Percorso: Home 9 Rubriche 9 MODELLO LIOTTIANO 9 Le lezioni di Giovanni Liotti: prime pagine di appunti

Le lezioni di Giovanni Liotti: prime pagine di appunti

12 Ott 21

A cura di Lucia Tombolini


Una nuova rubrica curata dal gruppo A.R.P.A.S. (https://www.associazionearpas.it/) sull'eredità teorica di Giovanni Liotti, psichiatra e psicoterapeuta romano fondatore con Vittorio Guidano della SITTC nel 1972 (https://www.sitcc.it/), riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di psicoterapia cognitiva (ma non solo), psicotraumatologia e teoria dello sviluppo oggi in Italia. Liotti non ha bisogno di grandi presentazioni. In questa rubrica verrà tentata la definizione di un "modello liottiano" partendo dai suoi più importanti contributi.
Raffaele Avico redazione Psychiatry on Line

di Lucia Tombolini

Il fumo e la cattedrale

Quando ho conosciuto Giovanni Liotti ancora si poteva fumare negli ambienti pubblici. Quando penso alle sue lezioni, vedo distintamente nel ricordo i movimenti che faceva mentre accudiva la pipa. Dico “accudiva” perché, come sanno anche i non fumatori,  la pipa richiede attenzione. Va periodicamente svuotata e pulita;  il tabacco va pressato nel fornello, e  il fumatore  ha a disposizione scovolini e altri piccoli accessori per mettere in atto  una serie di manovre che richiedono in primo luogo calma e concentrazione, ma soprattutto la capacità di differire il soddisfacimento immediato del desiderio. Mentre espletava questo compito (quanta fatica per una minima soddisfazione, pensavo)  le sue parole costruivano cattedrali concettuali in cui tutto quadrava, imponenti costruzioni edificate su  ipotesi teoriche  apparentemente semplici da seguire ed  esposte con un linguaggio ricco e affascinante, le cui fondamenta erano le ricerche scientifiche  di cui  citava con infallibile accuratezza titoli, autori e  anno di pubblicazione.  Dietro a quell’apparente facilità con cui ci rendeva accessibili le guglie, i transetti e i rosoni delle sue opere, in realtà la complessità del modello teorico  richiedeva da parte dell’ascoltatore un lungo lavoro di digestione ed elaborazione.  Era nelle supervisioni, e quindi nella traduzione clinica,  che alla fine accadeva  quello che tanto aspettavamo: la corrispondenza tra quello che cercavamo di capire teoricamente e la complessità e indecifrabilità della  realtà clinica. Erano quelli i momenti  in cui il fumo della pipa si dissipava e la cattedrale sembrava vicina, perfettamente visibile e in piena luce.
Per cominciare  a ripercorrere parte dell’ eredità culturale e umana di Giovanni Liotti  ho deciso di seguire un solo filo conduttore, di visitare una  parte della navata centrale della cattedrale del suo modello teorico: il rapporto tra i processi conoscitivi taciti che un individuo ha di sé e la conoscenza esplicita con cui legge le proprie esperienze.    Pur nei limiti della trattazione parziale e ristretta  a questo  unico tema, quello che vorrei trasmettere è  anche il senso della costante evoluzione del pensiero di Liotti,  che si è arricchito  e modificato nel tempo incorporando le osservazioni sperimentali  e  i contributi di altri autori (penso a Darwin e a Bowlby, a Lichtenberg  e a Gilbert, a Main e a Tomasello, a Stern e a Lyons-Ruth, a Damasio e a Edelmann, ma l’elenco sarebbe lunghissimo, e mi prendo la responsabilità di aver citato, tra i tanti, questi nomi  in quanto   immediatamente fruibili nella mia memoria di lavoro).    
Nel primo training con  Liotti (per noi fin da subito e poi per sempre, Gianni) il momento per me più emozionante  è stato  quando aveva  parlato della teoria dell’attaccamento, di cui allora ignoravo l’esistenza. Nel 1983 Gianni era ricercatore alla Sapienza,  e aveva offerto a noi specializzandi in psichiatria alcuni primi incontri informativi che poi sarebbero diventati, per i più interessati, un corso triennale di formazione in psicoterapia cognitiva. Ascoltandolo collegare   Lorenz, Harlow  e Bowlby,   era stata per me  una rivelazione folgorante la spiegazione della protesta d’attaccamento come richiamo per recuperare, e non per distruggere come temevo io, la  disponibilità e vicinanza delle figure affettive. Ma   nel corso degli anni e dei diversi training a cui ho assistito prima come studente, poi co-trainer, infine come co-didatta, ho potuto osservare che nel suo pensiero il posto privilegiato non era riservato solo al significato clinico delle emozioni, ma ad altri due punti fondamentali per la riflessione in terapia cognitiva: la costruzione della conoscenza e la motivazione.  Come dicevo, parlerò del primo tema e citerò soltanto in breve il concetto di motivazione a base innata del cognitivismo evoluzionista, che pur essendo strettamente  connesso al primo,  merita di essere esaminato in altro contesto.

