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Le topologie corporee

28 Set 16

A cura di antonello.sciacchi16

Il corpo è re.
Albert Camus, Il mito di Sisifo, 1942

 
Generalità

Preconizzata da Leibniz, nominata come tale da Listing nei Vorstudien zur Topologie (1848), promossa da Riemann nello studio sulle superfici n volte connesse per funzioni abeliane (1857), fino all’analisi delle varietà di Poincaré (1895-1905), la topologia è andata man mano dimostrandosi una branca della matematica adatta all’analisi della res extensa cartesiana. Dell’enigmatica cosa, irriducibile a ogni riduzione spiritualista, la topologia è andata man mano scoprendo segreti, rivelatisi poi anche intuizioni unificanti di branche diverse della matematica, dalla teoria dei numeri a quella delle equazioni differenziali. Ma le acquisizioni topologiche si stanno dimostrando cariche di connotazioni filosofiche, interessanti e feconde anche in campi extra-matematici, come quelli psicanalitici, dove contribuiscono a pensare quella cosa sfuggente, a metà tra l’astratto e il concreto, che è il corpo soggettivo.

Concettualmente, la topologia studia come gli spazi geometrici sono coesi. Insieme a quello algebrico che, grazie agli arabi, ha introdotto la scrittura al cuore della matematica, l’approccio topologico ha prodotto una transizione epocale nel pensiero meccanicistico che, a differenza di quello idealistico, privilegia i rapporti locali tra particelle elementari a prescindere da essenze o proprietà universali. La geometria moderna è topologica nel senso che studia meno, come faceva Euclide, le figure di uno spazio ideale, rimasto tale fino a Kant, e più la pluralità degli spazi come tali, confrontando tra loro anche spazi non euclidei. In particolare, la topologia ci dice come stanno insieme, localmente e globalmente, i punti dello spazio; lo dice a prescindere dalla nozione di misura; dimostra che la misura è solo uno dei tanti modi possibili in cui i singoli punti dello spazio si rapportano l’uno all’altro e ai loro insiemi in base a certe relazioni di vicinanza. In questo post cercherò di mostrare come considerazioni topologiche siano congeniali all’approccio psicanalitico ai corpi soggettivi individuali e collettivi nella misura in cui questi sono intesi in modo meccanicistico, cioè come sedi di simmetrie locali e globali tra parti costituenti elementari: i punti dello spazio e i loro intorni.

Semplificando molto, i settori di studio della topologia sono quattro: separazione, connessione, compattezza e metrizzabilità degli spazi, detti appunto topologici. Semplificando ancora di più, riunendo i primi due settori come il recto e il verso della stessa medaglia e riducendo la metrizzabilità (la proprietà che Cartesio chiamava estensione) a condizioni di connessione, compattezza e numerabilità, la topologia si occupa in sostanza solo di due “cose”: la connessione e la compattezza. E di connessione e compattezza mi occuperò qui, parlando dei corpi soggettivi, considerandoli secondo l’approccio moderno come spazi topologici.

Una topologia su un insieme si può definire in più modi equivalenti: attraverso l’operatore di chiusura, attraverso i punti limite, attraverso i chiusi, attraverso gli aperti. Nel precedente post sull’oggetto infinito del desiderio (http://www.psychiatryonline.it/node/6351 ) ho dato la definizione che ritengo più semplice: quella attraverso gli aperti, che ripropongo.

In concreto, una topologia su un insieme è una famiglia di suoi sottoinsiemi, detti aperti, che soddisfano due condizioni: qualunque unione di aperti è ancora un aperto; l’intersezione finita di aperti, a cominciare da due aperti, è ancora un aperto. Per esempio, la topologia euclidea della retta reale ha come base gli intervalli aperti, cioè senza estremi. Qualunque unione di intervalli è un aperto; l’intersezione di due intervalli è un intervallo, quindi è un aperto.

Gli aperti, poi, definiscono gli intorni di un punto (di un insieme) come insiemi che contengono un aperto che contiene quel punto (quell’insieme). Una topologia trasforma un insieme senza struttura, detto sostegno, in un insieme con struttura, cioè in uno spazio topologico. Concettualmente, uno spazio topologico è una coppia ordinata formata dall’insieme dei suoi punti – il sostegno dello spazio – e dalla sua topologia – l’insieme dei suoi aperti, che porge la struttura dello spazio. Ovviamente, topologie diverse trasformano lo stesso sostegno in spazi topologici diversi, perché diversamente strutturati.
 
