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L’ARTE DI SOPRAVVIVERE

1 Apr 20

A cura di mariaferretti0

TEMPO LETTURA : 3 Minuti

È il 31 marzo ha nevicato.
Le campane suonano a festa. Ma è martedì. Mi sto abituando al limite, quasi mi cullo in questo ritmo senza tempo. Esco e cammino. Io posso. Vivo tra i campi. Penso ai ritmi. A quelli sostenuti per anni. Vertiginosi.
La quarta settimana scorre nel piacere dell’accomodamento. Negazione. In guerra, quella che ho vissuto di striscio in Congo, si aveva una percezione di scollamento del pericolo.
Gli spari erano lontani. Non posso dire di averla vista, ma sentita.
Mi alzavo nel cuore della notte con questa percezione lucida che la’ fuori era il disastro, ma non lo vedevo. Ne percepivo solo gli effetti. La narrazione dell’atroce di chi ha vissuto su di se’ l’orrore era ciò che potevo vedere.
Gli spari lontani, le ferite vicine.
In uno stato di guerra ci sono regole precise, coprifuoco. Ci si può muovere in spazi e luoghi prestabiliti.Gli spostamenti devono essere sempre comunicati. Il tempo per muoversi rigorosamente tracciato e limitato. Sul confine, un doganiere con sguardo di sfida mi dice in francese “Maria, ti piace il nostro paese?”. Sudo, ho paura, mi guarda e sento che se volesse potrebbe farmi sparire in un secondo. Ci sono luoghi in cui impari che tutto è ingovernabile.
Il rientro a casa in un territorio di guerra coincide ad uno spazio sicuro, una sorta di illusione della mente per tranquillizzare l’angoscia del “tutto mi può accadere”. E allora si mangiano uova e avocado cucinate da una mami africana, si fanno cene succulente, ci si innamora, si fa l’amore. Come a dirsi, va tutto bene. Tutto normale. Ma durante la notte il cervello ti sveglia, perché il cervello ti dice che devi esser pronto, pronto a scappare. Il cervello vuole sopravvivere e sa da milioni di anni per evoluzione che sopravvive chi sta in allerta.
Devi rimanere sveglio devi esaminare la realta’.
“Come sta oggi?”
“Che le devo dire Doc mi alzo, mi rilasso, cucino, faccio ginnastica. Sono quasi felice. Ansia? Ma no. Sta pensando al dopo? No, non ne ho voglia sto cosi bene.”
Eccolo, il virus bastardo. Narcotizza il pensiero.
“Si sta preparando a quando usciremo?”
“No, non voglio pensarci. Perché me lo ricorda, doc?”
Un adulto non ha mai le spalle coperte, ha il cervello sveglio e permette al piccolo di dormire.
Quando invece l’adulto si addormenta mette in pericolo il piccolo.
“Sta pensando a come gestire la parte economica ?”
“Non ho voglia di pensare. Dottoressa perché vuole intristirmi. Oggi voglio cucinare del lesso.”
“ Beh, mi sembra che lei voglia proprio stare nel suo brodo.”
Lo stesso giorno io mi sento cosi, ho paura di ritornare ai ritmi e mentre mi cullo nel non tempo arriva una telefonata dalla realta’ la mia commercialista mi dice che farà richiesta del bonus che lo Stato ci offre.
Li capisco che il desiderio di negare è alto, la voglia di sospendere le nostre vite veloci si sta soddisfando, ma il prezzo sarà elevato se non svegliamo il cervello che deve poi permetterci di fare uno scatto, una ripresa da centometrista.
Il senza tempo è ipnotico. Ora il tempo scorre quasi senza ansia, dentro.
Ma appena esci, ti ricordi.
“Dottoressa appena vado a fare le spese ho un attimo di disorientamento, ansia. Sto bene solo a casa”.
Come il carcerato che ha scontato la sua pena e che dopo anni di reclusione poi non sa che farsene della sua libertà. Vuole solo rientrare nella sua cella.
Ansia, fobia, disturbi post traumatici.
Il trauma per alcuni del “mai più come prima”.
Il trauma dei cambiamenti totali.
L’atteggiamento soporifero non permette lo slancio vitale della sopravvivenza.
“Che cosa pensa di fare poi, fuori di qua’?”
Sento di forzare alcuni nella direzione di un esame di realta’ per masticare piano piano l’ansia e l’angoscia del futuro.
“Pensa a come reinventarsi?”
“Si, ma queste potrebbero essere solo fantasie ma nella realtà poi.”
“Prima pensiamo, poi vediamo come trasformare in realtà ciò che sembra un impossibile.”
E allora arrivano le idee, quelle vere.
 “Caspita non ci avevo pensato ?”
Pensare è la nostra arma, ma spesso noi mettiamo in atto processi che lo negano il pensiero.
 Costa tempo e paura. Paura di affrontare una realtà scomoda che mette alla prova chi siamo in fondo.
“Chi siamo realmente?”
“Cupo, mi sento cupo. Voglio essere più forte del Covid. Ha idea della frase di mia madre, cazzo. Quella sul sorriso. Quella in cui mi sente ridere al telefono e mi dice : se stai ridendo vuol dire che sei in compagnia di qualcuno. Sorride perché ci sono io.”
“Ma per me?”
“Sono uno che non sorride più?”
“Già. Sorridere è la prima risposta all’altro che c’è per noi. Dopo due mesi di vita quel sorriso è il segno che nostra madre esiste per noi, una risposta di esistenza.”
Il dubbio si insinua nel “ma per me”.
 Il tutta per me, almeno una volta nella vita.
Il primo grande amore, la primissima esperienza.
In fondo amare è proprio questo, provocare il segno della nostra esistenza. Sorridi e confermi che esiste qualcuno per te. Qualcuno ti permette di ridere.
Scoprire il contrario getta nel vuoto. Io sono nato per farti ridere, madre. Sono nato per alleviare il tuo dolore, sono nato per essere quello che mio padre non è stato per te.
“Sogno ogni notte la donna che avrei desiderato e la porto a mia madre, la consegno. Le dico : questa è la donna che desidero.”
Piange, di un pianto muto. Cupo. Vuoto. Le sacche di dolore esplodono, rumore sordo. Senza legame, senza nesso.
“Non riesce a comprendere perché si sente così? No, devo fare.
No!, deve pensare. Imparare a pensare e collegare le idee agli affetti, agli eventi.”
 
Unire ciò che è scisso.
L’arte del rammendo.
La patologia dello strappo.


 

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