La costruzione della conoscenza

Fin dall’inizio della collaborazione con Vittorio Guidano, l’attaccamento  aveva  fornito ai due autori la  teoria dello sviluppo di cui necessitavano  per spiegare come nasce e si organizza  la dimensione interpersonale della conoscenza, e che permettesse di collegare   i racconti   che pazienti   fanno  sull’infanzia e le credenze su  se stessi e sul mondo,  con il livello tacito delle esperienze,  livello meno accessibile alla critica e alla riflessione.  
 Nei  training di Liotti  le prime lezioni erano dedicate     alla distinzione tra conoscenza e memoria implicita, il know how, formata da schemi senso-motori, e conoscenza e memoria esplicita, il know that, che utilizza il linguaggio e se ne arricchisce attraverso la complessità di quest’ultimo.
Il conoscere implicito relativo al fumare la pipa si impara ripetendo i movimenti e le sequenze di carica e pulizia del fornello, finché non acquisiscono una loro liturgia automatica in cui la coscienza di solito non ha un ruolo. La coscienza è necessaria  nel momento in cui devo descrivere le varie operazioni con il linguaggio. In questa traduzione ci rendiamo conto della difficoltà di esprimere a parole tutta una serie di movimenti che di solito facciamo e basta, del tempo che l’operazione richiede, e della noia e pesantezza tipica dei manuali di istruzione degli elettrodomestici (una grande industria di mobili ha provato con i disegni al posto delle parole, e anche se  fraintendere   quelli che sembrano rebus con bulloni e rotelle porti ad assemblare   mobili strampalati,  confrontarsi con le immagini è senz’altro più facile).
 Conosciamo noi stessi e la relazione con gli altri perché impariamo a conoscere, a prevedere e a indirizzare il comportamento del  caregiver:  molto tempo prima dell’acquisizione del linguaggio, per il bambino l’identità  comincia a formarsi  sugli schemi sensomotori impliciti che si formano nelle interazioni che si ripetono quotidianamente.  Citando Stern, Liotti ci ricordava come il bambino acquisisca progressivamente    le regole dell’interazione routinaria, creandosi delle aspettative su quanto accadrà nella sua giornata e negli scambi con il caregiver. Anche le regole delle interazioni ripetute che si verificano nei momenti di vulnerabilità e di bisogno sono  vissute da dentro, impresse nella conoscenza somatica e  incorporate nell’identità prima del linguaggio: la terminologia di Bowlby per definire tali regole, cioè  modelli operativi interni,  rende evidente come  questo nucleo di conoscenza implicita di sé in relazione all’altro abbia il potere di plasmare il comportamento del bambino che impara a prevedere e in qualche misura a  indirizzare dove andranno l’attenzione e le risposte della madre alle sue richieste di vicinanza. Per fare un esempio di quanto è potente il sapere implicito, basta pensare a quello che ci succede salendo sui primi gradini di una scala mobile ferma. Pur vedendo che la scala non non si sta muovendo, il nostro corpo prevede (perché li conosce e ne conserva la memoria) l’instabilità e il leggero ondeggiare dovuto alla salita. Il risultato è quel brevissimo attimo di vertigine: il corpo sa, si aspetta, si modifica, molto prima della consapevolezza e indipendentemente da quest’ultima.
Con la diffusione nel mondo clinico della teoria dell’attaccamento,   si è  cominciato a  discutere se l’attaccamento fosse sinonimo di relazione. Ovviamente non lo è, visto il ruolo degli altri sistemi motivazionali; a questo passo in avanti del cognitivismo evoluzionista, , si era aggiunto    nel pensiero di Liotti   l’interesse per il concetto di  coscienza  e delle sue basi interpersonali.
Fin dagli anni ’80, mentre  il mondo clinico cominciava a fare i conti con  le cicatrici psichiche    riportate dai reduci della guerra del Vietnam e con la riscoperta del trauma,   una delle  prime letture che ci aveva consigliato era stata “La scoperta dell’inconscio” di Ellenberger., il ricco e affascinante testo del 1970 che accompagna il lettore da Mesmer fino alla nuova psichiatria psicodinamica  e che lo introduce ai concetti di  alter (bambini, persecutori, protettori), di personalità multiple più o meno all’oscuro della loro contemporanea presenza, di stati mentali alternanti che con il loro affacciarsi alla coscienza   ne alterano la continuità.
E’ vero che Liotti aveva formulato con Vittorio Guidano le organizzazioni cognitive, cioè le descrizioni di elementi clinici   ricorrenti   osservabili nelle  varie classi di disturbi psicopatologici,  ma già la sua attenzione era agli eventi traumatici nella relazione di attaccamento,  e come questi giocassero  un ruolo cruciale nella qualità e nella continuità della coscienza.