Compattezza
La compattezza generalizza la nozione di finitezza … all’infinito. Dice come si può passare in rassegna l’infinito con strumenti finiti senza incappare in paradossi.
Di tale generalizzazione abbiamo bisogno proprio perché presuppongo che i corpi soggettivi, sia individuali sia collettivi, siano spazi infiniti. Su questa presupposizione ci sarebbe molto da dire. Qui mi limito a due considerazioni, la prima negativa: l’infinito è stato il grande “fuorcluso” della cultura classica e prescientifica (sinonimi!), fondata sull’ideale della misura. Poiché l’infinito non è misurabile, la cultura classica, fondamentalmente idealista, l’ha escluso dal proprio discorso. Una psicanalisi che oggi si pretenda scientifica – ma quanti psicanalisti “classici” nutrono simile pretesa? – non può non affrontare l’infinito come presupposto e artefice del desiderio. Ma non è facile trattare l’infinito, perché si tratta di prendere le distanze da un certo idealismo, ormai congenito nel nostro senso comune, praticamente innato e fondamentalmente ostile a tutto ciò che non è codificabile, concettualizzabile e in qualche senso “normale”. Per la cultura idealistica l’infinito ha la connotazione del patologico (o ossessivo o religioso). Meglio far finta che non esista.
La seconda considerazione è semipositiva. L’infinitezza del corpo mi serve a escludere dal discorso psicanalitico ogni contaminazione biologica diretta. Il meccanicismo della selezione naturale individuale e di gruppo è benvenuto in biologia, ma non si applica alla psicanalisi per la semplice ragione che in psicanalisi non è in gioco la prolificità dei soggetti individuali e collettivi.
Allora le nozioni di compattezza – dico subito che ce n’è più di una – consentono di abbassare il livello di infinitezza al quale si opera, quasi nel rispetto di una diffusa esigenza idealistica. Come si sa da Cantor in poi l’infinito non è uno. L’infinito più “semplice” è quello equivalente – Cantor definì l’equivalenza tra infiniti come corrispondenza biunivoca tra elementi di due insiemi – all’insieme dei numeri naturali: 0, 1, 2, 3, …, che allora si chiama infinito numerabile. Da lì in su si danno infiniti sempre più “grandi”, nel senso di sempre più ricchi di elementi (una nozione qualitativa, non quantitativa, cioè legata a qualche forma di misura). Noi non ci spingiamo oltre l’infinito non numerabile del continuo, cioè della retta euclidea dei numeri reali. Ci basta considerare i primi due livelli di infinito come livelli diversi di diversità. I numeri naturali sono tutti diversi tra loro, ma i numeri reali sono, in un certo senso, ancora più diversi tra loro. Il numero quindici è diverso, diciamo a livello 1, dal numero diciassette, nel senso che quindici e diciassette differiscono per una cifra decimale, la prima da destra, ma la radice di due differisce molto di più da pi greco. Infatti,

radice di 2 = 1,41421356237309504880168872420969807856967187537694…
pi greco      = 3,14159265358979323846264338327950288419716939937510…

I due numeri, uno algebrico, l’altro trascendente, differiscono per molte cifre della loro rappresentazione decimale; ricorrono solo sette uguaglianza nelle prime 50 posizioni dopo la virgola. Le differenze cifra per cifra vanno avanti quanto si vuole? Per assurdo si dimostra che pi greco è un numero infinitamente differente da radice di 2. Supponiamo, infatti, che gli sviluppi decimali di pi greco e di radice di 2 coincidano, tranne che per un numero finito di posizioni; supponiamo cioè che da una certa posizione in poi dei loro sviluppi decimali tutte le cifre siano uguali. Allora pi greco sarebbe la soluzione di un’equazione algebrica, come radice di 2, mentre si sa che pi greco non è un numero algebrico, cioè non è soluzione di equazioni algebriche (von Lindemann, 1882).

