante. Anche raccontare la propria vita partendo da un’esperienza teatrale, trovarsi da giovanotto a tu per tu con Paolo Grassi e Giorgio Strehler, ricordare gli anni del Sessantotto, le avventure del pensiero debole, i primi anni duemila, tra sapere e potere, tra Derrida e Foucault, fino ad approdare all’etica minima e alla Scuola di filosofia, è un esercizio necessario, è un riordinare storie, pensieri, incontri, fantasie, giochi, è un rilanciare rischiando.
Scrive Gaiarin: «Rovatti è uno che le sue idee le prova parlando con la gente che incontra per strada. E non è una boutade: dico “le prova”, perché per lui, come se fosse uno spettacolo teatrale, la filosofia deve per prima cosa tenere, reggersi in piedi. Un pensatore pubblico è anche uno che trova più interessante parlare di certe cose al bar o dal fruttivendolo, con uno studente o con un amico curioso che con i colleghi. Un’altra cosa che colpisce: un intellettuale che frequenta la filosofia da mezzo secolo non ha mai avuto troppa simpatia per i filosofi. Sarà per questo che si è occupato di umorismo, di psicoanalisi, di metafore, di scrittura».



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Sarà per questo che vado a leggere subito cosa pensa di Lacan. Rovatti non si nega, anzi è netto: «Forse dovrei abbassare la voce per non farmi sentire da alcuni amici lacaniani, e dire che quello che a me non piace di Lacan è proprio Lacan… C’è una sorta di prepotenza della verità, in Lacan. Io sono convinto che si possa scavare dentro Lacan e trovare quello che stai indicando e che interessa anche a me. Però per scavare bisogna lavorare parecchio e fare dei buchi nella corazza di qualcuno che ti deve sempre dire: “Io sono più avanti di te, io sono più geniale di te, io ho già capito quello che dirai tu”. E con questo aspetto io non mi identifico assolutamente. È un autore che ti attira nella tecnicità specialistica del discorso, e questo è un rischio molto grande che i lacaniani corrono. In quello che ho scritto su Lacan, per esempio in “Abitare la distanza” o già in “Trasformazioni del soggetto”, ho cercato di fare un’operazione contraria. Di smontaggio. Però non è così facile. Non c’è dubbio che il potere intellettuale e culturale contenuto in questo pensiero produce anche effetti indesiderati».
Sarà per questo che, a seguire, vado a leggere cosa dice sull’umorismo. Rovatti sottolinea che «Freud, in fondo, capisce che lo humour è un elemento fondamentale. C’è un emergere dell’inconscio a livello dello humour, e questo è qualcosa da conservare. Dovremmo cercare di stare nel gioco divertendoci. Ma perché dovrei farmi giocare? Perché devo togliermi la padronanza? Ecco una possibile risposta: perché è meglio, perché stai meglio. Perché potresti stare meglio. Questo collega, a mio parere, il gioco con la follia intesa in senso buono, in senso di apertura, nei termini in cui ne parla per esempio Derrida. Una follia che ci serve: la follia del dono, la follia dell’ospitalità».
E la filosofia, si chiederà il lettore poco intelligente, dov’è la filosofia? Be’ è qui, in questi passi, in queste parole, in questo modo, non certo consueto, di trattare i temi e la vita. Spiega Rovatti: «È chiaro che quando sono uscito dall’università, da una parte con un senso di frustrazione, perché sarei rimasto a insegnare, e dall’altra con l’illusione che mi sarei costruito un “senza condizione” attraverso altro, mi sono trovato davanti a un compito non facile. Ci ho provato, ci devi mettere un’energia incredibile, ti chiedi continuamente se ne vale la pena. Ti sembra di essere fuori dal mondo, ma questa incondizionatezza non deve essere un’esclusione. Nel momento in cui nascono realtà magari piccole come la mia Scuola, la prima cosa che accade è che vieni isolato, perché dal punto di vista istituzionale non conti più niente. Poi io ci ho messo dentro l’illusione che tutti avessero a che fare con la filosofia. E quindi ho aperto le porte anche a chi non sapeva una parola di filosofia. Il che ha prodotto una critica da parte di quelli che un po’ ne sapevano, e che dicevano: “Insomma, ma questo non è serio…”. Sembra che siamo di fronte a un terreno del tutto incolto che bisogna cominciare lentamente a coltivare. Orti filosofici che per ora sono ancora sterpaglie». Ma per chi ama il gioco, il rischio, la sfida, quegli orti filosofici, presto o tardi, daranno frutti rigogliosi, poiché la filosofia, come la vita, è un esercizio. Ci vuole passione, applicazione e leggerezza. Come al gioco. Senza farla troppo lunga.

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