Ma torniamo al know how. Memoria, conoscenza, coscienza: il modello operativo interno  è alla base del nostro modo di dare un senso all’esperienza perché il sistema  dell’attaccamento, presente dalla culla alla bara,    è il primo sistema motivazionale interpersonale ad attivarsi.
Consigliandomi  all’inizio del  mio primo corso  da trainer, Liotti mi aveva ancora un volta ricordato l’importanza di trasmettere agli allievi il concetto che i nostri pensieri -così preziosi per la terapia cognitiva che ci fornisce molte tecniche per esplorarli e rivederli criticamente- cercano di dare forma ed espressione, ovviamente limitata,  a un mondo interno dalle radici pre-verbali la cui complessità a volte sfugge anche al linguaggio più evoluto, ma che si manifesta comunque   sotto forma di immagini,  sogni, metafore create dal paziente, sintomi.  
L’organizzazione cognitiva, così come Guidano e Liotti l’avevano descritta, in Cognitive  Processes and Emotional Disorders (1983) era un modo di costruire e di dare un senso all’esperienza basato su un nucleo metafisico resistente al cambiamento. Il  termine stesso preso dal filosofo della scienza  Imre Lakatos (1974) suggeriva la difficoltà di cambiare il core della memoria implicita del paziente, costruita nella relazione con il caregiver e impressa  nella sua memoria/conoscenza preverbale.  Lakatos sosteneva che un programma di ricerca scientifica si fonda su un nucleo metafisico, i cui assunti  sono intoccabili e non criticabili,  protetti da una cintura protettiva, a sua volta formata da ipotesi che possono essere confutate  attraverso  tutti quegli esperimenti che forniscono dati discordanti.  Le confutazioni quindi si fermano alla cintura  e non toccano il nucleo,   che può essere soltanto sostituito in blocco  da un nuovo programma di ricerca, come è accaduto, per esempio,  nel passaggio  dalla fisica newtoniana a quella quantistica: i  nuclei   metafisici  delle due teorie si differenziano per il ruolo attribuito allo spazio, al  tempo  e alla indipendenza o meno  dall’osservatore, elementi essenziali nell’impianto  della fisica quantistica  in contrapposizione a  quella newtoniana. Nel volume citato, utilizzando l’analogia tratta dal pensiero epistemologico,   Guidano e Liotti sostengono che l’identità personale,   a partire dalle vicissitudini relazionali dell’infanzia,  si basi su  un nucleo metafisico  che racchiude la conoscenza implicita di sé e della relazione d’attaccamento (il sapere implicito) ; la cintura protettiva è invece raccontabile (il sapere esplicito autobiografico), ed è costituita dalle teorie e dalle spiegazioni che il paziente si dà dei suoi disturbi e da come si rappresenta e descrive   il rapporto con gli altri.      
Le organizzazioni descritte in questo testo del 1983 hanno aiutato molti di noi a  muovere i primi passi nella psicoterapia;  ma mentre cercavamo di infilare a forza i nostri pazienti in una diagnosi (a noi  le organizzazioni piacevano, perché ci dava sicurezza la loro capacità predittiva, per esempio “il paziente agorafobico  odia il caldo perché lo fa sentire più debole e per lui vulnerabilità è sinonimo di perdita di controllo”), trovavamo  più difficile cogliere le differenze tra  queste  accurate e complete descrizioni e la realtà della persona che avevamo di fronte nella stanza della terapia, che poteva discostarsi da quello che avevamo studiato essere tipico di una specifica organizzazione. Mentre cercavamo le somiglianze, Liotti  ci sottolineava invece le discrepanze che sfuggivano alla descrizione libresca, e coglieva subito il dettaglio che non quadrava, quello che non era tipico, l’elemento discontinuo: ci stava portando  sempre con più chiarezza, e con  i nuovi dati della ricerca sul bambino   e sulle rappresentazioni mentali dell’attaccamento dell’adulto,  verso la disorganizzazione. Non era più la coerenza interna al centro della sua attenzione, ma quali sono i fattori che la turbano e impediscono all’individuo una costruzione unitaria della conoscenza di sé.
Lasciando sullo sfondo, pur senza mai ripudiarle del tutto,  le quattro organizzazioni cognitive (ormai Liotti detestava il termine “dappico” mutuato dall’originario “disturbo alimentare psicogeno” e l’aveva sostituito con il più diffuso  DCA “disturbo del comportamento alimentare"), l’attenzione si era spostata al concetto di nuclei di significato, temi peculiari di ognuno di noi,   che danno forma  con un riconoscibile  stile narrativo alla  propria conoscenza autobiografica, e al fatto che la presenza di nuclei di significato incompatibili e simultanei potesse interrompere la funzione organizzatrice della coscienza. Non più un’identità unitaria e organizzata (anche se così ben descritta che i casi clinici del volume del 1983  mantengono ancora oggi il loro fascino), ma un’identità che poggia su un costante lavoro di organizzazione da parte della coscienza  a garantirci quell’illusorio ma indispensabile senso della continuità.  