La topologia analizza con strumenti qualitativi (appartenenza a insiemi) e quantitativi (funzioni di distanza o metriche) i diversi livelli di diversità: dalla diversità zero, o uguaglianza, alla diversità infinita. Esisteranno quindi infiniti gradi di transizione da un livello di diversità maggiore a uno minore; esisteranno, cioè, diversi gradi di compattezza. Ecco perché i topologi parlano di tante forme di compattezza: c’è la compattezza propriamente detta, la paracompattezza, la pseudocompattezza, la compattezza locale, la compattezza di Lindelöf, la sigma-compattezza numerabile, la compattezza sequenziale per successioni ecc. Per semplicità mi fermo al primo gradino: la compattezza semplice, che fa scendere da qualunque infinito al finito; la semplice è una compattezza di tipo spaziale; insieme alla compattezza sequenziale, che è di tipo temporale, è una richiesta molto forte (spazi compatti sono anche paracompatti) e facile da testare, come si vedrà dalla definizione.
Come? Occorre servirsi della nozione ausiliaria di ricoprimento aperto. Si dice che una famiglia di aperti ricopre un insieme se l’unione degli aperti della famiglia contiene l’insieme dato. Si pensi alla topologia come “toppologia”, cioè come insieme di toppe (gli aperti). Una famiglia di toppe ricopre un insieme se, una volta riunite, nascondono l’insieme. Si dice che uno spazio è compatto se per ogni ricoprimento aperto esiste un sottoricoprimento finito che ancora ricopre lo spazio. Qualunque sia la famiglia di toppe che nasconde l’insieme è sempre possibile estrarre un numero finito di toppe che ancora lo nascondono. In un certo senso il ricoprimento finito “trasmette” la propria finitezza all’insieme, anche se l’insieme è infinito. Nella topologia della retta reale i compatti sono gli intervalli chiusi e limitati che contengono gli estremi.

Prima di andare avanti, faccio notare la struttura logica della definizione di compattezza. Essa combina i due operatori logici, il quantificatore universale (per ogni) e l’esistenziale (esiste almeno uno), in un modo caratteristico della matematica moderna, che non fu familiare all’antico Euclide. La definizione di compattezza afferma che per ogni ricoprimento x esiste almeno un sottoricoprimento finito y tale che…. Esercitandosi un poco con qualche teorema, si nota che molto spesso è possibile ridurlo a questo formato logico: per ogni x c’è un y. Tutte le funzioni matematiche rientrano in questo schema. La stessa forma vale per i teoremi psicanalitici? Domanda scabrosa.

Dopo l’infinitezza, la compattezza è la seconda caratteristica che richiedo a un corpo soggettivo. Perché? La ragione è clinica. Se è vero che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, come giustamente vide Lacan, contiene infinite combinazioni significanti. Se è compatto, allora è possibile trattare il corpo inconscio (altro nome per “anima”) con un numero finito di significanti. Questo non vuol dire né che l’analisi sia terminabile né che sia interminabile; vuol dire che si può arrivare alla sua fine, magari in un tempo indefinito e molto lungo, che non si può prestabilire prima. Le cosiddette psicanalisi brevi sono un artefatto della psicanalisi medica, che non tratta l’infinito. Insomma, i corpi sia pubblici sia privati, sia collettivi sia individuali, trattabili con la topologia psicanalitica, sono compatti (o “finitizzabili”) e come tali li tratta la cura analitica. In questo senso l’analisi arriva sempre a dare una risposta all’analizzante che ne ha fatto domanda, se ha la pazienza – si chiama “paziente” non a caso – di passare in rassegna tutti i significanti che la domanda “ricopre”.

Quale potrebbe essere il significato psicanalitico, in particolare freudiano, della nozione di compattezza? Il sottoricoprimento finito, che negli spazi compatti esiste per ogni ricoprimento, è una Besetzung dell’oggetto mediante una quantità finita di cariche libidiche. Besetzung è solitamente tradotto in italiano “investimento”. La terminologia economico-finanziaria perde il riferimento topologico alla “copertura” e alla “occupazione”. Non dimentichiamo che be-setzen combina be, il prefisso che rende il verbo transitivo, e sitzen “sedersi sopra”; il significato finale di Besetzung è simile a “ricoprimento”; è “occupare un posto” o “ricoprire un incarico”. La topologia ce lo ricorda.

