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LE PAROLE DI JUNG: “ARCHETIPO”

16 Dic 19

A cura di Alessandro Raggi

«…sarebbe sorprendente se la psiche fosse l’unico fenomeno biologico che non mostri chiare tracce della sua storia evolutiva»
(Carl Gustav Jung, 1947,1954)

 

Carl Gustav Jung lascia una sterminata eredità – spesso contraddittoria – fatta di prospettive cliniche, ipotesi teoriche, suggestioni intellettuali e culturali: soprattutto egli consegna ai posteri molte nuove parole.
 La rubrica di PoL Italia.it “SPAZIO JUNG” da me diretta, cercherà attraverso le “PAROLE DI JUNG” di presentare e raccontare, in maniera il più possibile divulgativa, alcune di queste parole.   
La parola junghiana che tratteremo per prima è ARCHETIPO. Essa è strettamente collegata a INCONSCIO COLLETTIVO che vedremo successivamente.



 
L’uso corrente del termine
Il termine archetipo, come peraltro tutta una serie di termini, propri della psicologia e della psicoanalisi, è entrato a far parte del lessico comune e quotidiano anche di chi non è conoscitore della materia.
Si utilizza spesso “archetipo” nel senso di “modello”, come nella frase: «la Venere di Botticelli è un archetipo della bellezza». Questo uso del termine, però, come sinonimo di altre parole, non corrisponde esattamente all’idea junghiana di archetipo.
 
Una prima definizione
Jung intende per archetipo una struttura, una configurazione della psiche, che può in modo del tutto autonomo e orientativo dare forma a contenuti del pensiero, emozioni e comportamenti finalizzati negli esseri umani.
 
Archetipo: le fonti
Ciò che Jung riferisce di aver tratto da Platone (la parola Archetipo, appunto) è stato per la prima volta pronunciato con tutta probabilità da Anassimandro, che utilizzò la parola Archè per indicare «l’unità da cui tutte le cose provengono ed in cui tutte ritornano». L’Archè a sua volta, verrà riproposto da Platone dopo una rivisitazione di concetti appartenuti a suoi predecessori. Tra questi, una posizione particolare spetta certamente a Parmenide, che gettò le basi (un primo tentativo era stato in parte abbozzato dai presocratici) per lo sviluppo della tematica metafisica. La metafisica, da allora in poi movimenterà tutto il pensiero dell’Occidente.
I problemi degli uomini di pensiero, fin dalle origini erano soprattutto i seguenti: “perché le cose sono”, perché cessano di essere”, “perché si generano”. I primissimi tentativi di dare una risposta a domande del genere sono collocabili tra i filosofi “naturalisti”. Questi, cercavano le risposte nel mondo fisico e tangibile degli elementi della natura circostante.
 
La metafisica platonica sarà quella che porterà il pensiero Occidentale ai più alti livelli. L’essere metafenomenico di Platone è conoscibile solo attraverso l’intelligenza, il pensiero, e non mediante i sensi. Il mondo Iperuranio un mondo dunque sovrasensibile, che supera cioè la portata dell’esperienza: il mondo delle Idee.
 
Il grande passo di Platone è riassumibile, semplificando, in questo modo: si consideri un concetto, uno qualunque, ad esempio quello di rotondità. Lo si confronti con una cosa rotonda, ad esempio un pallone da calcio, o un mappamondo. Il pallone o il mappamondo sono rotondi, ma non lo sono stati prima di essere prodotti: in passato erano semplice materiale di produzione informe ed in futuro potrebbero corrompersi o altro. Invece, la rotondità è invariabilmente rotonda: non può essere allungata o distorta. La stessa cosa vale per il contenuto di qualunque altro concetto. Esso è ciò che è, mentre gli enti particolari che gli corrispondono mutano in continuazione.
 
Si giunse dunque per la prima volta nella storia a differenziare il sentire dal concepire. Il pensare ad un concetto, ad un’idea, rispetto al suo manifestarsi.
 
Questi non sono stati i primi passi incerti verso uno sviluppo della filosofia, ma hanno costituito i tratti salienti dell’intero decorso storico di questa disciplina e delle sue ramificazioni in tutto il sapere umano.
 
I resti arcaici di Freud
Freud aveva inizialmente parlato di “resti arcaici” nei sogni e nell’esperienza psichica umana, ma non approfondì questa intuizione sui dati primordiali dello psichismo, anche a seguito della sua rottura con Jung, il quale, invece, partì proprio da questa primissima definizione per portare avanti la sua ricerca. Quest’ultimo denominò “immagine primordiale” l’immagine dal carattere arcaico, densa di motivi mitologici, ossia riconducibile a motivi più collettivi che personali. L’immagine “fantastica” personale, non è influenzata, infatti, necessariamente da contenuti di carattere transpersonale.
 
La natura dell’archetipo
Della nozione di archetipo, Jung dà due versioni, le quali solo apparentemente possono apparire distanti.
La prima è un’ipotesi fenomenologica, mentre la seconda viene identificata come mitologica.


