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L’avvento delle neuroscienze e la comparsa del “PHI”

6 Gen 21

A cura di Gerardo Favaretto

Mettiamo, per ipotesi, che un appassionato di letture, uno qualunque, sappia poco di neuroscienze; anzi ipotizziamo che la sua consuetudine con la tematica mente/cervello sia scarsa, che la “coscienza” sia una nozione che gli ricorda i giovanili “esami di coscienza”; mettiamo, insomma, che uno parta con le idee confuse ma, folgorato, come san Paolo sulla via di Damasco dal bisogno della verità, vuole capirne qualcosa.
Mettiamo, a questo punto, che il nostro lettore sia irresistibilmente attratto dall’impellenza di dover risolvere il cartesiano antagonismo fra soggetto o oggetto, che sia preso dall’urgenza di esplorare che cosa sia “l’identità personale”, ossia che necessiti di urgenti risposte alle domande: chi sono? Come penso? Cosa sono? Quanti siamo? E così via. Si potrebbe dire che chi si pone questi interrogativi smetta di essere uno lettore qualunque e si meriti, sul campo, la qualifica di appassionato di filosofia, di psicologia e di qualsiasi altra disciplina che esplori i principi sull’origine e sulla natura della materia, del manifestarsi dell’umano e del senso primo della esperienza vissuta.
Mettiamo che questo aspirante “essere umano” (perché a questo punto ha pienamente meritato l’avanzamento di livello) pieno di buona volontà, passi per una libreria e venga conquistato dal candore della copertina del libro “PHI”:  un’iconica  e dorata lettera greca: “ PHI”.[1]
Lo prende e lo sfoglia: la pregevolissima edizione e i commenti in quarta pagina di copertina, riportano pareri autorevoli che esaltano la qualità di questo “romanzo”. Strano, penserà il nostro personaggio. Giulio Tononi, che ne è l’autore, è un neuroscienziato; anzi, vedendo la terza di copertina, apprende che è neuroscienziato e psichiatra e che ha scritto libri con Edelman e Massimini sulla coscienza.



Perché, si chiede incuriosito il nostro, scrivere un romanzo che promette un viaggio “dal cervello all’anima”? L’”essere umano” si fa diffidente: di quale viaggio parliamo? Perché un viaggio? Dal cervello di chi? all’anima di chi? E ancora, un viaggio perché si svolge nello spazio? Un viaggio nel tempo? Un viaggio nello spazio -tempo? Un viaggio nelle probabilità e nelle possibilità? Nei “qualia”? Nell’essere e nel divenire? Nell’ accadere nel non accadere? Fra i quanti e il bosone?
Mettiamo che pensi questo, e siamo solo alla copertina, e che convintamene e con brio acquisti quel libro. Il nostro, come uno scoiattolo in tana, inizia il suo viaggio nel PHI.
Galileo (sì, lui, Galileo Galilei) è il protagonista del romanzo: nella veste di un personaggio – viaggiatore. Con una “esplorazione guidata” vaga fra sogni e dialoghi incontrando chi nel tempo ha qualcosa da mostrare, sul cervello, sulla mente, sull’anima sulla coscienza. Galileo, come Dante, esplora mondi dell’ “oltre umano“ e lo fa con delle guide: le guide sono Francis Crick, Alan Turing e Charles Darwin [2] e attraversa Inferno, Purgatorio e Paradiso come nella Commedia.
 Le oltre 300 pagine del PHI sono arricchite da immagini preziose: quadri e stampe, foto di animali, insetti, sezioni del cervello, frammenti di film, disegni: il menù sembrerebbe perfetto e ben articolato. Il Nostro è incuriosito da camei di storie esemplari: celebrità con danni neurologici, alterazione della percezione, della memoria e della coscienza; incontri con pittori, studiosi, fisici e scienziati di varie epoche e incontri con personaggi cruciali del nostro tempo Freud, Proust, Kafka) fino ad arrivare, nel Paradiso, a spiegare come funziona l’arte, la conoscenza e alla attesa rivelazione del segreto del  PHI.
Leggendo questo intarsio di storie, dialoghi, allegorie e indovinelli, “l’essere umano“ si trova a pensare che questo testo, in piccolo, sia una edizione contemporanea della Anatomia della Melanconia di Robert Burton[3]. La prima edizione della Anatomia è del 1621, ma il suo grande successo, già nel 1628, lo portò ad averne tre. È possibile che Galileo lo abbia conosciuto e lo abbia letto dato che la sua morte risale al 1642.
Robert Burton che usa lo pseudonimo di Democritus Junior era il bibliotecario del Christ’s College di Oxford. Nella traduzione italiana della sola parte di Introduzione al libro, edita da Marsilio e curata da Jean Starobinki[4], il filosofo svizzero nel suo saggio introduttivo apre, come un’ostrica, lo scrigno dei segreti di Burton: dal suo pseudonimo, segno dell’aspirazione all’essere nuovo Democrito[5], alla confessione di Burton che lo scopo del libro fosse la cura della propria melanconia.
Anatomia della Melanconia è una somma di citazioni, di incastri; nasce, come dice Burton stesso, da “un vasto caos e confusione di libri e, per parte sua, ammetterà non sarà che uno dei tanti testi sulla Melanconia dato che noi non siamo che cifre [6]. Senza entrare nel fascinoso mondo della Melanconia, dell’assenza e della allegoria, di Saturno e degli umori, il Nostro non può trattenersi dal pensare che il  PHI glielo ricordi.
L’intreccio dantesco a cui il Nostro è sottoposto nel viaggio ha qualcosa di profondamente melanconico più che rivelatorio. Sembra quasi un tentativo neo-barocco di curare una melanconia irriducibilmente nascosta sotto le grandi domande che riguardano l’uomo: alcune “questioni prime”, per quante risposte trovino, sottendono sempre quella del vuoto, del nulla, del nero della "melaina cole" che si aggira come un’ombra dentro ogni narrazione, che si incarna nella parola e, dunque, nelle vicende di un viaggio che finisce per dissolversi in nostalgia.
Alla fine del libro, pur fidandosi del fatto che Tononi sia un grande scienziato, il Nostro non ha una idea chiara di che cosa sia il PHI. Ha girato come in una centrifuga nel Sé (chi siamo?), nell’ aspetto materiale (di cosa siamo fatti?), nel modo di manifestarsi (come pensiamo?) nella continuità dello spazio-tempo (quanti siamo?) e ne esce un po' centrifugato.
 

[1] Giulio Tononi: F . Un viaggio dal cervello all’anima. Codice edizioni, Torino 2014 e 2017
[2] Tononi suddivide ogni episodio del viaggio in due parti distinte: la prima narrativa e dallo stile dialogante e la seconda di note che contengono istruzioni per la decifrazione di personaggi, citazioni e iconografia. in una di queste note commentando dice che forse questo terzetto è po’ troppo parziale e un po’ troppo inglese.
[3] R.Burton:  Anathomy of melancholy, edited by H. Jackson NYRB, 2001
[4] Burton: Anatomia della Melanconia, a cura di J.Starobinski, Marsilio 1983 (la traduzione è sul testo citato in nota precedente, in una precedente edizione)
[5], Il ritratto di Burton, in copertina, è posto sotto quello di Democrito di Abdera,
[6]J.Starobinki: Democrito parla: l’utopia melanconica di Robert Burton. Op. cit. Pagina 11

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