Forse a prima vista non si nota, ma la compattezza offre anche un modo topologico per formalizzare quella fondamentale proprietà dell’inconscio, detta rimozione originaria (Urverdrängung), da Freud introdotta ma teoricamente (quindi clinicamente) poco sfruttata sia da lui sia dai suoi allievi. Se dall’insieme infinito dell’inconscio si estrae di volta in volta (per un numero finito di volte) un numero finito di significanti, la conseguenza è che ci saranno dei significanti che non saranno mai selezionati. O, come dice Freud, ci saranno delle rappresentazioni che non saliranno mai alla coscienza. La topologia fa a meno di riferimenti antropomorfi alla coscienza, alla censura, alla rimozione, alle rappresentazioni (regolarmente false), alle fissazioni, insomma a tutti quegli effetti pensati come dovuti a un piccolo uomo dentro l’uomo, ma si attiene a un discorso meccanico e impersonale che prescinde da ogni versione “umana, troppo umana”. Della vita psichica si può parlare senza riferimenti, se non metaforici, alla vita o alla psiche.
 
Connessione

La terza caratteristica che richiedo a un corpo soggettivo è la connessione. Un corpo soggettivo è infinito, compatto e… in una certa misura connesso. Sul punto dovrò dilungarmi un po’. Ammetto che l’idea di connessione deriva dalla mia formazione anatomica, in particolare dalla connessione neurale del sistema nervoso centrale. (Un medico dimentica tutto ma non la struttura del SNC, diceva il mio maestro di anatomia, Angelo Bairati. A 55 anni di distanza confermo.) Probabilmente anche l’idea di dissociazione schizofrenica, come negazione della connessione, venne a Bleuler dalla sua competenza neurologica.

Separazione e connessione sono due facce della stessa medaglia, ho detto. Trattandosi di proprietà topologiche – vedi il caso della compattezza – la topologia le affronta con aperti. Esiste un certo numero di assiomi di separazione, detti Ti, T da Trennung, separazione. Ne cito alcuni, giusto per dare l’idea del modo di ragionare topologico. T0 porge la separazione degli spazi di Kolmogorov: per ogni coppia di elementi a, b dello spazio topologico, esiste un aperto che o contiene a ma non b o contiene b ma non a. L’assioma T1 di Fréchet si spinge oltre: per ogni coppia di elementi a, b dello spazio topologico, esiste una coppia di aperti tali che uno contiene a ma non b e l’altro b ma non a. L’assioma T2 definisce spazi ancora più separati, detti di Hausdorff: per ogni coppia di elementi a, b dello spazio topologico, esiste una coppia di aperti disgiunti (a intersezione vuota) tali che un aperto contiene a e l’altro contiene b. Seguono assiomi che separano elementi e chiusi e chiusi tra loro.

La separazione ammette l’esistenza di certi aperti; la connessione la nega. Uno spazio è connesso se non è l’unione di due aperti disgiunti non banali (cioè diversi dal vuoto e dal sostegno). Intuitivamente, lo spazio topologicamente connesso è “un pezzo unico”. Si dimostra facilmente che uno spazio è connesso se e solo se gli unici insiemi aperti e chiusi sono il vuoto e il sostegno (presenti in ogni topologia). Ovviamente, uno spazio può essere connesso e separato; per esempio, l’intervallo chiuso [0,1] della retta reale con la topologia degli intervalli aperti è separato secondo Hausdorff, connesso e compatto (forse conviene dimostrarlo per esercizio).

Forse la sopra riferita definizione di connessione, che è la più debole, non è la più intuitiva. Intuitivamente, si pensa a uno spazio connesso come a un luogo dove per ogni coppia di punti è possibile disegnare un tratto continuo che unisca il primo al secondo; in termini psicanalitici, si pensa alla connessione come possibilità di transfert dal primo al secondo elemento, dal passato al presente. Allora si parla di connessione per cammini, se il tratto interseca se stesso, e di connessioni per archi, se il tratto non interseca se stesso. La connessione per via di transfert (temporale) implica la connessione topologica (spaziale) ma non viceversa.

Esistono anche altre forme di connessione: la connessione locale (valida per certe famiglie di intorni dei singoli punti dette fondamentali) e la connessione omotopica, concepita da Riemann. Uno spazio è semplicemente connesso se ogni curva chiusa può contrarsi con continuità a un punto. Semplicemente connessa è la superficie sferica (anche multidimensionale, teorema di Poincaré-Perelman). Non semplicemente connesse sono le superfici del toro, della banda di Möbius e della bottiglia di Klein, sulle quali tanto si è affaticata la speculazione di Jacques Lacan. Tutte queste concezioni di connessione formalizzano in modi diversi l’intuizione spaziale di insieme connesso come “fatto di un pezzo solo e senza buchi”.