 
Esiste nell’uomo una distinzione tra sviluppo filogenetico e sviluppo ontogenetico, riscontrabile nel rapporto tra RNA e DNA.
Il DNA, in quanto genoma di specie, non determina i caratteri ereditari, ma predispone. Sarà poi l’iterazione tra caratteri genetici e stimoli ambientali a produrre una singolarità individuale attraverso l’apprendimento.
Le piccole tartarughe escono dall’uovo e seguono la loro strada verso il mare, i pinguini compiono l’imponente marcia verso temperature più miti, gli orsi si predispongono al letargo invernale, i salmoni risalgono controcorrente i fiumi per riprodursi nel luogo dove sono nati.
L’istinto animale che si configura in pattern di comportamenti complessi, può corrispondere ai modi innati in cui i bambini imparano a respirare per la prima volta, o a succhiare il latte dal seno materno.

La psiche umana, per Jung, si modella attraverso disposizioni formali, non così specifiche come i pattern di comportamento animale, ma altrettanto influenti.
Jung ipotizza, dunque, nel concetto di archetipo una risposta psichica a determinate situazioni, che si ripetono per ogni singolo essere umano, e si riattualizzano nella vita dell'individuo. Si tratterebbe di una componente psicologica altrettanto stabile quanto quella filogenetica che consente lo sviluppo di tessuti autonomi a partire dallo stesso foglio embrionale.
 
Nascita, vita, morte, amore, sessualità, ricerca di cibo, riparo e fuga dai predatori, lotta con il nemico, costituiscono esperienze sedimentate nei millenni che hanno portato allo sviluppo di una base comune a tutto il genere umano e si sono configurate come “motivi tipici” nella psiche collettiva.
 
La natura dell’archetipo è, infine, detta da Jung “psicoide”, intendendo con ciò che esso può configurarsi come ponte psicofisico che ricongiunge in sé l’aspetto biologico e l’aspetto psichico della natura umana.
 
La rappresentazione dell’archetipo: l’immagine archetipica
Jung distingue tra l’archetipo in sé, forma inconoscibile, e la sua rappresentazione simbolica, che egli chiamerà “immagine archetipica”.
La struttura psichica collettiva si manifesta nell’individuo attraverso le immagini inconsce soggettive, i cui contenuti danno origine alle immagini simboliche tipiche degli stati onirici. Queste immagini possono assumere varie configurazioni a seconda della storia personale di ciascuno, del luogo e della cultura in cui esse compaiono, pur essendo riconducibili a specifici quadri simbolici. Da qui le figure che Jung propone per ricapitolare le possibili rappresentazioni delle forme (immagini) archetipiche: Ombra, Animus-Anima, Vecchio Saggio, Puer, etc.
L’Anima ad esempio può essere intesa come l’immagine interiorizzata del femminile che ciascun individuo di sesso maschile porta con sé: un’«immagine ereditaria collettiva» (Jung, 1928) della donna.

Altre immagini archetipiche identificate da Jung in un lungo e complesso lavoro di comparazione e catalogazione, sono, ad esempio la stele, la croce, i mandala, il fuso, la ruota, etc; che ritornano nei sogni al di là del contesto storico e culturale e della nostra coscienza.

Come detto, queste rappresentazioni si modificano nei contenuti, ma mantengono una struttura formale affine: per questo l’uomo del nostro secolo può sognare (o fantasticare) un UFO, il monaco tibetano del 1500 un mandala, il Cheyenne del 1700 un dreamcatcher (acchiappasogni).
 
Le critiche all’ipotesi archetipica
Il modello psichico umano fondato sull’ipotesi archetipica è stato più volte tacciato erroneamente di determinismo. In realtà esso non coincide con la “predisposizione genetica” della neurobiologia, essendo quella junghiana una prospettiva di orientamento formale della psiche e non una specifica configurazione di contenuti, che preserva la responsabilità individuale di fronte alle scelte individuative. Gli archetipi in sé, infatti, in quanto predisposizione, non sono né ereditabili né conoscibili e si possono manifestare in modi estremamente diversificati a seconda delle culture, del tempo e dell’individuo.

Altri critici hanno fatto notare l’impossibilità di dimostrare scientificamente l’esistenza degli archetipi. Come se costrutti derivanti da descrizioni di esperienze osservabili, si potessero sottoporre alla sperimentazione strumentale delle scienze biologiche: radiografie, TAC, esami del sangue e chissà cos’altro. Sarebbe sin troppo facile obiettare a questi teorici del pensiero concreto che vita, morte e amore, sono esperienze che non necessitano di particolari dimostrazioni in quanto evidenze empiriche fondamentali.  
In ogni caso la descrizione junghiana della natura dell’archetipo è basata unicamente su dati empirici, fenomeni facilmente riscontrabili; per cui l’archetipo, essere inteso anche come una metafora (M. Trevi, 1996), allo stesso modo delle metafore esplicative del modello psichico freudiano: Io, Es, Super-Io.
 
 
BIBLIOGRAFIA

  • Carotenuto A. (1977), Senso e contenuto della psicologia analitica, Bollati Boringhieri, Torino, (nuova edizione, 1990)
  • Jung C. G. (1912/1952), Simboli della trasformazione, vol. 5 Opere, Bollati Boringhieri, Torino
  • Jung C. G. (1928), L’Io e l’inconscio, vol. 7 Opere, Bollati Boringhieri, Torino
  • Jung C. G. (1947/1954), Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, vol. 8 Opere, Bollati Boringhieri, Torino
  • Trevi M. (1996), Metafore del Simbolo, Raffaello Cortina, Milano.

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