La motivazione

In La dimensione interpersonale della coscienza (1994), i due temi a cui mi rifacevo all’inizio,  costruzione della conoscenza e motivazione, vengono trattati  insieme a quello che sarà l’interesse principale dei libri successivi, la coscienza. In questo volume i sistemi motivazionali sono descritti brevemente e in relazione alla funzione  prioritaria del sistema motivazionale dell’attaccamento, mentre troveranno uno spazio sempre più ampio negli scritti successivi.
In estrema sintesi, tenendo sempre presente quello che interessa maggiormente il nostro tema della conoscenza di sé, i sistemi motivazionali interpersonali ci permettono di attribuire alle emozioni un ruolo, non motivante di per sé, ma conoscitivo rispetto all’assetto interpersonale che stiamo vivendo in un preciso momento. Come già anticipato nella trilogia di Bowlby, le emozioni fanno parte di un sistema comportamentale complesso e organizzato per un fine selezionato dall’evoluzione.  Questi sistemi regolano  comportamenti innati in vista di uno scopo,  agiscono  al di fuori della coscienza, e  diventando coscienti  attraverso l’emozione ci danno informazioni sul rapporto tra noi e l’ambiente. L’ emozione, come dicevamo,   segnala all’individuo  se ci sono ostacoli nel perseguire la meta e se si è raggiunto l’obiettivo del sistema motivazionale attivo in quel momento.  Il valore evoluzionistico   del sistema motivazionale dell’attaccamento è  la vicinanza protettiva di una persona in grado di dare aiuto e conforto quando  si è vulnerabili ai pericoli ambientali. Quando è attivo questo sistema, la paura rappresenta  il segnale -che affiora alla coscienza- di un ostacolo al raggiungimento della meta del sistema, cioè la vicinanza al caregiver. Il conforto, la gioia e il senso di sicurezza ci segnalano che la meta è stata raggiunta ed è stata ottenuta la prossimità con la figura di attaccamento.
Rimando il lettore all’opera  L’evoluzione  delle emozioni e dei sistemi motivazionali  del 2017,  curata da Liotti,  Fassone e  Monticelli,,   per trovare una trattazione aggiornata dei diversi sistemi motivazionali, della loro definizione grazie ai  contributi dell’etologia, della neurobiologia, della psicologia sociale e dell’antropologia evoluzionista, e soprattutto dell’architettura gerarchica in cui si collocano. Per il nostro discorso è importante ricordare che Liotti pone nel livello più elevato della motivazione umana i sistemi comunicativi e conoscitivi superiori (alla base dell’intersoggettività)  e la creazione ed esplorazione delle strutture di significato. Nel livello più arcaico colloca il sistema di difesa responsabile delle risposte di attacco e fuga indispensabili per la sopravvivenza, e nel livello intermedio, quello limbico, i vari sistemi interpersonali (attaccamento, accudimento, rango, sessualità, gioco, affiliazione).