Le disconnessioni cominciano a presentarsi quando lo spazio è formato da diversi componenti connesse o ha dei buchi. Il caso tipico è quando si introduce nell’insieme sostegno una relazione di equivalenza, che produce una partizione del sostegno in classi di equivalenza disgiunte che sono topologicamente chiuse e aperte. La topologia dell’insieme delle classi di equivalenza è detta topologia quoziente. Essa offre un modello di corpo formato da organi isolati – le componenti in sé connesse – e tra loro debolmente connessi. La topologia meno connessa è la topologia discreta dove ogni singolo punto è una componente connessa. Quando le componenti connesse si riducono ai singoli punti ci troviamo nel caso della polverizzazione estrema degli spazi totalmente sconnessi, che forse hanno qualche attinenza con la schizofrenia.

Infine, come ultima definizione propongo la nozione di dispersione, che non ha connessione con la disconnessione, nel senso che uno spazio può essere disperso, pur essendo connesso. Si dice che uno spazio è disperso se non contiene sottoinsiemi non vuoti densi in sé, cioè ogni insieme non vuoto contiene almeno un punto isolato.
 
Sulle vicissitudini topologiche del corpo

A questo punto è naturale che chi legge si chieda: perché questa girandola di definizioni topologiche, che a molti sembreranno astruse e difficili da assimilare?

Rispondo: perché mi consentono un approccio non antropomorfo alla psicopatologia. Con la topologia si può fare della psicologia senza supporre un piccolo uomo dentro l’uomo: l’Io, il Sé, il Super-Io, l’Es, gli archetipi, il soggetto che parla nel soggetto, in generale la psiche, magari platonicamente immortale. La topologia adotta il motto antiidealistico di Franz von Brentano: eine Seele gibt es nicht (“l’anima non esiste”, Psicologia dal punto di vista empirico, 1874).

Presuppongo l’esistenza di interazioni tra due corpi soggettivi: quello del soggetto individuale e quello del soggetto collettivo, ognuno costituito da “atomi” elementari alla Democrito, tra loro in qualche modo coesi; potrebbero essere i significanti. I significanti non rappresentano nulla, tanto meno il soggetto per un altro significante; semplicemente giocano tra di loro in modo topologico in un ambiente definito dalle loro interazioni. Un aperto è un insieme di significanti che interagiscono o sovrapponendosi con o disgiungendosi dai significanti di altri aperti.

La stessa interazione tra i due corpi soggettivi è una vicenda topologica. L’interazione topologica è mediata dai morfismi topologici, cioè dalle applicazioni continue di uno spazio topologico in un altro spazio topologico, da X in Y. Ricordo che un’applicazione di X in Y è continua se le immagini inverse degli aperti di Y sono aperti di X. L’applicazione suriettiva continua di X su Y è un’identificazione se gli aperti di Y sono tutti e soli i sottoinsiemi di Y tali che la loro controimmagine è aperta in X. L’identificazione topologica del corpo individuale al corpo collettivo è tale che gli aperti dell’individuale non sono altro che gli insiemi le cui controimmagini sono aperte nella topologia del collettivo. Il corpo soggettivo individuale identificato è la fotocopia (per controimmagini) del corpo soggettivo collettivo cui si identifica. Questa nozione di identificazione è più generale di quella freudiana; riguarda tutta la topologia del corpo e non solo un tratto unico, l’einziger Zug del Führer, come dice Freud. È un’identificazione controproiettiva, direi alla Klein. (Dualmente, è un’immersione per l’applicazione iniettiva inversa del corpo individuale nel collettivo.)
Due teoremi tanto semplici quanto fondamentali dicono che i morfismi topologici trasformano spazi compatti e connessi in spazi compatti e connessi, cioè “conservano” la compattezza e la connessione, che sono invarianti topologici. Quindi, procedendo in senso inverso rispetto all’identificazione, cioè dal collettivo all’individuale, si può dire che, se il soggetto collettivo è compatto e connesso, i morfismi topologici producono soggetti individuali compatti e connessi. Diciamo che compattezza e connessione si trasmettono o si trasferiscono topologicamente dal collettivo all’individuale. L’individuo eredita queste proprietà topologiche dal collettivo.

