La foto colpisce per la sua potenza rappresentazionale, per il modo esemplare con cui configura il “Trionfo della Madre”. Il padre è assente, il figlio maschio sembra sostituirlo, la figlia femmina nasce nel contesto di una relazione madre-figlio che chiude la strada all’uomo. C’è una strana assonanza con il quadro di Leonardo “Sant’Anna, la Vergine e il bambino”. Nella foto la madre occupa il posto di Sant’Anna, il posto della Vergine lo prende la neonata. Nel quadro la figura centrale, che sorregge l’intera scena, è Sant’Anna, la madre della madre Vergine, la “Grande Madre”. Seduta sulle sue ginocchia la figlia protesa verso il figlio divino lo afferra con le mani, mentre lui a sua volta abbraccia un agnellino (il suo destino sacrificale). Secondo un dogma della Chiesa cattolica la Vergine è nata per “immacolata concezione”: Sant’Anna sarebbe stata ingravidata da un bacio/soffio di vento.
Un principio religioso -la dissociazione della maternità dal legame erotico tra la donna e l’uomo- la cui funzione sarebbe quella di elevare l’essere umano oltre la sua condizione materiale terrena nella vita spirituale ultraterrena, cala nella realtà mondana. Trasforma il legame tra madre e figli in un patto endogamico, di sangue. Preclude lo spazio della relazione esogamica (la relazione della madre con il padre, l’unico membro dalla famiglia che non viene dal grembo di lei) e lo spazio delle reazioni di scambio tra diversi, su cui si fonda ogni forma di civiltà. La sua presenza tra di noi -che mina lo sviluppo delle nostre relazioni, creando una moltitudine di monadi autoreferenziali, non comunicanti- testimonia un processo di de-civilizzazione.
La figura della “Grande Madre”, che separa la maternità dalla donna, è totalmente subalterna al sistema patriarcale di concezione del mondo, ne rappresenta la dimensione estrema. Sostituisce la figura del padre reale (padrone e insieme schiavo del suo privilegio sociale che solo l’amore per la donna può redimere, restituire a vita vera) con il Padre Ideale (l’astrazione della virilità in un potere spirituale, desessualizzato, il fondamento dell’Uno, del principio totalitario). Nella esperienza psicoanalitica la madre virginale, che non associa il suo partner al proprio creato, vissuto come messianico, si presenta come figlia di una donna (la nonna del “redentore”) che immaginandosi, per prima, come vergine, non ha trasmesso alla figlia il significato del suo corpo erotico.
La donna virginale è profondamente ferita nel suo desiderio, vittima di un sistema che di questo desiderio ha paura e nella sua determinazione più folle cerca di alienarlo, di renderlo omogeneo alla propria immaterialità disumanizzante.
Con il parto “naturale”, visto come un ritorno alle nostre origini incontaminate dalla civiltà, si fraintende la natura umana. Essa non è concepibile, afferrabile attraverso la nostalgia di un paradiso perduto che inconsciamente rimanda a una vita immacolata dal “peccato originario” del desiderio erotico della donna. È fondata sul principio femminile della cura di sé e dell’altro che implica, innanzitutto, il rispetto delle differenze a partire dalla differenza tra madre e figlio (di cui la presenza di un padre è garante). Fa parte della cura che la donna non partorisca nel dolore o nel pericolo per lei e/o il figlio, e neppure in uno stato di anestesia. Che partorisca in prossimità del suo amore per la vita e per la diversità del suo creato e non nell’attesa (simbiotica) di un messia.
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