 Nel pensiero di Liotti,  l’applicazione alla clinica dei sistemi motivazionali comporta una diversa definizione dell’organizzazione cognitiva rispetto alle formulazioni   del 1983:  le strutture della conoscenza autobiografica semantica, i nuclei di significato che organizzano la conoscenza interpersonale, sono adesso considerati dal punto di vista della capacità di attribuire a classi di emozioni un significato corretto, contestuale e in relazione con l’altro. Se prendiamo come esempio i  pazienti agorafobici, questi  avrebbero una  particolare  difficoltà ad attribuire significato all’ansia da separazione, non cogliendone il valore di  protezione di  un legame affettivo. Il legame affettivo  viene  percepito come minacciato dalla formazione di un nuovo legame (un matrimonio rispetto al rapporto con i genitori) o dal desiderio del paziente stesso di  interromperlo,  come si verifica nel caso di un nuovo innamoramento se si è già impegnati. L’ansia viene vissuta come invalidante rispetto alla padronanza, cioè alla capacità di affrontare la vita, e  negativa per l’immagine di sé,  in questo momento percepita indebolita, fragile, esposta al giudizio degli altri.  Abbiamo quindi un tema narrativo centrale: i rapporti affettivi anche se non voluti sono necessari per mantenere la mastery,  e un deficit di conoscenza dell’emozione vista come debolezza o malattia e non come segnale della situazione interpersonale in atto.
La conoscenza di sé con l’altro si   struttura in questo caso intorno al nucleo di significato della libertà contrapposta alla costrizione nei rapporti affettivi. E’ possibile ipotizzare che le esperienze precoci sulle quali si è costituita questa rappresentazione di sé siano state quelle di limiti all’esplorazione da parte del caregiver. Con simili vincoli,  autonomia ed esplorazione erano  possibili soltanto attraverso il controllo sulla propria vulnerabilità. Non si tratta di un’equazione semplicistica per la quale a determinati pattern di attaccamento (presunti dalla situazione clinica attuale) ne deriva necessariamente una psicopatologia, ma di quali circostanze evolutive possano aver ostacolato l’esplorazione e la corretta attribuzione di significato a emozioni e comportamenti.   
Per riassumere: il continuo interesse di Liotti per le applicazioni cliniche dell’attaccamento lo ha portato dalle prime formulazioni  dell’identità personale con relativa impermeabilità al cambiamento,  agli studi   sulla psicopatologia della coscienza, al funzionamento e alle sue opere (come dice il titolo del suo bellissimo libro del 2001), a come  vicende traumatiche di sviluppo   portino la conoscenza a   strutturarsi su nuclei di significato a volte molteplici e inconciliabili. Esperienze evolutive  possono ostacolare la formazione  di un tema narrativo principale e individuabile, anche se con un contenuto doloroso (“non ho importanza agli occhi dell’altro e sono destinato alla solitudine”). Il rapporto con un caregiver spaventato/spaventante può portare allo sviluppo di  più nuclei semantici relativi all’esperienza di sé con l’altro,  con  narrazioni dissociate, incoerenti e poco funzionali per lo sviluppo della metacognizione (rimando il lettore interessato a questo tema ad approfondirlo in  La costruzione interpersonale della coscienza e a Le opere della coscienza).  Le rappresentazioni relative alla disorganizzazione dell’attaccamento  sono state  all’inizio spiegate da Liotti  attraverso la descrizione dei ruoli di Vittima, Persecutore e Salvatore, costruiti intorno all’attivazione simultanea di più sistemi motivazionali nel rapporto con il caregiver (attaccamento, accudimento, rango). Successivamente,  in Sviluppi traumatici (2011) Liotti e Farina attribuiranno un ruolo privilegiato al sistema di difesa e al suo effetto disorganizzante sulla coscienza.