E se il soggetto collettivo non è compatto e non è connesso come sarà l’individuale? Ci sono entrambe le possibilità: il soggetto individuale può risultare tanto compatto quanto non compatto, sia connesso sia non connesso. Trascuro il caso della non compattezza e mi dedico alla connessione.

In generale, il corpo del soggetto collettivo è sconnesso. La sconnessione minimale si ritrova già nella logica del senso comune, la logica aristotelica. Il punto, alquanto paradossale, fu evidenziato da Tarski. Costruendo modelli topologici della logica degli enunciati si possono mettere alla prova i principi fondamentali della logica ontologica che, secondo Hegel, sono tre: il principio di identità, il principio di non contraddizione e il principio del terzo escluso. Presi come modello degli enunciati gli aperti della topologia e definita la negazione (forte) come complemento della loro chiusura (cioè come complemento dell’aperto preso con la sua frontiera), si verifica che in ogni spazio topologico valgono sia il principio di identità (se A, allora A) sia il principio di non contraddizione (non valgono insieme A e non A), mentre il principio del terzo escluso (A vel non A) vale solo in spazi sconnessi, là dove gli aperti coincidono con i chiusi. Implicitamente Brouwer, che fu un grande topologo, sospendendo il principio del terzo escluso, ammetteva per la sua logica intuizionista solo spazi connessi.

Il principio topologico della psicopatologia che tento di imbastire come “psicotopologia” senza psiche è che il corpo individuale è l’immagine del corpo collettivo, la quale rende continuo un opportuno morfismo topologico. È questa la versione topologica del principio di individuazione secondo Jung, sistematicamente trascurato da Freud a favore dei principi (individualistici) di piacere e di realtà. Si intravede qui la possibilità di interpretare in modo non eziologico la follia dissociativa. Se il corpo collettivo è molto sconnesso, il corpo individuale può esserlo altrettanto e il soggetto può disgregarsi, passando a uno stato dissociato (o “scisso”, come si dice anche). La dissociazione, insomma, sarebbe “connaturata” al collettivo in cui l’individuo è immerso. Sarebbe il debito che l’individuo paga per accedere alla comunità. In estrema sintesi, non esisterebbe follia se non esistesse comunità; la comunità è la condizione necessaria alla follia, la sua predisposizione costituzionale, si direbbe in gergo medico, antecedente a ogni causa specifica, genetica, organica, traumatica, simbolica ecc. Il corollario clinico di questa impostazione topologica è che della follia non si dà cura medica individuale ma solo collettiva, precisamente politica.
 
In particolare…

Vediamo ora alcuni casi semplici di sconnessione, assumendo per semplicità che individuale e collettivo coincidano in un processo di individuazione banale. (L’applicazione identica è sempre automaticamente continua). Considero, come ho già detto, solo spazi infiniti e compatti.
Esistono le topologie dell’uno privilegiato, che mi piace chiamare teologiche. L’uno privilegiato può essere incluso o escluso dagli aperti, generando rispettivamente teologie positive e negative. Nella topologia dell’uno incluso ogni aperto contiene il punto privilegiato; in quella dell’uno escluso ogni aperto non contiene il punto privilegiato. Sono entrambe topologie connesse, ma la prima non è compatta. Tanta basta per non considerarla una topologia soggettiva, facendo però osservare che essa è la topologia dell’identificazione di massa secondo Freud. La metapsicologia freudiana non è adatta a pensare i corpi. Questo è vero in generale per ogni approccio teologico: l’identificazione all’Uno, fa passare in secondo piano il corpo. L’operazione si qualifica come ascetismo e come tale fu proscritta da Nietzsche, per esempio nella terza parte della sua Genealogia della morale.

Più interessante dal punto vista psicanalitico è la topologia degli aperti tali che i loro complementari sono finiti. È una topologia T1, compatta e connessa, addirittura iperconnessa, nel senso che ogni coppia di aperti è non disgiunta. In combinazione con la topologia dell’Uno escluso essa porge un esempio semplice di topologia compatta ma non connessa. È la topologia di Fort che dichiara aperti gli insiemi il cui complemento o è finito o contiene il punto privilegiato. Oltre che non connessa è una topologia dispersa.

Questo approccio topologico alla psicologia può lasciare perplessi psichiatri e psicanalisti classici, che finora non vedono risultati clinicamente apprezzabili. È vero, la topologia censura la psicologia freudiana di tipo identificatorio, ma non individua sintomi nuovi. Per esempio, cosa aggiunge la disconnessione topologica alla dissociazione schizofrenica?

Il punto è delicato e va affrontato in una prospettiva filosofica generale. Si tratta della contrapposizione di due forme di pensiero di cui ho già parlato in un post precedente (Due modi di pensare http://www.psychiatryonline.it/node/6379). Da una parte c’è il modo idealistico che pensa per essenze (gli archetipi di Jung) o ipotizza piccoli uomini dentro l’uomo (le topiche freudiane) o tratta delle rappresentazioni (i significanti lacaniani o i freudiani rappresentanti della rappresentazione); dall’altra c’è il modo di pensare meccanicistico che non rappresenta nulla ma ipotizza particelle elementari tra loro interagenti a livello locale, ma senza proporre ipotesi globali. In un certo senso il pensiero meccanicistico è una forma di pensiero “debole”, cioè paradossalmente “senza idee”, praticamente senza rappresentazioni. (Quando i lacaniani di scuola vanno dicendo “io non penso” si avvicinano senza saperlo al pensiero meccanicistico.)

Quello topologico è, appunto, un pensiero meccanicistico: le particelle elementari sono i punti dello spazio topologico (potrebbero essere i significanti); le loro interazioni locali sono descritte dagli aperti della topologia con cui si definiscono gli intorni di ciascun punto. È difficile integrare la topologia, che è meccanicistica al pensiero idealistico. Non è stato felice il modo lacaniano, che ha ridotto la topologia a esercizio scolastico, fondamentalmente mnemotecnico, per rendere i matemi della propria dottrina facilmente memorizzabili e trasmissibili agli allievi. (Mes élèves fu il sintomo di Lacan).

Esistono, tuttavia, alcuni modi di conciliare la topologia con il pensiero antropomorfo. Un modo compromissorio sarebbe quello proposto da Bleuler attraverso i “complessi ideo-affettivi”, che potrebbero essere interpretati come gli aperti dello spazio psichico. Di possibilità freudiane ne riconosco almeno due: quella pulsionale e quella transferale. Le pulsioni vanno incontro a “mescolamento” (Mischung) e “smescolamento” (Entmischung) con riferimenti alla filosofia “fisiologica” di Empedocle, che fa ritorno nelle moderne teorie del caos. Lo spazio pulsionale sarebbe dotato di una certa “collosità” o Klebrigkeit, dovuta alla vischiosità dell’energia libidica. Più diretta è la modalità transferale. Freud – non dimentichiamolo – non scoprì solo l’inconscio ma anche il transfert, che si può considerare una forma di connessione topologica. Il transfert si attuerebbe, infatti, passando da un punto a un altro punto topologicamente connesso nella storia del soggetto (connessione per archi o per cammini temporali di solito perifrastici). Le psiconevrosi narcisistiche, che Freud contrappose alle psiconevrosi da transfert, corrisponderebbero ai tipi di schizofrenia secondo Bleuler: paranoide, catatonica, ebefrenica e semplice; pertanto si potrebbero interpretare come spazi topologici totalmente sconnessi, quindi senza possibilità di transfert perché senza storia (senza tempo).
Un esempio concreto di spazio compatto (quindi corporeo), la cui chiusura è priva di punti interni (quindi soggettivo) e totalmente sconnesso (quindi senza tempo), è l’insieme di Cantor, che ho già citato nel post su Il corpo topologico del 28 luglio (http://www.psychiatryonline.it/node/6358) e su cui mi intratterrò prossimamente come possibile modello del corpo schizofrenico. (Curiosamente, Cantor sviluppò una follia senile simile a quella di Nietzsche, ma meno maniacale).

Sappiamo della cattiva interazione tra le scuole “psi” di Zurigo e di Vienna, che portò alla prima grande frattura nel movimento psicoanalitico del 1912. Non tocca a noi sanare il conflitto, anche perché fu un conflitto interno al modo di pensare idealistico, che ci interessa meno di quello meccanicistico. Però cominciare a pensare in termini meccanicisti anche in psicologia potrebbe non essere del tutto negativo. La topologia offre una via agli psicologi di buona volontà, o forse solo a quelli più curiosi, per affrontare il corpo del soggetto e la connessa vita psichica in modo più scientifico e meno idealistico (ideologico) di quello corrente.
 

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