Il profumo del tabacco

Per riassumere,  ecco i primi appunti  del quaderno  delle lezioni di Giovanni Liotti: la costruzione dell’identità e quello che io posso conoscere di me in un determinato momento sono contesto-dipendenti e sono influenzati, oltre che dalle mie esperienze passate, anche dalla qualità della relazione in atto. Se nella relazione con il caregiver ho vissuto la condizione di paura senza sbocco che caratterizza l’attaccamento disorganizzato, riproverò la paura in terapia  nel momento in cui la relazione con il terapeuta è percepita come prevalentemente accudente e meno collaborativa (per una trattazione esaustiva di questi concetti si rimanda a Teoria e clinica dell’alleanza terapeutica, 2014, a cura di Liotti e Monticelli).
 Secondo: la  conoscenza esplicita esprimibile a parole ha seguìto un preciso percorso di sviluppo e si è strutturata a partire dalle  relazioni d’attaccamento. Questo concetto può sembrare ormai acquisito  da anni e condiviso da molti.  In realtà anche negli  ultimi lavori di Beck benché  siano   descritti  i  modes, strutture  che analogamente ai sistemi motivazionali comprendono  aspetti   cognitivi, affettivi, comportamentali e psicofisiologici, non è ben chiara una teoria dello sviluppo che ne spieghi la formazione, né quali sono gli inneschi che ne giustifichino l’attivazione nei diversi contesti interpersonali (Beck 1996,  Bech, Davis e Freeman 2015). L’attaccamento inoltre ha un ruolo importante anche nel funzionamento degli altri sistemi motivazionali e di come questi entrano a far parte dei nuclei di significato individuali: se prendiamo  per esempio il sistema di rango, possiamo vederne un funzionamento scarsamente regolato e influenzato dalle vicissitudini dell’attaccamento nella depressione (Gilbert,1989. Onofri e Tombolini, 2003)   o nei disturbi del comportamento alimentare (Liotti, 2001).  
Terzo: i sogni, le immagini metaforiche con cui cerco di esprimere quello che provo e come mi percepisco (“un binario morto”, “un sacco vuoto”, “un albero spezzato”) e alcuni sintomi che hanno al centro un’immagine di sé negativa, difettosa, o spaventosa per l’altro (pensiamo a certe dismorfofobie, o a particolari  paure ossessive (come nel caso dell’Uomo dei Chiodi descritto  nelle Opere della coscienza)  sono  il ponte tra la conoscenza implicita, somatica e procedurale, e quella descrivibile con il linguaggio.  
Quando il fumatore è uscito dalla stanza,  il profumo della pipa rimane  e continua ad aleggiare. A lungo.

Bibliografia

Beck A.T. (1996) Beyond Belief: a Theory of Modes, Personality, and Pychopathology, in P. M. Salkovskis (ed) Frontiers of Cognitive Therapy, The Guilford Press, New York.
Beck A. T. (2015) Theory of Personality Disorders in A. T. Beck A. T., D. D. Davis, A. Freeman  (eds) Cognitive Therapy of Personality Disorders, The Guilford Press, New York.
Gilbert P. (1989) Human Nature and Suffering. LEA, London.
Guidano V.,  Liotti G. (1983) Cognitive Processes and Emotional Disorders, The Guilford Press, New York. Ed it. Processi cognitivi e disregolazione emotiva, 2018, Edizioni Apertamenteweb, Roma.
Lakatos I. (1974) Falsification and the Methodology of Scientific Research Programs, in I. Laktos, A. Musgrave (eds) , Criticism and the Growth of Knowledge, Cambridge University Press, Cambridge (trad. it. Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1976).
G. Liotti (1994) La dimensione interpersonale della coscienza, La Nuova Italia Scientifica, Roma.
G. Liotti, Farina B, (2011) Sviluppi traumatici, Raffaello Cortina Editore, Milano.
G.Liotti (2001) Le opere della coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Onofri A., Tombolini L. (2003) Psicoterapia cognitiva e disturbi dell’umore. La prospettiva cognitivo-evoluzionista e i sitemi motivazionali interpersonali. Psicobiettivo, XXIII, 35-54.
G. Liotti, G. Fassone, F. Monticelli (2017)  (a cura di) L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali, Raffaello Cortina Editore, Milano.
G. Liotti, F. Monticelli (2014) ( a cura di) Teoria e clinica dell’alleanza terapeutica, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Loading

Autore

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Caffè & Psichiatria

Ogni mattina alle 8 e 30, in collaborazione con la Società Italiana di Psichiatria in diretta sul Canale Tematico YouTube di Psychiatry on line Italia